Wednesday, December 29, 2010

Lentamente muore


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi
chi non cambia la marcia
chi non rischia
chi non cambia il colore dei vestiti
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione
chi preferisce il nero su bianco
piuttosto che un insieme di emozioni
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore ed ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo
chi è infelice sul lavoro
chi non rischia la certezza
per l'incertezza d'inseguire un sogno
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati
chi sceglie sempre la strada battuta.

Lentamente muore chi non viaggia
chi non legge
chi non ascolta buona musica
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o
della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima d'iniziarlo
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.

Per evitare la morte a piccole dosi
bisogna sempre ricordare di essere vivi
e fare uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.

E allora l'ardente pazienza e il coraggio
porteranno
al compimento
di una splendida felicità.

Sunday, December 26, 2010

The Peacock Tale


«I do not believe that any peacock envies another peacock his tail, because every peacock is persuaded that his own tail is the finest in the world. The consequence of this is that peacocks are peaceable birds. Imagine how unhappy the life of a peacock would be if he had been taught that it is wicked to have a good opinion of oneself. Whenever he saw another peacock spreading out his tail, he would say to himself:

‘I must not imagine that my tail is better than that, for that would be conceited, but oh, how I wish it were! That odious bird is so convinced of his own magnificence! Shall I pull out some of his feathers? And then perhaps I need no longer fear comparison with him.’

Or perhaps he would lay a trap for him, and prove that he was a wicked peacock who had been guilty of unpeacockly behavior, and he would denounce him to the assembly of the leaders. Gradually he would establish the principle that peacocks with especially fine tails are almost always wicked, and that the wise ruler in the peacock kingdom would seek out the humble bird with only a few draggled tail feathers. Having got this principle accepted, he would get all the finest birds put to death, and in the end a really splendid tail will become only a dim memory of the past. Such is the victory of envy masquerading as morality. But where every peacock thinks himself more splendid than any of the others, there is no need for all this repression. Each peacock expects to win the first prize in the competition, and each, because he values his own peahen, believes that he has done so».

(Abstract from: Bertrand Russell, The Conquest of Happiness, Allen & Unwin, London 1930).

Saturday, December 25, 2010

Su un’etimologia riconducibile al De Necromantica Siracusana


Risale al mese scorso la pubblicazione, da parte del saggista svedese Klaus Nýr, professore emeritus dell'università di Stoccolma, di un consistente volume dal titolo On Ancient Scandinavian Etymologies (Arcadia Publishing, Estevan), un libro estremamente complesso e impegnativo dove si accenna anche ad una versione del De Necromantica Siracusana, un antico grimorio che prende il nome da fatti avvenuti nell’antichità a Siracusa, la cui unica edizione fino ad oggi conosciuta era quella gelosamente custodita nella biblioteca dell'Università di Princeton, mentre il professor Nýr parla di un’altra copia da lui rinvenuta nella biblioteca centrale dell’Università di Mosca.
Nel quarto capitolo del suo libro sulle antiche etimologie scandinave il professor Nýr discute della possibile esistenza di un manoscritto cinquecentesco intitolato De Historia dracorum, attribuibile ad Olaus Magnus, autore dell'Historia de gentibus septentrionalibus (Romae, 1555). Nella sua dotta argomentazione il professor Klaus Nýr parte da una serie di osservazioni e immagini sulle serpi oceaniche che divorano gli equipaggi delle navi contenute nell'Hist. de gentibus septentrionalibus, insieme ad accenni similari provenienti da Saxo Grammaticus (Gesta Danorum, imprese dei Danesi) e nell'Ágrip af Nóregs konunga sögum (Compendio delle saghe dei re norvegesi, ed. F. Jonsson, Halle 1929), fino a menzionare una pergamena del XVII secolo, dove viene riportata l’esistenza, sotto forma di manoscritto rilegato, del De Historia dracorum, cenni del quale sono anche citati nel De Necromantica Siracusana.
Il professor Nýr non si limita però a dimostrare l’esistenza di questo antico manoscritto ormai perduto, ma tenta, grazie ad una molteplicità di altri riferimenti indiretti, di compiere una parziale ricostruzione del testo smarrito, arrivando anche ad ipotizzare uno scomparso "culto dracorum" praticato nei Paesi scandinavi fino al tardo periodo della cristianizzazione. A sostegno della sua affascinante tesi Nýr utilizza la Kristini Saga (Saga della cristianizzazione, ed. B. Kahle, Halle 1905) ed i Von Unaussprechlichen Kulten (Sui culti innominabili) di Friedrich von Junzt (anche se, a proposito di quest’ultimo controverso volume, c’è da ritenere per molti motivi che la citazione sia particolarmente inesatta).
Nel quinto capitolo il professor Nýr fa riferimento alla copia moscovita del De Necromantica Siracusana, di cui fino ad oggi si ignorava l’esistenza, come grimorio simbolo di alcuni culti innominabili, come quello dedicato a Dioniso Melemigis, e afferma di aver tradotto alcuni punti in duriaco e di aver trovato diverse pagine di passi in copto con gli occhiali – le menzionate “lettere con gli occhiali” sono un espediente di deformazione della scrittura che ritroviamo già negli ambienti tardoegiziani della grecità alessandrina, così come all'interno della tradizione cabalistica ebraica e negli autori arabi che si occupavano di materie occulte. L’uso copto delle lettere con gli occhiali è spesso testimoniato in molti manoscritti e in Europa Cornelio Agrippa, nel De occulta filosofia (1510), giunge a definire questo sistema di scrittura come scriptura celestis.
In questa sua raccolta di scritti il prof. Nýr anticipa – e speriamo presto – una prossima traduzione e pubblicazione di queste parti dal De Necromantica Siracusana che definisce, lusinghieramente, come “a sort of opposite Beowulf (una sorta di Beowulf al contrario)”.
Una delle rare limitazioni nel volume del professor Nýr è il fatto che egli assume l’idea del culto rivolto ai draghi solo nel suo aspetto maligno, non considerandone invece le profondità simboliche espresse anche in molte tradizioni antiche in cui il drago viene invece visto come simbolo di saggezza o come simbolo di unione della materia e dello spirito (poiché riunisce in sé l’aspetto del serpente e quello dell’uccello – in Cina il drago è ancor’oggi un simbolo interamente positivo). Il volume del professor Nýr, invece, tenta di dimostrare la trasformazione di questo concetto del “drago maligno” in una terminologia atta a descrivere oggetti e rituali magici negativi. Egli parte da una citazione contenuta nella Historia Norvegiae (Monumenta Historica Norvegiae, ed. G. Storm, Kristiania 1880) in cui viene descritta la predizione del futuro da parte degli stregoni ed in cui viene dichiarato che essa avviene per immundum spiritum quem gandum vocitant, per mezzo di uno spirito immondo che chiamano gandum (pp. 82-87 De Finnis). Nella mitologia nordica questo demone viene chiamato con il nome Gandr, che indica una molteplicità di cose da “bacchetta magica”, “magia”, “oggetto magico utilizzato da streghe”, fino a “lupo” o “mostro”. Gianna Chiesa Isnardi ha scritto in merito: “Nella varietà di significati è espresso il concetto fondamentale del demone come essenza magica che determina la qualità di un oggetto o di un animale”.
In On Ancient Scandinavian Etymologies il professor Nýr collega il termine Gandr ad un’antica etimologia del nome usata per indicare l’aspetto nefasto del drago e deriva persino l’origine della magia nera presso i popoli scandinavi da quest’associazione. Egli descrive poi anche alcune tribù vichinghe dell’era di Vendel (la più antica era vichinga cui appartengono le navi tomba ritrovate nell’Uppland – Svezia centrale) interamente dedite a “culti neri”: queste tribù erano, non a caso, le più temute tra le popolazioni vichinghe (cenni a queste tribù si trovano anche nel volume del 1959 di E. G. Oxenstierna, Die Wikinger). Queste tribù furono autrici, nelle loro scorrerie sui mari, di ferocissime stragi e persino atti di cannibalismo rituale. Alla fine il professor Nýr suppone (come già Jones) che queste tribù, combattute anche dagli altri Vichinghi, si siano rifugiate, insieme ai loro “culti innominabili”, al di là dell’Atlantico sostenendo anch’egli, seppur indirettamente, la tesi della conquista vichinga dell’America.
Tornando al tema del Gandr è doveroso osservare che, pur nella sua monumentale erudizione, il professor Nýr non si avvede che nel De Necromantica Siracusana si parla di una denominazione Ittita per indicare un demone capace di assumere anche la forma di un grande serpente marino la cui trascrizione, riportata in un greco approssimativo, è γανδυς (a meno che questa parte del De Necromantica manchi nella copia russa)! Oltre alla sconcertante similarità fonetica si può anche arrivare ad ipotizzare una linea di contatto linguistica tra cultura ittita e culture nordiche, spiegando l’origine del termine sulla base di una serie di trasmissioni linguistiche. La lingua celtica continentale infatti, insieme al greco o, per l’appunto, all’hittita del caso in oggetto, appartiene al gruppo linguistico indoeuropeo centum (contrapposto al satem per una differenza tra consonanti palatali); è attraverso la mediazione della vastissima area culturale celtica che il termine può esser giunto, trasformato foneticamente ma non del tutto semanticamente, nelle aree delle culture scandinave.
Il rapporto e l’interscambio culturale tra popolazioni del Nord e del Sud Europa, oltre ad essere archeologicamente ben documentato, è attestato nel tessuto mitologico come, ad esempio, quando Sigurdr si dirige verso il Paese dei Franchi, dove scioglie l’incantesimo della valchiria Sigrdrifa (Brunilde), destandola dal suo lungo sonno e ricevendo, come ricompensa, la sua promessa d’amore e la saggezza trasmessagli dalla valchiria con l’insegnamento delle rune. Questo mito, e diversi altri, testimoniano proprio un passaggio diretto di contenuti culturali. Forse prendendo anche spunto da questo contesto il professor Nýr suppone che la copia moscovita del De Necromantica Siracusana sia arrivata fino in Russia al seguito di popolazioni scandinave dirette verso la Mongolia o la Siberia: quello che egli assume per certo è che il volume contenga interpolazioni appartenenti alle popolazioni scandinave e sarebbe giunto in Danimarca prima, e immediatamente dopo in Svezia, nel periodo delle guerre galliche, insieme ad un gruppo di superstiti del Popolo Scuro degli Averoni menzionati negli Annales di Flavio Alesio. Queste popolazioni, secondo Nýr, erano depositarie di un “grimorio errante” rappresentato dal De Necromantica Siracusana. In effetti la tematica relativa alla tribù degli Averoni (Averones) è più complessa di quanto non appaia, poiché in molti hanno utilizzato questo popolo anche con fini fantastici (come nel caso di Clark Ashton Smith ed altri). Il professor Ludwig Rachenarren, citato da Nýr a sostegno della sua ipotesi, riporta a sua volta una citazione non specificata di un erudito americano: «la tribù degli Averones (...) portò con sé un grimorio infernale conosciuto in epoche successive come Liber Ivonis o Livre d’Eibon. Erano una razza scura dedita al culto di Tsathoggua, Sodagui o Sadoqua, che imposero nella regione in cui si stabilirono; come conseguenza, in epoca gallo-romana la regio Averonu, o Averonia, fu temuta come il luogo in cui si praticava una forma di terribile negromanzia. Particolarmente aborrite erano le città di Simaesis (Ximes) e Avionum (Vyones), dove fiorivano nell’oscurità culti particolari. Timidi riferimenti agli averoni e ad Averonia si trovano in autori gallo-romani poco conosciuti. (...) Nell’orrendo poema negromantico De Noctis Rebus (circa 390 d.C.), Treviro allude in questi termini agli averoni: Niger. Informisque. Vt. Numen. Averonum. Sadoqua., che nella traduzione inglese di Teobaldo, stampata privatamente nel 1711, suona così: Nero e informe come zolla d’inferno. L’aborrito Sadoqua, dio di Averonia”. Nelle leggende merovinge e carolinge esistono oscuri riferimenti agli averoni» (p. 357). Anche questa parte della ricostruzione presenta purtroppo non pochi problemi di storicità e autenticità sui quali è forse superfluo dilungarsi al momento.
E' probabile che una delle città di cui si fa cenno fosse la città fortificata di Alesia, sul monte Auxois, in quella che i Romani chiamavano Gallia Transalpina, città assediata da Cesare nel 52 a. C. e difesa da Vercingetorige (De Bello Gallico, VII, 69 sgg.); alle falde di quel monte sorge oggi il villaggio di Alise-Sainte-Reine nel dipartimento della Côte-d’Or. Le ipotesi che lo scritto del professor Nýr contribuisce a creare sono molte e suggestive e il tempo sarà, in proposito, certamente foriero di nuovi ed interessanti sviluppi.

Sergio Caldarella

Friday, December 24, 2010

Merry Christmas!

A Christmas candle is a lovely thing;
It makes no noise at all,
But softly gives itself away;
While quite unselfish, it grows small.


Wednesday, December 15, 2010

Tin Man’s gift


Would the Tin Man from The Wizard of Oz, still ask for a heart if he knew what a burdensome and tricky organ this is? Would the Trojans ask for the wooden horse if they knew what was hiding inside of it? Would anyone walk into a street knowing that an assassin is waiting in there?
Many people would answer all this questions with a clear “no”. Knowing what happens next, nobody would take the less traveled road and that’s one of the reasons why so many people spend a lot of energy trying to evaluate the future and to guess what’s next. In truth nobody knows what’s next and even the well traveled road could be the one hiding the highest danger. Those who are afraid of life will just escape from light for fear of darkness. But the Tin Man has no fear, he knows something the others don’t; the Tin Man knows that life is made of the risks we take, that if you’ll never jump you’ll never live. You might stay safe, avoid the countless risks you don’t know, but at the same time you won’t go far in the real life, you’ll stay there, where everyone else is, where you have always been, and life is going to look like a safe empty room where the only reason to wake up is to pile another day in the necklace of time, not because you couldn't fall asleep for the reason that reality is more beautiful than any dream you could ever have dreamed.

(Dr. Divago)

Saturday, November 27, 2010

Il cimitero di Praga


Umberto Eco, il pensator dei pensatori d'Italia, ha assemblato un nuovo scritto per il grande pubblico dal titolo Il cimitero di Praga. Il libro del professorone, già dai suoi primi vagiti, si trova in cima alle classifiche dei giornali e tradotto in diverse lingue. Questo libro è uno tra i tanti scritti di Eco in cui egli miscela la storia al racconto dando al lettore l'impressione di condividere la presunta erudizione del suo autore.
Eco possiede certamente molti libri ed anche quella forma peculiare dell'erudizione contemporanea che costituisce nel sapere quello che tutti gli altri sanno, magari con una sfumatura un po' diversa e un certo tocco di snobismo. Infatti in quest'ultimo libro, come al solito, non racconta nulla di nuovo ed anzi, il suo raggruppare citazioni di autori ed epoche diverse contribuisce proprio all'andazzo contemporaneo di mettere tutto in un bel calderone e dargli il nome di “nuovo”. Un po' come il pane con la milza (meuza) che vendono a Palermo, dove tutte le frattaglie di carne vengono messe in un grosso calderone e poi, calde e oleose, sbattute nel mezzo di un bel pezzo di pane. Così, nello stesso discorso attribuito al personaggio de Il cimitero di Praga, si trovano citazioni di Céline, Garibaldi, Nietzsche, e persino una "dotta" disquisizione di Bériot sulle capacità fecali teutoniche, messe tutte insieme, come se fossero state pensate dalla stessa testa e nella stessa epoca. Anche se questo assemblaggio sincretico passa per elevatissima cultura è invece quello che oggi si chiama con altro termine prestato dall'informatica, un processo di "copia e incolla". L'Alfieri avrebbe forse parlato di "colta corruzione" (Del Principe e delle Lettere, Libro II).
Eco del resto consola, rassicura, perché da buon politico quale è, sa come ammiccare al lettore e come raccontargli un fatterello dandogli l'idea di entrare in chissà quali stanze dell'intelletto e invece li accompagna soltanto nell'anticamera della casa di lenocinio che è l'Accademia e, conseguentemente, la cultura contemporanea. Ma del resto questo reinventare e rendere malleabili i fatti e la storia non è quello che fa il cinema a tutto spiano quando ti racconta dell'assedio di Troia con gli eroi Achei alti e dai capelli biondi o le vicende di Spartaco con l'orologio al polso? Ma anche la televisione, quando troppo spesso racconta una realtà che non assomiglia ormai in nulla e per nulla a quello che si vede fuori dall'uscio di casa. Sono cose alle quali dovremmo ormai essere abituati ed Eco sa benissimo come trarne vantaggio, se del resto c'è una cosa che rende Eco uno tra i più contemporanei intellettuali italiani è proprio la sua abilità nel trarre vantaggio dalle situazioni. Nei suoi exploit giornalistici il Nostro lamenta la perdita di memoria culturale dovuta all'inflazione d'informazione o alla scarsa attendibilità degli strumenti tecnologici moderni nella conservazione dell'informazione, ma di quello che fa lui, del suo esser sempre stato dalla parte di quelli che della cultura fanno vizio, di questo non si preoccupa, non se n'é mai preoccupato, né mai se ne preoccuperà.
Il cimitero di Praga è un racconto al cui centro si pretende vi sia uno dei più pericolosi testi antisemiti mai scritti, ossia i Protocolli dei Savi di Sion, la cui creazione viene da Eco attribuita al Simonini del suo libro. Ma il racconto sulla creazione dei Protocolli è molto più complessa e se uno vuole davvero conoscerne la storia farebbe bene a leggere il miglior libro che sia mai stato scritto in proposito ossia il trattato di Norman Rufus Colin Cohn Warrant for Genocide: The Myth of the Jewish World Conspiracy and the Protocols of the Elders of Zion (tradotto da Einaudi con Licenza per un Genocidio. I Protocolli degli Anziani di Sion). Ma anche il libro a fumetti di Will Eisner (The Plot. The Secret Story of the Protocols of the Elders of Zion) è molto meglio del romanzo di Eco, anche se quest’ultimo può ben proteggersi dietro lo scudo dell’invenzione letteraria. Eco fa sempre dei collage di cose che si sanno già ma questo, come dicevamo, serve per non far sentire il lettore troppo insicuro. Ci troviamo oggi in una situazione di naturale degrado della cultura e, conseguentemente, dell'intera società, ed Eco è solo uno dei tantissimi che si curano - e si sono sempre curati - unicamente di trarne vantaggio.
La stessa curiosità intellettuale di cui Eco si vanta è in gran parte una curiosità oziosa, si occupa di minuzie, le stesse che oggi finiscono in un quiz televisivo o sotto il tappo di una bottiglia di té Snapple.
Umberto Eco non cadrà ingloriosamente come altri, finirà i suoi giorni tranquillo e poi svanirà così com’è svanita Carolina Invernizio, per citarne solo una, così come svaniranno le varie Dacia Maraini, Susanna Tamaro e compagnia brutta.
Suggestivo pensare che quando la cultura ebbe origine aveva anche lo scopo di fare da contraltare alla mediocre volgarità di questa gente.
Sergio Caldarella

Tuesday, November 16, 2010

Star bene



"Star bene" è un modo per essere senza essere. Per vivere davvero non bisogna star bene, si deve stare "meravigliosamente".

(Dr. Divago)

Thursday, October 28, 2010

Blackjack


Fools are those who believe that there is a reason in the game, just because we’re forced to follow his rules. We might ask, what’s the game? But we will never know, because we are trapped between the beginning and his end, just two points in an infinite landscape of possibilities. Strange cities I have seen, weird and amazing places, train stations at night and dirty yards, all different, but in a way all the same. Swimming on the surface is not catching the ball. Only a tiny line divides the wise from the drunkard as much as a tiny layer divides the mirror from the image it reflects. A panther jump in a forest and on the other side of the world a baby is born. Apparently two unconnected, unrelated events. But events in themselves have no meaning; it’s your bet on them that makes them relevant. An idea, a word, a person, they enter in your head when you can relate to them, if for some reason they have a meaning for you. Like cards on a blackjack table.

© Sergio Caldarella

Wednesday, October 20, 2010

CAMPAGNA DI PROMOZIONE DEL LIBRO DI QUALITÀ



MANIFESTO PER UNA CAMPAGNA DI PROMOZIONE DEL LIBRO DI QUALITÀ

La campagna per la promozione del libro di qualità si rivolge a tutti quegli uomini e donne di cultura i quali percepiscono il sapere come un prezioso bene, la cui custodia è affidata a tutti noi e sentono la necessità di reagire alla mercificazione vigente, grazie alla promozione e diffusione del libro di qualità. I libri mal scritti, poveri di idee, senza parole nuove o pensieri originali, impoveriscono tutti e rendono la cultura sempre più debole nei confronti del potere, sia esso politico, economico o semplicemente numerico. In un contesto svilito e avvilente come quello contemporaneo, dove la cultura è ancella di chi ha e di chi decide, nessuno può contestare il gergo artefatto dell’economia capitalista e il linguaggio suadente e banale della politica. Abbassare la qualità della cultura di un popolo significa renderlo più docile agli intendimenti di chi detiene i mezzi per determinarne i fini.
Il declino dell’evidenza logica e delle belles lettres rendono le società ancora più vulnerabili all’influenza di faccendieri e semplificazioni populiste, lasciando il campo libero all’imporsi di pseudomessaggi, dottrine raffazzonate e pseudosoluzioni a problemi complessi creati da una tecnocrazia indifferente ai fini autenticamente umani.
Per la mentalità economicista "vendere" significa imporre una merce, non creare qualità, così per costoro è essenziale creare un’aura intorno ad un prodotto per far sì che esso “si venda”: a tal fine esistono arti di convincimento definite con nomi pomposi ed un intero apparato pubblicitario e propagandistico capace di lucrare su illusioni e miraggi dannosi.
Il motto della campagna per la promozione del libro di qualità, “Io non compro libri Mondadori!”, è solo indicativo e riassume, basandosi sul più grande gruppo editoriale italiano, una situazione di degrado culturale di cui Mondadori è uno dei tanti evidenti sintomi. Insieme alla “cattiva maestra televisione”, quella parte dell’editoria che vede nel libro solo un prodotto e una fonte di profitto, rappresenta, a nostro avviso, una seria minaccia non soltanto allo sviluppo culturale, ma anche alla stessa convivenza civile.
Chiunque abbia anche vaga familiarità con il libro di qualità capisce immediatamente quando se ne trova uno tra le mani e non ci si riferisce unicamente alle copertine ben fatte, alla carta odorosa ed ai caratteri nitidamente stampati ma, soprattutto, alla pagina ben scritta, a quella visione del libro come contenitore di conoscenza e bellezza e non brado veicolo di banalità, velleità o interessi. Come dichiaravano i Greci e ripeteranno i poeti fino ad oggi: dove c’è bellezza si trovano anche verità e bontà.

(Sergio Caldarella)

Thursday, October 7, 2010

L'inconcepibile del concepibile‏


Recentemente il professor Claudio Moffa, docente all'Universita' di Teramo, ha fatto pessimo sfoggio di sé in una serie di esternazioni di crasso antisemitismo offerte agli studenti del suo corso, riprese su video e denunciate da Repubblica (7 ottobre 2010). E possiamo ben star certi che se non fosse stato per il quotidiano il professorone non avrebbe dato fastidio a nessuno, quantomeno nel suo ateneo. Del resto questa è l'accademia contemporanea e non c'é proprio nulla da fare. E' così e basta. Quello che è però significativo notare nell'intervento del derelitto dell'intelletto (disponibile su: http://tv.repubblica.it/copertina/le-lezioni-di-claudio-moffa-il-prof-negazionista/54213?video=&ref=HRER1-1) è la progressione del suo sproloquio che, partendo da dubbie affermazioni di altri negazionisti come Faurisson, arriva a due conclusioni: l'una quella secondo cui la Shoa sarebbe ideologicamente un controaltare alla crocifissione di Gesù (ed ecco che torna imponentemente la matrice antisemita cristiana). Sembra un discorso uscito dai Protocolli: in questa logica malata i soliti Ebrei avrebbero utilizzato la Shoah come controaltare alla sofferenza di Cristo per annullare il solito vecchio crimine di deicidio! Del resto iniziare un ragionamento utilizzando fallacie e inesattezze è come sbagliare ad abbottonarsi una camicia: da quel bottone in poi saranno tutti male abbottonati. La seconda affermazione è quella secondo cui l'uso ideologico della Shoah avrebbe consentito la creazione dello Stato di Israele visto come il maligno burattinaio dei mali del mondo – e anche qui tornano i Protocolli, anche se in una versione aggiornata e rimodellata in cui al posto dei Savi di Sion abbiamo uno Stato vero e proprio. Al tempo della pubblicazione dei Protocolli non esisteva nessuno Stato d'Israele così era solo l'Ebreo in quanto entita' astratta (der ewige Jude) ad essere mira degli strali di questi zelanti persecutori i quali hanno oggi una prosopopea dei loro pregiudizi nello Stato d'Israele che, nella loro mente, equivale alla sostanziazione del male nella storia. Questo tizio pare non abbia mai letto nulla sulla storia dell'area mediorientale nel secolo scorso né abbia mai sentito parlare di Herzl o della dichiarazione Balfour. Difficile spiegare a costoro che lo Stato d'Israele, nonostante la sua fondazione è pur sempre uno Stato laico, democratico e liberale e ben altre sono le sue radici fondative. Alle loro orecchie tali affermazioni suonano blasfeme. Questo piccolo esempio di una piccola università in un piccolo Paese, mostra solo una cosa: l'universalità e il trasformismo dell'antisemitismo/giudeofobia. Una vecchia piaga che abita certi intelletti e da cui, considerato lo stato della cultura attuale, diverrà sempre più difficile difendersi visto che troppo spesso si confonde la libertà d'opinione con la pura e semplice libertà d'idiozia.

(Sergio Caldarella)

Saturday, October 2, 2010

Sheep


A sheep only gives credit to what is shared by the flock.


(Dr. Divago)

Friday, October 1, 2010

An answer



An answer is just a fool dancing on a stage made of matchsticks.
(Dr. Divago)

Saturday, September 25, 2010

Words, do they have a power?


It is difficult to say if words do have a power, but they surely are the shadow of a soul that the ink throw on the paper. When words are real, which means when they come directly from the heart, they carry in them a deep and long story: is the “I” scratched on the paper just a simple straight line or somehow is capable to represent the shadow of human existence on paper? And why there is a word for life and a word for existence? Because one cannot contain the other?
Why is the Statue of Liberty in Kafka’s Amerika holding an upraised sword instead of the torch we know? Is there a meaning we cannot see? Maybe that even freedom is just another perception of human slavery? Or that there is no freedom without fight for it?

(Dr. Divago)

Tuesday, September 21, 2010

Spunti per una filosofia delle bolle di sapone


Se c’è una filosofia delle finestre (Pessoa), delle candele (Bachelard), delle radure (Heidegger), dei limiti (Wittgenstein) e persino un’ontologia dei buchi, perché non dovrebbe anche esserci una filosofia delle bolle di sapone? Se assumiamo come limite del nostro mondo soltanto ciò che appare davanti agli occhi, una filosofia delle bolle di sapone, ossia una filosofia dell’evanescente, non sembrerà nient’altro che un singolare trastullo dell’intelletto, ma se invece intuiamo nel mondo qualcosa che è più del mondo, allora il nostro sguardo verso le cose cambia radicalmente. Perché, si chiedono alcuni, dovremmo mai preoccuparci di alcune insignificanti sfere di sapone che si dissolvono nell’aria dopo pochi secondi che sono state create? Chi pone questa domanda decide, arbitrariamente, che siano il tempo e il peso le misure grazie alle quali si quantifica il valore delle esistenze. Cosicché se proviamo a rapportare a questa metrica il tempo medio della vita umana con quello, ad esempio, degli elefanti o degli astri, dovremmo dedurne che la nostra vita, in conformità a questo criterio valutativo, è meno importante della loro. E’ sempre un discorso molto delicato e spesso pericoloso quello di chi cerca di trovare criteri di valutazione grazie ai quali sia possibile “pesare” ogni cosa. La storia sia umana, sia individuale, ci ha insegnato che questo criteri sono una chimera di chi non fa altro che assumere unicamente se stesso come limite. Certo, se ogni cosa fosse soltanto in ciò che appare potremmo ancora pensare che la luna ha una sola “faccia”, che il sole giri intorno alla terra, oppure che l’acqua è soltanto qualcosa di liquido e bagnato. Quando, però, cerchiamo di capire qualcosa in più sulle cose – ma anche su noi stessi – ci accorgiamo che la luna ha due “facce”, che la terra ruota intorno al sole secondo precise orbite ellittiche e che l’acqua è un composto di atomi semplici come idrogeno e ossigeno, per limitarci ad un solo livello. Nelle cose e nelle parole non ci sono soltanto dei lati che non vediamo e che, magari, possiamo arrivare a conoscere indirettamente, in esse c’è anche un inesprimibile scarto di senso, qualcosa che non riusciamo a definire ma di cui intuiamo una sorta di “esistenza” (gli antichi coglievano questo aspetto nel “nume” che intravedevano dal sasso fino alla stella lontana). Nel campo dei sentimenti questo aspetto è colto da gran parte degli esseri umani, anche da quelli che in una bolla di sapone non vedono nulla oltre a ciò che appare.
Le bolle di sapone, queste piccole sfere dai riflessi bluastri, possono anche apparirci come messaggeri di mondi lontani, quasi come i fiocchi di neve: epifanie di mondi lontani che attraverso il biancore o la trasparenza sussurrano qualcosa alla nostra individualità, stabilmente radicata nel grigiore di cose quotidiane e scontate. Ci manca sempre qualcosa che non abbiamo, ma ciò che ci manca più di tutto è un mondo delicato, silente, vicino più alle nostre sensibilità interiori che al nostro corpo. La filosofia delle bolle di sapone è come un’ontologia delle forme di luce in cui si rivelano strane ed evanescenti realtà mascherate da sapone e acqua sotto le vesti di una sfera perfetta.
(Tratto da: Sergio Caldarella, Filosofia delle bolle di sapone, in "Rivista di Scienze e Lettere", Vol. XXVII Firenze 1996, pp. 67-73)

Sunday, September 19, 2010

Keep the child alive!


When you’re a child, adults seems to you like strange characters on a stage: one plays the teacher, one is the doctor, a baker or a truck driver, while someone decides to be on the sad side of life and another just paints a happy smile over his face. As a child you see through all of this from a privileged standpoint and you “know” by instinct that it’s just part of a big script where every one pick a role and go on acting, sometimes even for the rest of his life.
Growing up we tend to forget this feeling we later call “innocence”, the gift to see what is real and what is just a meaningless game. As a kid you don’t fully understand why adults decide to play this game, because being a child means to be always bigger than life. As a kid you know that roles are irrelevant and what matters is just who you really are. That’s why we have a society where everybody runs after appearances and fake prizes, just to forget the substance, just to forget that child that we once were. The key to a real life is not losing that innocence: keep the kid alive!

Saturday, September 18, 2010

La scienza senza fede e la fede senza scienza


Alcuni hanno sollecitato una chiarificazione a proposito del post precedente (“Quando troppo non è ancora abbastanza”) e, in particolare, sulla ragione per la quale scrivo che Lapace aveva fornito a Napoleone una risposta ben più arguta dei vari Hawking, Dawkins e brutta compagnia.
La risposta di Laplace “je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là”, è autenticamente scientifica e si connette anche alla vecchia diatriba, nel ‘700 certamente più viva di quanto non sia oggi, tra scienza e religione e si inserisce pienamente nell’alveo di una serie di osservazioni che già il vecchio Galilei, seppur in altri termini, poneva ai teologi dell’Inquisizione. Infatti, larga parte della difesa del pisano in risposta alle accuse di Santa Romana Chiesa, è proprio nell’insistere sulla separazione tra i domini di scienza e teologia. Chiaramente all’epoca la teologia era considerata come madre di ogni sapere e la questione era certamente anche politica – e Galilei, per quello che poteva, ribatteva anche sul versante politico. Quella che sostanzialmente Galilei ribadiva era la differenza tra le verità di fede e le verità di ragione che faceva parte del pensiero teologico da tempi antichissimi.Tommaso d’Aquino aveva già definito fede e ragione come processi conoscitivi diversi, dando chiaramente priorità alla teologia. Galilei cerca invece di motivare questa distanza filosofica tra le due discipline dicendo che l’una non ha legami diretti con l’altra e pertanto, tra le due, non vi possono essere conflitti o contraddizioni. La scienza non ha bisogno di negare quello che non le serve per giustificare le sue leggi e teorie e questo era già chiaro ai tempi di Galilei. Per questo Laplace non dice, come fanno certi contemporanei, “il Creatore non esiste”, ma semplicemente “non ho bisogno di quest’ipotesi”. Scienza e religione appartengono a due domini diversi. Della frase di Laplace si sono fatti molti usi, ma si sa che la politica gioca qui un ruolo fondamentale. Purtroppo non è politicamente indifferente dichiararsi ateo o credente.
Come si diceva nel post precedente la differenza tra i tempi passati e i nostri è nella grossolanità con cui vengono fatte affermazioni di grande complessità senza tenere in alcun conto la storia del pensiero, ma neppure gli aspetti più profondi della scienza. Già da un punto di vista puramente scientifico è impossibile giustificare la certezza assoluta del fatto che domani sorgerà il sole. Se un fisico dovesse dire ad un matematico “sono certo che domani sorgerà il sole” al matematico basterebbe rispondere: “dimostralo” per smascherare la presunta scientificità di una tale dichiarazione. Anche se il fisico dicesse, come il nostro Hawking, che “l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale” basterebbe chiedergli “dimostralo” per metterlo a tacere. Ma si sa che nel nostro tempo la sciocchezza e l’idiozia passano per sapienza e al sapere allora non resta che vestire i soliti poveri panni di sempre, gli stessi che indossava l’incarnazione della filosofia quando apparì a Manlio Severino Boezio nella sua cella prima che lo trucidassero.

Sunday, September 12, 2010

Quando troppo non è ancora abbastanza.


La società globalizzata contemporanea è un mondo in cui sempre più l’immensità della confusione, delle sciocchezze, delle informazioni false, errate o create ad hoc, serve per istupidirci e renderci mansueti di fronte a questo grande gioco manovrato da marionette di vetro.
Stephen Hawking, uno tra i tanti, ha recentemente apposto il suo nome sulla copertina dell'ennesimo libro intitolato: The Grand Design. Questa volta il nostro accademico, novello Laplace, ha bellamente deciso, avec la plume, di espungere la presenza dell'Onnipotente dall'universo. I più ricorderanno la storia riportata da Victor Hugo secondo cui già l’astronomo e matematico Pierre-Simon de Laplace, anche se con maggiore arguzia dei nostri contemporanei, alla domanda di Napoleone il quale, meravigliato, gli chiedeva a proposito de la Mécanique céleste “Comment, vous faites tout le système du monde, vous donnez les lois de toute la création et dans tout votre livre vous ne parlez pas une seule fois de l'existence de Dieu! Ma come, vi occupate del sistema del mondo, fornite le leggi di tutta la creazione e nel libro non parlate una sola volta dell’esistenza di Dio!” rispose: "Sire, je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là. Sire, non ho bisogno di quest'ipotesi". Hawking invece, e il coautore Leonard Mlodinow, che scrive anche copioni per Star Trek, dichiarano drasticamente nel loro recente libro che l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale: “does not require the intervention of some supernatural being”. Chiaramente nell'epoca intellettualmente orrenda in cui viviamo, tutti si gettano a capofitto su una tale dichiarazione, come se fosse una novità, come se non fosse un dibattito che si trascina dagli inizi della storia senziente della nostra specie. Però, si sa, il nostro è un tempo che ha sempre bisogno di novità, così le novità bisogna inventarle anche quando non ci sono e travestire con questi panni lucenti anche una dichiarazione vecchia come il cucco (o come Abacucco). Forse Hawking ha solo pensato di fare concorrenza in libreria ad un altro don dell'accademia inglese come Richard Dawkins (Hawking è a Cambridge, mentre Dawkins è ad Oxford) che da tempo blatera degli stessi temi ed ha recentemente pubblicato The God Delusion, L’illusione di Dio (2006). Non bisogna però pensare che ci sia qualcosa di errato nel discutere o prendere posizione su un tema così affascinante e complesso come quello della divinità; lo hanno fatto in molti e con ragionamenti che hanno prodotto fini elucubrazioni e profondi sviluppi intellettuali. Le idee sul divino dei Greci sono ancora proficuamente dibattute, il Dao de Ching di Lao Tzu ci pone di fronte ad aspetti inusitati del divino e del pensiero, l’argomento ontologico di Anselmo finisce per produrre risultati nella filosofia di Kant e culmina in una prodigiosa elucubrazione matematica da parte di quel genio che era Kurt Gödel. E’ un tema immenso e ricchissimo, almeno per quello che riguarda le epoche passate. Ciò che infatti desta meraviglia nelle osservazioni dei vari Dawkins e Hawking è la loro rozzezza e superficialità intellettuale. Se leggiamo il Talmud o un trattato medievale di teologia – e come non pensare in proposito a Tommaso d’Aquino o Pietro Ispano che fu anche Papa – ci accorgiamo della squisita finezza delle argomentazioni proposte, della logica rigorosa e attenta con le quali le argomentazioni sono costruite, seguite e, oserei dire, inseguite. La grande capacità con cui si trovano le ragioni del divino e si cerca di comprenderne i modi nel mondo, arrivando proprio a comprendere che c’è un punto in cui il pensare legato alle cose deve fermarsi e forse solo un’altra intuizione più fine e sottile può aiutare su quell’ardua strada. Lao Tzu lo dice con tanta chiarezza proprio all’inizio del Dao de Ching: “Il Dao che può essere nominato, non è l’Eterno Dao”, mentre Dawkins e Hawking, come due bambini viziati, strepitano proprio perché non possono nominarlo! Loro vorrebbero essere più in lá del divino, considerano se stessi come l’epitome di ogni cosa e, in questo, assomigliano così tanto al triste uomo medio di questo tempo. Tutto deve condurre a loro e se così non è, meglio negarlo – anche se poi è soltanto con un colpo di penna. Ad un certo punto del libro Mlodinow e Hawking scrivono anche “Because there is a law such as gravity, the universe can and will create itself from nothing” e sembra di essere tornati indietro di quasi duemila anni alla diatriba sulla creatio ex nihilo elaborata dai Padri per rispondere agli Gnostici, nihil novi sub sole dunque. Quello che forse c’è di nuovo è l’attenzione e la ricezione che questo tempo riserva a tali banalità. E non sfugge neppure l’arroganza di un’affermazione in cui si assume una legge fisica come la gravità, ancora non del tutto chiara (non sappiamo se c’è un mediatore della gravità, non sappiamo perché è solo attrattiva, non siamo sicuri che sia solo geometria dello spazio-tempo, non conosciamo tutte le implicazioni di essa a livelli microscopici e macroscopici, etc.), per giungere a conclusioni che non sono neanche lontanamente logicamente giustificabili.
Questa superficiale negazione del divino da parte dei vari Hawking e Dawkins parte dalla solita confusione che domina in questo nostro tempo e non ha nessuna delle basi che magari avevano altre ben più raffinate ed elaborate critiche – almeno fino a quella di Bertrand Russell il quale, più che contro l’Eterno, aveva un ragionevole problema contro le religioni le quali hanno molto contribuito, e continuano a farlo, alla gran confusione che regna sul tema del divino. Paradossalmente, la sicumera contemporanea di argomentazioni che pretendono di negare ciò che non rientra in una sola chiave di lettura del reale è simile a quella del vecchio Cesare Cremonini che, per non far entrare nel suo limitato mondo una porzione di luce, si rifiutò ostinatamente di guardare nel cannocchiale di Galilei. Strano pensare che nel ‘600 erano gli scienziati quelli che portavano avanti la conoscenza e oggi, invece, questi titolati accademici hanno preso il posto di quelli che reggono saldamente la fiaccola dell’ignoranza, della superficialità e dell’oscurità.
Quando si pensa al passato è lieto ricordare quelle menti eccelse e illuminate e le loro meravigliose spiegazioni e interpretazioni del mondo che ormai non trovano quasi più rispondenza in questa società meschina e barbarica. Raramente l'idiozia e l'arroganza sono state con tale saldezza ed empietà al comando di una società. A meno che non si vogliano ripercorrere all'indietro millenni di storia o addentrarsi, come antropologi, nella mentalità e nella storia di certe tribù cannibali. Certo, nell'accusare un'intera società di barbarie, non si può evitare di venirne accusati indietro: del resto lo schiavo che viene bastonato è proprio quello che non si affeziona alla sua catena. L'organizzazione della tecnica dà alle pecore l'impressione della forza e allora basta sentirsi gregge per sentirsi forti. Dov'è, allora, in questa landa desolata la casa del Buono, del Vero e del Bello? Nel pecoraio? Quello che c'è in questa landa – o rimane – sono unicamente fiumi di vuoti chiacchericci. Tutto parla di cose piccole e aspirare a qualunque cosa grande agli occhi di queste genti è quasi un atto empio e rivoluzionario, per questo ogni grandezza dev'essere accuratamente bandita dal nostro orizzonte, per questo si possono impunemente scrivere libri diffamatori su Einstein, Schweitzer, Gandhi etc. Un’epoca piccolissima, infinitesima, come potrebbe mai capire, o anche lontanamente accostarsi, alla grandezza autentica? In una società di tal fatta bisogna discutere ovunque di fatterelli, di attrici, calciatori e cantanti, del numero di piedi che ha un millepiede o del tempo che farà domani. Vittorini lo diceva così bene in Conversazione in Sicilia: «Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso». Nella sua coscienza da poeta Vittorini ha bisogno di dire che il mondo è "molto offeso", non solamente "offeso" ed è proprio in quel "molto" che si celano così tanti segreti. Oggi, epoca in cui tutto sembra sia solo questione di consensus, chi può ancora arrivare a capire l'offesa del mondo? Forse solo quei pochi poeti ancora rimasti.

Sergio Caldarella

Sunday, August 29, 2010

Nachtblindheit


Die lange asphaltierte Straße zog sich träge in die Nacht hinein wie eine breite schwarze, weiß schraffierte Zunge. Es war kalt. Die Sonne war, nachdem sie die Erde in rotes Licht getaucht hatte, längst hinter den fernen Hügeln verschwunden und ließ eine zitternde Wolke von Gespenstern und Klängen zurück, die als raunende Schatten zwischen dem Moos auftauchten und wieder entwichen.
Ich, ein Ergründer des Wesentlichen ohne Phiole, lief am Rande des Weges, mein Gepäck auf den Schultern. Das künstliche Licht am Horizont trennte jenen Landstrich von der Dunkelheit, bis es zu ganz kleinen Punkten wurde, die sich in der Ferne verloren. Es war fast, als bestünde die Welt nur aus winzigen honigfarbenen Lichtkörnchen, die mit dem Dunkel der Nacht verschmolzen wie das weiche Wachs einer Kerze.
Wie ich so meines Weges ging, kam ich an eine Biegung und sah dort oben, wo der Asphalt endete und eine Wiese begann, ein Holzhaus mit schräg abfallendem Schieferdach. Ein Schornstein malte hellgraue Linien in den Himmel und aus erleuchteten Fenstern, die leichte Gardinen aus buntem Stoff zierten, wurden den Umherziehenden zwinkernde Lichtblitze zugeworfen. Ich hielt an und setzte mich auf die wenigen Gepäckstücke, die mich auf meiner Reise begleiteten. Ich beobachtete jenes Haus und das Leben, das mir durch den magischen Schein der Fenster zu sehen vergönnt war. Männer und Frauen in Feststimmung lachten, scherzten miteinander und beschenkten sich, doch wirklich niemand wagte es, einen Blick nach draußen zu werfen – aus Angst, dass die große Stille der Finsternis ihre Lippen streifen und das erstarrte Lächeln darauf zum Erlöschen bringen könnte.
Das ferne Glockenläuten eines Kirchturmes drang an mein Ohr und es begann zu schneien, während ich draußen blieb, eingehüllt in den Mantel aus Frost und Traurigkeit, der meine Gedanken umgab, und die Traurigkeit sich wie der Geruch sehr alter Gegenstände in mir ausbreitete.
Gierig nach Leben, betrachtete ich weiter jenes weit entfernte Universum, aus dem ich ausgeschlossen war, und die glücklichen Opfer dieser verzauberten Welt. Ich hätte den Kiesweg hinaufgehen mögen, der zu dieser Welt führte, um an jene Holztür zu klopfen, hinter der eine schöne Frau ihr langes Haar kämmte, und um Einlass zu bitten, aber so viele scharfe Klingen hatten an dieser Schwelle bereits meine Fäuste durchbohrt. Zu viele Male habe ich, blutend und geschlagen, hinter einer Tür ohne Riegel um jene Schöne geweint, die ich nie würde küssen können. Wenn deine Träume sich, gleich dem Wind, nicht wegschließen lassen, nicht einmal in einen goldenen Käfig, bist du anders als sie und sie werden dich draußen lassen, bei den Krähen und dem Duft von Erika.
Ich hob meine Augen und Hände gen Himmel und schrie mit der Kraft der letzten Tränen: „Habt Mitleid mit einem Mann, der allein in der Kälte der Nacht steht“, aber der Schnee fuhr fort, weiße Pirouetten in der eisigen Luft zu bilden, und auch der Asphalt schwieg.
Wir glauben, das, was geschieht, beeinflussen, den Ereignissen befehlen zu können, doch sind wir nichts als Marionetten, die zur Melodie des Schicksals tanzen, während das Leben dahinfließt wie Wasser in einer Dachrinne an einem Regentag.
Ich blieb sitzen und eine weiße Schneedecke legte sich auf mein Haupt, so dass am Rand der Straße nur ein Eisklotz zurückblieb, der einem Menschen ähnlich sah. Alles hat seine Bedeutung im unbekannten Räderwerk dieser dunklen Nacht, in der das Gold zu Eisen wird und Sklaven auf Fuchsjagd gehen, als wären sie Könige.

Eine Elster, die meinen Ruf vernommen hatte, ließ sich auf einem Zweig nieder und eine Schneeflocke fiel herab.

(Sergio Caldarella, Cade ancora neve, Oros Edizioni, Siracusa 1996, s. 15)

Saturday, August 28, 2010

Writing


Writing is a beast attacking at night... it's a tiger sleeping at your side... it’s a need without a need; it’s a series of words rolling like pearls from the heart to the pen or from the soul to the blowing wind. It’s a nothing that feels like everything, it’s something you cannot explain, even if it has always been there, like a sweet torn, like a castle only your eye can see. Writing is not a proof of something, is a proof of nothing, probably of the nothingness of existence or of its being full of something beyond existence. Some people say the writer is an egotist because they just don’t know, they just cannot understand, they’ll never understand. The writer is not even there, his words are not even “his”. His words come from somewhere else and they go somewhere else. The writer does not care of judgment and he is not afraid of the darkness of night. The authentic writer is just a hand and a soul at a service of a higher service, that’s all. In contemporary society we are used to the “big ego authors”, those who fill pages over pages only with the little croaks of their ego and their words resonate all with that same echo of emptiness.
There are writers writing because of the impossibility of writing, like Paul Celan (“The poem is still only capable of speaking because it exposes itself to the impossibility of its speaking”), and writers like Fernando Pessoa who pretends to feel the pain they feel. There are writers writing even against their own will and writers just looking for a way out of writing, and if you ask them what it means to write, they will give you the most human answer of all: “I don’t know”.

(Dr. Divago)

Sunday, August 22, 2010

Stig Dagerman: Il nostro bisogno di consolazione.

Una breve riflessione dedicata a Stig Dagerman, uno tra i più profondi scrittori svedesi suicida a soli 31 anni. Autore, tra l’altro, di un breve quanto intenso saggio dal titolo Vårt behov av tröst (Il nostro bisogno di consolazione, trad. it. Iperborea).
«Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà» (Stig Dagerman).

A Stig:
Uno scrittore viaggia per le strade del mondo con il continuo bisogno di raccontare storie, come un viandante che si lascia accompagnare dalle parole o accompagna le parole per le strade dei loro viaggi, mentre queste ultime, questi strani segni sonori come lame, cercano di spiegare quelle luci opache che abitano al di là di esse stesse e così da storie tronche, abbandonate, lasciate a respirare l’aria di vicoli ameni, erompono, a volte, luci ed ombre storte senza le quali il mondo sarebbe ben altro, non più lo stesso, magari non più neppure mondo. Queste parole capaci di sopravvivere al tempo, proprio per questo loro essere “sopravvissute”, ci consolano, ci permettono di ascoltare il timbro di una voce amica e vicina in mezzo ai chioccolii nei quali non riconosciamo alcuna forma. Esplorando le radici della scrittura, Stig Dagerman ci ha narrato de Il nostro bisogno di consolazione ed ha disteso, dietro i tasti metallici della sua macchina da scrivere e tra i fogli macchiati dalla penna multicolore, racconti decifrabili solo da occhi attenti; lingue d’inchiostro che parlano di nevi e notti scandinave e di quelle contorte ombre dell’anima che raggiungono qualunque latitudine. Dagerman è, come ogni grande, uno scrittore da ascoltare: bisogna poggiare l’orecchio sui suoi libri e, tendendo l’udito, avvertire il suono leggero di vite racchiuse nel germe di una parola fremente insieme allo sgusciare di elfi e gnomi che passano ed abitano in mezzo alle tremolanti oscurità del mondo che immaginiamo reale. A volte cerchiamo nella scrittura ciò che un infreddolito viandante tra le nevi cerca nel tepore di una stufa o di una coperta, quello che l’amato cerca in ogni riflesso dell’amata e nel pulsare di quel sentimento vivo e strano che riposa nel tremolio distante degli occhi di lei. Forse nelle parole non c’è nessun destino, ma se ci fosse, non potrebbe che tendere al nostro infinito quanto necessario bisogno di consolazione.
(Dr. Divago)

Sunday, August 15, 2010

La storia sconosciuta dell'antico codice De Necromantica Siracusana


Qualunque bibliofilo amante di libri rarissimi che si trovi a New York per le vacanze, farebbe bene a prendere il treno con destinazione Princeton, dove si trova una tra le più conosciute università private degli Stati Uniti. Giunti in questa cittadina, tra le tante cose anche ultima residenza di Albert Einstein e Kurt Gödel, è possibile recarsi alla Princeton University Library (circa quattro milioni di volumi parte dei quali situati nella Nassau Hall, uno degli edifici più antichi degli Stati Uniti), dove potrete provare un’emozione unica richiedendo in lettura il De Necromantica Siracusana, un codice scritto in gran parte in greco bizantino, ma anche in latino, ebraico, persiano ed altre lingue in caratteri strani ancora non decifrati (l’unico inconveniente è che bisogna consultare il volume davanti ad un bibliotecario dallo sguardo vigile, poiché – fatto strano – il volume non è disponibile né su microfilm, né in Internet). Il testo del De Necromantica Siracusana – in realtà una raccolta di scritti diversi su un unico tema, sulla cui copertina appare solo la scritta nékyia, – è attribuito dal catalogatore ad un certo Athanis da Siracusa (o il Siracusano), un autore del quale si hanno pochissime notizie, perlopiù riportate nei Fragmente der Griechischen Historiker di Felix Jacoby (III B 562). Secondo quanto riportato nel De Necromantica Siracusana, Athanis da Siracusa avrebbe trovato un libro scritto direttamente da Dioniso, non il figlio di Zeus e Semele, ma Dioniso Zagreo, figlio di Zeus e Persefone dea degli inferi, anche se in almeno due punti del libro è possibile trovare un riferimento a Dioniso Melemigis, una particolare variante della divinità adorata ad Eleuteria che, tradotto, vuol dire “dalla pelle di capro nero”. Il libro comincia raccontando la nascita di Dioniso in una grotta in prossimità della sorgente del fiume Ciane, un evento già citato in un tardo racconto greco (nonny dionisiaca) che, però, nella versione del De Necromantica Siracusana, aggiunge particolari fino ad oggi ignoti come, ad esempio, l’invenzione da parte di Dioniso di un “alfabeto siracusano”, diverso da quello descritto da Margherita Guarducci (Annali della Scuola Archeologica di Atene), dotato di particolarità magico-evocative connesse con il culto di Cernunnos che, secondo alcuni, risalirebbe quantomeno al Neolitico – tra le tante cose il libro stabilisce anche un rapporto diretto tra questa divinità siracusana ed un culto litolatra legato a raffigurazioni grottesche. Secondo quanto raccontato nel De Necromantica Siracusana, questo alfabeto, definito con la curiosa formula greca amanthraspentos, contrario ad ogni esorcismo, venne seppellito dal condottiero Corinta Timoleonte durante la sua opera di ricostruzione di Siracusa, e in effetti il Prof. Westlake in un libro pubblicato nel 1969 (Essays on the Greek Historians and Greek History) cita un’epigrafe ritrovata nel corso di scavi intorno alle Mura Dionigiane nella quale viene narrato un “empio seppellimento” del quale Timoleonte cercò di cancellare ogni traccia. Il prof. Westlake, ipotizzando un legame tra questo alfabeto evocatorio siracusano e il dio Moloch, ritiene che il tentativo, iniziato da Timoleonte, di eliminare qualunque traccia dei riti sviluppatisi a Siracusa in connessione con questa divinità, abbia condotto Agatocle, in precedenza soldato al comando di Timoleonte, ad assediare la città di Cartagine i cui abitanti erano adoratori di Moloch-Saturno. La storia narra che, durante l’assedio di Agatocle, gli abitanti di Cartagine, onde propiziarsi l’empia divinità, sacrificarono più di cinquecento vittime, tra le quali moltissimi bambini. Secondo il prof. Westlake le urla delle vittime scossero a tal punto l’esercito Siracusano da condurlo alla tragica sconfitta del colle Ecnomo, nei pressi del fiume Imera (310 a.E.V.).
I primi due capitoli del De Necromantica Siracusana, composti in gran parte in greco bizantino, si dilungano in minuziose spiegazioni sui “miracoli” di Dioniso Melemigis, evidenziando una netta predilezione per macabre descrizioni come, ad esempio, la narrazione spaventosamente esatta, degli stadi di putrefazione dei cadaveri dai quali Dioniso ricavava polveri capaci di provocare o guarire persino la lebbra. Questa interpretazione di Dioniso sembra essere molto antica, poiché già la sua variante romana, Bacco, non possedeva più alcune caratteristiche ctonie che invece erano fortemente presenti nel culto dionisiaco a Delfi, dove quest’ultimo veniva rappresentato con il simbolo del terribile “Sole Nero”.
Il De Necromantica Siracusana presenta, poi, alcune altre figure legate alla negromanzia e cita molti nomi in gran parte sconosciuti come tal Theodorus Philatelas Siracusanus, insieme a quelli noti di Atenagora Siracusano, citato in Tucidide, Antioco Siracusano, Iceta Siracusano, Eurifamo ed Ecfanto di Siracusa, due filosofi pitagorici; quest’ultimo, tra l’altro, riteneva che la genesi del cosmo dipendesse da una presenza spirituale al di sotto della realtà sensibile e, secondo quanto aggiunge alla nostra attuale conoscenza il De Necromantica Siracusana, la presenza spirituale cui faceva riferimento Ecfanto non doveva avere una caratterizzazione propriamente positiva. Perfettamente consona con il tono dell’opera è, infatti, un’invocazione ad Ecate «O compagna della notte, tu che gioisci all’abbaiare dei cani e al sangue versato, che vaghi in mezzo alle ombre tra le tombe, che aneli al sangue e rechi terrore ai mortali, luna dalle mille facce, guarda con favore ai nostri sacrifici!» – in realtà una semplice variante di un noto passo delle Argonautiche di Apollonio.
Il tema di mondi orribili, che abitano la realtà solo apparentemente innocua, è presente in ogni pagina – comprensibile – del volume attribuito ad Athanis. La stessa grafia del codice è piuttosto strana, innanzitutto perché è una raccolta di testi spesso diversi tra loro inframmezzati da strane citazioni in caratteri sconosciuti (forse copia del citato alfabeto siracusano?), ma anche perché spesso vi figurano simboli appartenenti a culture diverse tra loro come quella sciamanica, associata, in una pagina, a rappresentazioni della farfalla minoica, simbolo della dea madre, insieme ad un costante guazzabuglio di alfabeti e lingue che ne rendono ardua la lettura ma anche uno strabiliante esempio di sincretismo magico dell’epoca classica. Anche gli inchiostri hanno colori strani e se alcune parti sono in nero vivido, altre vanno dal verde al rosso mentre alcune pagine sono ritagliate con cura formando dei curiosi simboli o lettere di strani alfabeti. In effetti lo stile e la tipologia del manoscritto concorda con quello degli antichi grimori di cui, ad esempio, sono interamente composte le collezioni Sloane o la Harleian alla British Library.
Un arabista ha tradotto parti del testo persiano in caratteri cufici, inframmezzato da brevi citazioni in Urdu e Duriaco, del De Necromantica Siracusana, in cui si racconta, in forma un po’ diversa, la leggenda della torre di Babele, la porta del cielo ormai distrutta alla quale, però, corrisponde una “porta della terra” ancora aperta. E’ merito di James Krote, della York University di Toronto, aver segnalato un manoscritto rinascimentale, Bab al-Gharb, La porta d’Occidente, opera di un certo Abib al Fa’hrani, in cui si narra della vicenda dantesca narrata nella Divina Commedia e dei suoi precedenti islamici, come del resoconto di un viaggio dentro la voragine dell’altra porta opposta alla torre di Babele. James Krote, servendosi del De Necromantica Siracusana, ha poi collegato questi elementi alle varie teorie sulla “terra cava”, arrivando ad inserire, nel suo discorso, anche il Viaggio al centro della terra di Jules Verne e la Thule-Gesellschaft.
Sarebbe lungo citare le altre parti del De Necromantica Siracusana, in cui si parla di gerarchie divine e demoniche alla base di antichissime concezioni come quella del nume: Deus cum fecisset mundum, singulis quibusque creaturis principes statuit, ipsis quoque arboribus montibusque et fontibus (…) Statuit ergo angelis angelum principem et spiritibus spiritum, sideribus sidus, daemonibus daemonem, Dopo aver fatto il mondo, Dio stabilì gli arconti per ogni creatura, senza tralasciare gli alberi, le montagne e i fiumi (…) Stabilì dunque un angelo come arconte per gli angeli, uno spirito per gli spiriti, un astro per gli astri, un demonio per i demoni, oppure di come sia possibile fare dei “sogni turchesi” (c’è infatti nel libro un’affascinante suddivisione della qualità dei sogni attraverso i colori), avendo la possibilità di dormire in particolari periodo dell’anno “in rispondenza al turchese acquoso del grande porto siracusano”.
Il libro termina poi con trentasette pagine, aggiunte quasi certamente in epoca medievale, scritte in ebraico da un certo rabbi Isaia ben Ioseph, in cui si narra della definitiva scomparsa delle “cose terribili”, che l’alchimista arabo Jabir ibn Hayyan, grazie “all’empia lettura” del Sirr al-khaliqa, il Libro segreto della Creazione e del libro yemenita (sic) De Necromantica Siracusana, era riuscito ad evocare «sacrileghe forme maligne che la terra dovrà dimenticare per tutti i secoli del mondo» e passa, poi, a raccontare una complessa storia ripresa, probabilmente, da tradizioni remote in cui si descrivono terribili invocazioni e della lotta che un gruppo di rabbini siracusani, coadiuvati da altri rabbini spagnoli “profondi conoscitori dello Zohar e dei dormienti senza nome”, avrebbero condotto contro coloro i quali utilizzavano, cum maxima voluptate, i poteri del De Necromantica (qualcuno, sicuramente in epoca moderna, ha annotato a margine del resoconto ebraico queste parole a matita: The One Who Does Not Manifest, Colui che non si manifesta).
Le ultime due pagine rappresentano una sorta di monito contro ogni lettura: la data scritta sulla prima pagina è quella del “21 gennaio Anno Domini 1693” e il testo è stilato in gran parte in italiano antico vergato con una atipica grafia minuscola. L’autore, tal padre Ambrogio da Melilli, mette duramente in guardia dalla lettura del libro con varie minacce culminanti nella dichiarazione secondo cui le blasfemie in esso contenute sarebbero già costate la vita al suo giovane e caro confratello padre Diego, trovato tra le macerie del convento di Augusta con una copia del De Necromantica stretta in grembo; l’autore aggiunge ancora che, al momento in cui gli venne consegnato il volume, una voce che sembrava uscire dalle mura disse: “O sacerdos Christi, tu scis me esse diabolum. Cur me derogas?” (“O sacerdote di Cristo, tu sai che io sono il diavolo. Perché continui a infastidirmi?”). Padre Ambrogio termina il suo avvertimento con la speranza che «Iddio ni liberi di più di tal horibile castigo. Christus ab omni male nos defendat. Procedamus in pace».
Ci si chiede come mai questo sacerdote non abbia distrutto la copia del libro in suo possesso visto anche lo spaventoso evento connesso alla consegna del volume e questa mancata distruzione ci fa ipotizzare che queste poche pagine servissero da avvertimento o fossero una specie di rapporto ecclesiastico diretto a qualcuno gerarchicamente più in alto di lui preposto a custodire il volume in luogo sicuro.
In queste poche righe padre Ambrogio, seguendo la mentalità religiosa del tempo, sembra accennare a delle responsabilità umane connesse al sisma siciliano del 1693, avvenuto circa dieci giorni prima della stesura della lettera e, spingendosi oltre ogni razionalità, include il De Necromantica, e l’uso che alcuni erano intenzionati a farne, tra le cause del disastro. Invettive particolarmente veementi sono indirizzate da padre Ambrogio ad un certo Pierre Vallin, che avrebbe riportato alla luce il De Necromantica intorno alla metà del XIV secolo, in alcuni passi cita anche alcuni avvertimenti contro la negromanzia tratti dagli appunti di un tal Johann Nider, autore, nel 1435, di un trattato sulla stregoneria intitolato Fornicarius e da un altro libro il cui titolo è Errores Gazariorum.

Come tantissime opere antiche il De Necromantica Siracusana è certamente un’opera tipicamente pseudoepigrafica, attribuita ossia ad Athanis di Siracusa ma, in realtà, si tratta di un testo elaborato da più mani o, comunque, da un autore meno noto che, attribuendolo ad un autore conosciuto, tendeva a dare maggior credibilità al proprio lavoro; lo stesso è avvenuto ad esempio per molti libri della Bibbia, come i Proverbi di Salomone e i Vangeli, così come per alcune opere di Platone, Aristotele e persino per alcuni testi omerici. Il professor Arthur Staggs, della Miskatonic University, in un saggio pubblicato nel 1908, Some aspects of pre-islamic demonology, cita il De Necromantica Siracusana e suggerisce come probabile autore Abu Aflah da Siracusa (ca. XIV sec.), al quale sono anche attribuiti dei libri di alchimia e mistica ebraica (cfr. anche G. Scholem, Il libro di Tamar di “Abu Aflah di Siracusa”, in ebraico, in «Kiriath Sepher», 1926). Il professor Staggs, nel saggio citato, accenna ad un culto ormai scomparso, sorto nella zona di Siracusa, nell’epoca precedente la colonizzazione greca (cfr. anche E. Manni, La Sicile a la veille de la colonisation grecque, «Revue des Études Anciennes», 1969), i cui ultimi seguaci vennero bruciati sul rogo nel XVI secolo per attività stregonesche affinché la loro pena fosse «terruri de omni malefactutu». Da questo saggio di Staggs, il professor Brown, del King’s College, ha ipotizzato che gli appartenenti a questa setta, detta degli alkaesti (dall’alkaest, un solvente non ben definito alla base delle ricerche iatrochimiche nel XIV e XVI secolo), ma definita dall’inquisizione come setta degli hatchichims, ossia successori di Caino, portatori delle “Scritture diaboliche” siano riusciti, prima del loro annientamento, a lasciare su alcuni palazzi dell’isola di Ortigia dei segni particolari, grazie ai quali è ancora oggi possibile ritrovare elementi tangibili della loro antica presenza. Sulla setta degli hatchichims Éliphas Lévi arriva a scrivere: «in presenza di alcune persone [di questo tipo] e dopo una serie di atti inebrianti, avviene una perturbazione nell’atmosfera, i rivestimenti in legno scricchiolano, le porte tremano e gemono. Sembra che segni strani e qualche volta sanguinolenti appaiano su pergamene vergini o su biancheria». Il professor Brown con la sua teoria secondo cui la setta degli hatchichims sarebbe riuscita a lasciare tracce nascoste anche se ben visibili si ispira, principalmente, alle scoperte del musicologo Marius Schneider il quale, grazie ai suoi studi, è riuscito a scoprire una relazione tra architettura medievale e musica, scoprendo veri e propri spartiti scolpiti nei capitelli medievali di alcune chiese. Riferendosi anche agli studi di Schneider, il professor Brown ritiene che alcune maschere grottesche ed altri simboli che, ancor oggi, si possono individuare tra i vicoli d’Ortigia, se riportate come punti su su una mappa, seguendo un certo codice, possono indicare il luogo dove questa setta compiva i propri rituali e dove, oggi, sempre secondo Brown, sarebbero seppellite delle importanti testimonianze dei loro riti. Il professor Brown indica almeno tre luoghi che si prestano alle indicazioni che le pietre rimaste forniscono: è proprio vero che, a volte, la storia affonda con gioia le proprie avide mani nel ricco greto dove scorre il fiume della leggenda e della fantasia.


(© Sergio Caldarella).

Thursday, August 5, 2010

Julien Gracq: L'ecrivain et les sortileges


Sull’ultimo numero di «Le Magazine Litéraire» compare una foto di Julien Gracq («Je n’ai pas de méthode de travail») insieme alle foto di diversi autori contemporanei. Come spiccano in quella foto scattata da Cartier-Bresson gli occhi dello scrittore francese! La sua espressione seria, lo spessore del portamento, la profondità dello sguardo. Tutto il contrario delle foto di quei soddisfatti parvenu delle lettere contemporanei i quali sembrano solo dei turisti capitati da quelle parti per una visita di cortesia, tanto per farsi fare qualche foto e lanciare qualche sorrisino stralunato. Il contrasto sembra più imponente perché stanno tutti sullo stesso numero della rivista, anche se quegli altri abbronzati e impomatati dovrebbero stare altrove, ma non chiedetemi dove. Dove sono finiti i Gracq? Hanno lasciato il posto a questi menestrelli delle vendite? A quelli che sanno solo compiacere i lettori medi? A quelli capaci di utilizzare una lingua media, dei pensieri medi in racconti medi di vite medie? Si è davvero lasciato il posto a scritture che sembrano compiacere, ma in realtà non fanno altro se non togliere il respiro? Libri che fanno soffocare al solo pensiero che tutto ciò che descrivono esista davvero. All’idea che vi siano innumerevoli individui dai quali, tolti desideri e doveri, dopo non resta nulla, proprio niente. Neanche il silenzio. Dove sono gli autori che ci scuotono? Quelli che tagliavano il cuore per farne scrittura. Quelli che non ci rassicurano? Quelli che ci raccontano di terre inesplorate? Quelli che ci sussurrano che non tutto è come sembra, che l’imperatore pare si sia cambiato d’abito, ma in realtà continua ad essere nudo.
Tutto oggi pare debba esser preconfezionato: dai libri ai programmi culturali, dai viaggi organizzati in villaggi di cartapesta fino ai divertimenti dei bambini in parchi di polistirolo. Questi scrittorucoli dalla mezza penna sono proprio gli attendenti dell’artificiale che ha raggiunto il mondo dei libri. Per questo i Gracq, i Kafka, i Pessoa, i Salinger si stagliano, con imponenza, anche da una vecchia foto maltrattata, mentre questi nuovi arrivati non dicono proprio nulla, così come nei loro non-libri oppure, con la loro presenza leggera, raccontano semplicemente del nostro tempo assurdo e mediocre.
Sergio Caldarella

Tuesday, July 13, 2010

Un matematico tra le lettere


La confortevole atmosfera della città di Cambridge, nel Massachusetts, fa da sfondo all’Harvard University, la prima università degli Stati Uniti, ed è proprio qui, nel suo studio situato al terzo piano di un edificio in mattoni rossi, che incontriamo il professor Leonard Summer, uno tra i più acuti scrittori americani contemporanei, autore del fortunato Flies over Omaha e di Women without problems. Dall’ambiente, ci si aspetta che Summer insegni in uno di quei tanti corsi di creative writing che sono parte integrante di molti college americani e fonte di sostentamento per intere generazioni di scrittori d’oltreoceano; invece questo elegante quarantenne è docente di matematiche avanzate nella locale università, specialista di crittoanalisi, nonché membro dell’American Science Foundation e dell’International Chronoarchive: insomma un matematico con l’hobby della scrittura e non uno scrittore con l’hobby per la matematica come conferma egli stesso divertito.
Il suo studio, una stanza di poco più di dieci metri quadrati con vista sull’Harvard University Art Museum, ha le pareti interamente coperte da librerie zeppe non solo di libri, messi in verticale, in orizzontale o con il dorso al contrario, ma anche riviste, giornali, cartelline, qualche bottiglia di birra vuota e persino alcune piccole foto incorniciate e lasciate distrattamente davanti ai volumi. Una piccola scrivania in mogano, anch’essa colma di carte e volumi, è posta davanti alla finestra, mentre su un piccolo tavolino, a sinistra della scrivania, troneggia un grosso computer con diverse unità periferiche ed una macchinetta per il caffè.
Il Professor Summer, alto, magro con gli occhi neri e i capelli appena brizzolati, mi riceve con un largo sorriso alzandosi dalla sua piccola scrivania. Si scusa per il disordine e mi chiede se desidero una tazza di caffè, confessa che, in teoria, avrebbe diritto ad una stanza più grande e ad una segretaria, ma ormai sono tanti anni che lavora in quello studio e non si sente ancora pronto ad abbandonarlo. Inoltre, aggiunge, una segretaria avrebbe la spiacevole tentazione di provare a mettere ordine tra le sue carte e questo riuscirebbe difficilmente a sopportarlo trovando, nel caos, una feconda miniera di ispirazione. Mi viene in mente in proposito una scena del suo recente romanzo Lights from Cyberworld, dove il protagonista, entrando nel laboratorio di uno scienziato, ribadisce qualcosa di simile in relazione all’enorme disordine che vi trova. Il professore sorride e aggiunge che è un’osservazione sulla quale si era già trovato in disaccordo, ancor prima della pubblicazione del libro, con la sua ex moglie.
Mi versa il caffè in una tazza con sopra disegnato un pescecane e la scritta: Loans, easy terms (Prestiti, comode restituzioni). Subito dopo si siede di fronte a me ed incrocia le mani in grembo come in attesa di una domanda. Senza perdere altro tempo entro direttamente in argomento chiedendogli a quali altri autori guarda con attenzione e perché, dopo i primi due romanzi dalla forte connotazione esistenziale, ha scelto di scrivere un libro di ambientazione tecnologica e se non si sia ispirato in qualche modo a William Gibson, decano degli autori cyber. Summer dichiara subito (con velata ironia) di non capire molto bene le divisioni della critica letteraria e, tantomeno, capisce perché «se uno scrive qualcosa che ha a che fare con l’anima ed i sentimenti ha subito l’etichetta di esistenzialista, se parla di computer è cyber, se ammazza qualcuno è pulp e se scrive di astronavi e macchine del tempo è science fiction. Si scrive quello che sente e non è dagli oggetti o dalle condizioni ambientali, che servono da spunto alla narrazione, che si deve interpretare il senso di un libro o le caratteristiche di un autore. Non so se conosce la questione dello stream of consciousness? Ha presente Virginia Woolf, Dorothy Richardson? E’ la tecnica di raccontare tutto, ogni dettaglio, proprio tutto, ma a mio avviso ogni autore cerca già di raccontare tutto o quantomeno tutto ciò che egli ritiene valga la pena di essere raccontato, il resto è nulla, spazi bianchi dell’esistenza. Quando Flaubert si perde, o almeno così fa sembrare, in quelle sue lunghissime descrizioni, in realtà ha uno scopo ben preciso, vuol farci trascorrere un certo tempo insieme al protagonista, vuole creare un climax per poi gettarci nella mischia degli avvenimenti, così come anche Stendhal e molti altri. In un romanzo nessuna descrizione è senza scopo. Persino Joseph Ferdinand Gould, un bislacco scrittore newyorkese morto nel ’57 poco conosciuto in Europa, che si era messo in testa di scrivere una “Storia orale” in migliaia e migliaia di quadernetti, raccogliendo le storie di tutti coloro che incontrava dai quartieri alti ai bassifondi di New York, quando scriveva non raccontava mica tutto e però trascrisse oltre ventimila conversazioni. Il vecchio Joe, con i suoi quadernetti, influenzò persino William Saroyan del quale, per molti aspetti, può essere considerato un anticipatore. C’è invece chi crede sia possibile costruire un libro semplicemente raccontando tutto, tutto capisce? Ma cosa significa, poi, raccontare tutto?».
«Sì, capisco. Del resto Joyce riteneva che lo stream of consciousness fosse una pura sciocchezza, a meno di non voler inserire in questa vasta categoria dall’Agamennone alle opere di Shakespeare».
«E’ vero, e quando allusero che il monologo di Molly Bloom potesse essere nello stile dello stream of consciousness, Joyce si infuriò dicendo che “Molly era una donna con i piedi per terra e non si sarebbe mai permessa qualcosa di così cerebrale come lo stream of consciousness”. Come vede, la guerra tra critici e scrittori è qualcosa che ha radici molto lontane».
«Comunque è un dato di fatto che in genere i matematici come lei tendono ad occuparsi al massimo di science fiction, penso a sir Fred Hoyle, astronomo e astrofisico, che ha scritto The Black Cloud, La nuvola nera, oppure a Rudy Rucker, anch’egli matematico di professione, autore di libri di fantascienza come White Light o Master of Space and Time».
«Di Rucker conosco soltanto il suo saggio Infinity and the Mind, mentre per quanto riguarda Hoyle, del quale ero un buon amico, mi lasci dire che il suo The Black Cloud è, sì, un romanzo di fantascienza, ma anche un modo per prendere un po’ in giro la stupidità dei politici che nel suo libro non fanno certo una bella figura. E’ un po’ la riedizione narrativa di alcune tesi di C. P. Snow, l’autore di The two cultures e Science and Government, il quale sosteneva, già negli anni Cinquanta, la necessità di lasciare agli scienziati la possibilità di decidere sulle complesse questioni scientifiche, vista l’inadeguatezza della classe politica i cui fini non sembrano proprio essere quelli della conoscenza».
«E’ la rivisitazione tecnologica delle tesi del buon vecchio Platone».
«Beh, sì, in parte, anche se rivisitate dall’ancestrale ripulsa che gli uomini di scienza in genere provano, o forse dovrei meglio dire ‘provavano’, per il potere. Comunque, rispondendo alla sua domanda, voglio dirle che io insegno matematiche e sono convinto che le scienze esatte siano un tirocinio doveroso per uno scrittore, poiché insegnano a fare a meno della vasta superficialità oggi tanto comune in letteratura, per scavare dentro i significati, le equazioni non sono mai troppo lunghe e qualunque calcolo che sia troppo lungo o complesso può – e deve – essere sottoposto alla semplificazione. In fisica, ad esempio, si è anche inventata la cosiddetta rinormalizzazione, ossia quando alcuni calcoli inerenti le particelle subatomiche tendono verso valori infiniti, allora si introducono ad arte alcune radici e così si riconduce il risultato ad un qualche numero ragionevole, e in matematica ragionevole sta per computabile. C’è anche un professore tedesco che, se non sbaglio, ha scritto un libro dal titolo simile e lo ha presentato qui ad Harvard qualche anno fa».
«Non è forse Die Lesbarkeit der Welt (La leggibilità del mondo) di Hans Blumenberg?»
«Sì, è giusto, proprio lui! Un uomo molto rigoroso nell’esposizione, sembrava più un matematico che un filosofo, credo sia morto qualche anno fa».
«Sì, credo anch’io. Così lei sposa la tesi della matematizzazione della letteratura?».
«Yep (modo informale per dire sì), intendendoci però sul fatto di considerare la matematica come un campo dove regna l’amore verso la struttura logica delle cose e non come una serie infinita di fredde astrazioni come l’uomo della strada è portato a credere. Se guarda le opere dei grandi pensatori vedrà che sono strutturate secondo un ordine matematico, pensi a Spinoza, che costruisce l’Etica come un libro di geometria con postulata, propositio, demonstratio, corollarium, etc., una struttura matematica del pensare filosofico. Il romanzo, invece, nasce moderno, ossia tanto più diventa romanzo, e abbandona la commedia, la tragedia, l’opera buffa, il dramma e tutti quei generi nati principalmente per essere rappresentati, tanto più assume i caratteri della modernità. Non a caso Gargantua e Pantagruel è il primo romanzo della storia ed è un romanzo del Rinascimento, l’epoca che segna l’inizio della modernità, più che l’uscita da un presunto Medioevo. A questo proposito è significativo che l’oracolo del romanzo di Rabelais veda la soluzione dei problemi della vita in una sola parola “Trink”, “bevi”, una sorta di estetica materialista che trova non pochi collegamenti con i crassi miraggi del nostro tempo».
«Bisogna comunque aggiungere anche il Don Chisciotte insieme a Gargantua e Pantagruel».
«Ha ragione, anche Cervantes, guarda caso, propone l’idea dell’uomo spaesato che combatte contro i fantasmi del mondo travestiti, per gli altri, da mulini a vento. Io non sono sicuro che siamo noi ad avere ragione di Don Chisciotte e che i mulini a vento non siano, in realtà, proprio giganti che noi siamo capaci di vedere solo come mulini, i luoghi dove si macina il grano, l’elemento fondamentale di ogni economia, ma questo è un altro discorso e ci porterebbe forse troppo lontano».


© Sergio Caldarella, 2010.

Saturday, July 10, 2010

Copenhagen città dai sogni di vetro.




Copenhagen città dai sogni di vetro è il titolo dell´ultimo libro di Peter Långkvist e non c`è da meravigliarsi se lo scrittore abbia deciso di trascorrere gran parte della sua vita in questa città tranquilla e bella in cui ha avuto la fortuna di nascere. Quando arriviamo davanti alla casa di Långkvist sono già le dieci e trenta del mattino. Due uomini stanno scaricando della ghiaia da un automezzo, mentre, dirimpetto, un tizio con un grembiule grigio sta ramazzando il marciapiede. La sua abitazione, proprio al centro della zona vecchia, è una tipica casetta danese a due piani con il tetto spiovente e la vista sui canali. Vi si accede da una scalinata in mattoni rossi sovrastata da un´imponente porta d´acero con un magnifico battente in bronzo a forma di grifone. Ci sovrastano alcune nubi bianchissime che, sotto l’azzurra volta di quel cielo tranquillo, risplendono di un candore quasi irreale. Suoniamo il campanello e da lì a poco Peter Långkvist, un uomo massiccio dalla folta barba bianca, ci riceve indossando una giacca da camera verde e, dopo una brevissima presentazione in un impeccabile inglese dall’accento britannico, ci fa subito strada verso il piano superiore attraverso una scala costellata di foto e quadretti sul lato della parete.
Långkvist apre la porta del suo studio facendoci segno di precederlo nella stanza. Com’era da attendersi lo studio è stracolmo di libri, illuminato durante il giorno da un lucernario a piramide che lascia cadere la luce naturale su una rosa dei venti intarsiata sul parquet al centro della stanza; il lato che dà sull´esterno è, invece, una grande finestra a riquadri con una porta che accede su una terrazza piena di fiori.
Lo scrittore si siede su una delle grandi poltrone lasciando a noi la scelta del divanetto oppure di due altre poltrone dall´altro lato del tavolino ingombro di volumi e riviste. Nello studio tutto sembra odorare di legno buono e di libri impilati sugli incantevoli scaffali che affollano le tre pareti fino alla grande scrivania davanti alla vetrata. Långkvist, quasi scusandosi, ci dice: “purtroppo in questa stanza non ho spazio per appendere i quadri che, in verità, sistemo dove e come posso in giro per la casa”. Fin da subito, dai modi e dalle parole di Peter Långkvist, si capisce che questa intervista non sarà incentrata sui soliti temi: gran parte degli scrittori contemporanei amano parlare di se stessi e non di idee e l´unica cosa che si aspettano da un intervistatore è adulazione per quello che scrivono. Le parole, il tono e la presenza di Långkvist ci fanno invece capire da subito che l’intervista con lui sarà diversa, perché egli è l´esatto contrario di quella gente e, al di là della barba e dell´aria imponente, lo si potrebbe immaginare come un ragazzo gentile che ha appena accolto in casa due nuovi compagni di giochi.
Continuando il discorso dal punto in cui Långkvist l’aveva appena lasciato riprendo la sua affermazione a proposito dei quadri e gli chiedo: “nei suoi romanzi l´arte ha un ruolo centrale ed è come una chiave capace di aprire tutte le porte: penso, in particolare, a Jorg, il protagonista di La macchia sul viso, che, proprio attraverso l´arte, riesce persino a ritrovare sua madre e la gioia di una nuova vita accanto alla pittrice Leyla. Crede davvero nel ruolo universale dell´arte in un mondo come quello contemporaneo dove, per la maggioranza, Van Gogh è ‘Van Gogh’ solo perché i suoi quadri sono oggi quotati diversi milioni di dollari e non per la sua straordinaria capacità di dipingere?”.
Proprio mentre termino la mia prima domanda entra nello studio un’anziana signora reggendo un vassoio con una teiera e dei biscotti. L’anziana signora ci sorride, poggia il vassoio su un lato del tavolino con i libri, e immediatamente dopo si accommiata con un breve cenno del capo. Noi ringraziamo l’anziana signora e Långkvist si limita a dirle un “grazie mamma” a bassa voce.
Prima di rispondere alla mia domanda lo scrittore compie alcuni movimenti sulla poltrona, come se stesse usandone lo schienale per grattarsi la schiena, poi versa del caffè nero nelle tre tazze, ne prende una senza aggiungere zucchero e dice: “Se per arrivare a capire la realtà dovessimo partire dal mondo così come lo interpretano in molti, non credo che andremmo davvero lontano. Secondo me, l´arte può rappresentare, in qualunque caso, la giusta chiave per accedere ad un nuovo, diverso livello di consapevolezza sul reale così come, del resto, ogni altra cosa buona e bella”.
Cogliendo il suo spunto gli chiedo: “questo ci porterebbe anche ad un discorso sul ruolo dell’artista nella società contemporanea”.
“Un ruolo terribile” replica subito Långkvist.
“In che senso?” Chiedo perplesso.
“In una società del conformismo globale che spazio vuole vi possa essere per l’originalità e l’individualità dell’artista? Viviamo tutti schiacciati da un minimo comune denominatore che ci vuole omologati ad un modello deciso dal volgare sentire comune”.
Piacevolmente sorpreso dalle parole dello scrittore aggiungo: “condivido e capisco bene quello che intende. Del resto un altro Suo eminente conterraneo scriveva su queste cose già nell’Ottocento”.
“Sì, riprese subito Långkvist, il danese Søren Kierkegaard, il grande Kierkegaard che a quel tempo aveva già capito tutto quello che sarebbe successo dopo. In una società dell’omologazione e del conformismo l’individualità dell’artista viene percepita come una minaccia. Dobbiamo essere tutti uguali e ad ogni costo, altrimenti peggio per noi. L’arte risveglia la coscienza e in una società delle anime dormienti essa non può che essere percepita come un pericolo, anche per questo bisogna attribuire un prezzo all’arte, un’etichetta mondana per depotenziarla del suo contenuto”.
A questo punto il mio amico James interviene chiedendo: “mi pare di capire che, su questo punto, lei sia fondamentalmente socratico: il buono, il vero, il bello…”.
“Beh, sì, per me i grandi ideali della Paideia greca non hanno mai smesso di esercitare il loro richiamo”.
“Professore…”
“No, non sono un professore, la prego di non chiamarmi così”.
“Mi scusi, non volevo certo mancarle di rispetto”.
“Sì, lo capisco bene, ma è un argomento cui sono molto sensibile perché, almeno qui da noi in Danimarca, si crede che ogni intellettuale che abbia scritto qualcosa di buono debba necessariamente essere affiliato a qualche istituzione culturale ufficiale. Pensando però allo stato attuale della moderna accademia non si può che provare ripulsa per quel mondo. Oggi ai ‘professori’ è forse da attribuire il dissesto della nostra cultura più che i suoi buoni frutti. In una delle sue e-mail lei mi diceva proprio di aver scritto un libro sulla decadenza della cultura contemporanea”.
“Sì, è un libro dal titolo: La Società del Contrario, un’analisi su come la cultura sia stata tradita proprio da quelli che avrebbero dovuto difenderla e preservarla. Purtroppo non è tradotto in inglese o in danese, altrimenti gliene avrei portato una copia.
Volevo però chiederle qualcosa d’altro a proposito del suo ultimo libro, il primo che lei dedica alla sua città, Copenhagen città dai sogni di vetro. In quest´opera lei inaugura una teoria secondo cui la specie umana, con tutta la sua arroganza e il suo credersi al centro dell´universo, altro non è che il veicolo di trasmissione di un´altra specie che se ne serve come veicolo, ossia il gene che è in ognuno di noi. Secondo quanto lei scrive, siamo veicoli funzionali alla pura e semplice riproduzione del gene; quasi come un autobus che porta dei passeggeri da un luogo all’altro del tempo. Nel suo libro lei propone la tesi secondo cui, fin dalle origini della storia umana, ciò che nell´uomo rimane invariato è la natura fondamentale del suo gene. L´uomo di Neanderthal e l´Homo Sapiens sono diversi nella struttura anatomica e comportamentale, ma non in quella genetica; così il gene, attraverso noi, sopravvive ai millenni lasciandosi trasmettere in avanti nel tempo a nostra insaputa. Al gene non importa nulla se milioni di esseri umani muoiono in un conflitto oppure a causa di un´epidemia – esso è assolutamente amorale, o per dirla con Nietzsche, al di là del bene e del male. Al gene interessa soltanto che rimanga sempre un ragionevole nucleo umano atto a perpetrare la sua riproduzione che, poi, è la sua eterna sopravvivenza. Secondo questa teoria la specie umana, e tutte le sue fantasie di centralità e supremazia sul mondo, è soltanto il mezzo attraverso cui il gene si sposta nel tempo! Le nostre fantasie, la nostra volontà, i nostri desideri, null´altro sarebbero se non sogni che il gene ha incastrato nella nostra mente per consentirci di andare avanti e non accorgerci di essere solo contenitori o portatori di qualcosa d´altro. In sostanza non agiamo, ma siamo soltanto agiti: non agit sed agitur”. A queste parole Peter Långkvist assente limitandosi a calare varie volte il capo.
“Certo, al di là del suo intriseco nichilismo, la sua tesi confina anche con la letteratura fantascientifica, in sostanza lei ipotizza una sorta di invasione degli ultracorpi che, invece di provenire dallo spazio o da chissà dove, sono in realtà da sempre stati dentro di noi”. A questo punto del mio riassunto Långkvist, con un largo sorriso, aggiunge: “Badi bene che la teoria cui Knut (il protagonista del romanzo) fa riferimento non si ferma qui, ma va ben oltre. Egli, influenzato dalla lettura di Nietzsche e dalla teoria, fatalmente non del tutto nietzschiana, dell’Übermensch, il Superuomo, ne deduce che il pensatore tedesco avesse ragione, sbagliandosi però nel ritenere che questo Superuomo, al suo emergere nella storia, sarebbe stato ancora un “uomo” strictu sensu, ossia un essere umano come noi siamo abituati a concepirlo. Egli ipotizza che, in realtà, il Superuomo non sia altro che il compimento del gene, ossia verrà un tempo in cui il gene, stanco di abitare nelle profondità dell´uomo, o magari pronto ad entrare in una fase successiva della sua evoluzione, emergerà dall’interno noi prendendo il controllo e, paradossalmente, questo segnerà la fine della specie umana così come la conosciamo”.
A questo punto attendo che lo scrittore finisca di parlare e gli chiedo: “Posso però citarle un passo del suo libro dove l´avvocato Mathyl si rivolge pessimisticamente a Knut ma, allo stesso tempo, tenta di ridimensionarne la teoria del gene? È un passaggio che personalmente trovo molto suggestivo: ‘Cerca, cerca, in questo aggirarsi tra i giorni, e cosa trovi? Dopo aver sperimentato in lungo e in largo, verso quale terra volgere ancora il capo? È possibile scovare una ragione per cui siamo vivi? Oppure bisogna abbandonarsi al destino che ci fa schiavi dei nostri geni? Noi siamo dunque nulla ed è, secondo te, solo il gene che attraverso di noi continua la sua perversa esistenza? Se così fosse allora anche questa mano che scrive è diretta da una forza che essa ignora? Sì, ignoriamo, è vero, la totalità delle ragioni, ma da qui ad affermare di essere eterodiretti il passo è lungo, non breve, mio caro’. Questa potrebbe essere, all’interno del romanzo, una ragione in sé per rivalutare lo scopo e il valore dell’esistenza umana anche a dispetto della predominanza del gene?”.
A questo punto Peter Långkvist, tira un leggero sospiro, si gratta il mento con la mano sinistra e poi dice: “Beh, è chiaro che l´avvocato, essendo un religioso, prova ad opporsi filosoficamente alla tesi di Knut ma, alla fine del libro, accorgendosi che il suo amico viene proprio ucciso da una malattia che nessuno riesce ad identificare né tantomeno a curare, collega questa situazione alla scoperta dell’amico e ne diventa un fervido sostenitore”.
A questo punto intervengo nel discorso di Långkvist chiedendogli: “Allora, se dobbiamo seguire la tesi di Knut, l´uomo, in quanto essere autonomo, non è mai esistito o, per dirla meglio, tutto ciò che di lui esiste ha ben altro fine, così, la sua esistenza ha tanto senso quanto quella di un vaso che trasporta del vino: non è il vaso che conta, ma il vino che c´è dentro”.
“No, non direi, a mio avviso la situazione è un po´ più complessa, poiché è vero che Knut dice anche queste cose però lui le ha scoperte, dunque è un po´ come una macchina senziente – in questo caso l´uomo – che si ribella al suo padrone – il gene. Sarebbe come se domani uno dei nostri elaboratori elettronici cominciasse ad aver coscienza di essere ciò che è: a partire da quell´istante non sarebbe più una macchina e basta, ma una nuova entità con cui dovremmo confrontarci. Ecco, in realtà Knut è l’autentico Messia o il novello Socrate se vuole: colui che scopre la verità dentro l´uomo e nel momento in cui gli esseri umani prendono coscienza di questa verità possono finalmente dirsi liberi”.
A questa sua frase ribatto: “Sentire la prigione, per capire la libertà... In un certo modo assomiglia alla tesi fondamentale del film Matrix dove Neo è un Messia in versione cyber che porterà a compimento la riappacificazione tra gli uomini e le macchine”.
E Långkvist prontamente aggiunge: “In un certo senso... Ma la tesi del film che lei cita appartiene, in realtà, ad un discorso ben più antico: quando Neo viene risvegliato dalla pillolina e scopre che quella realtà da lui vissuta fino a quel momento era solo un sogno che una macchina aveva creato elettronicamente nel suo cervello egli riecheggia un concetto platonico mischiato con pensieri di Berkeley, Cartesio e la teoria dei cervelli in una vasca”.
Sorpreso dall’accuratezza della risposta di Långkvist aggiungo: “Ha certamente ragione: Platone per quanto riguarda il mito della caverna, Berkeley per l´esse est percipi e Cartesio?”.
Långkvist sorride nuovamente e dice: “Cartesio poiché è lui che pone il dubbio assoluto relativo al mondo esterno e fonda l´unica certezza nel pensiero di pensare, lo stracitato cogito ergo sum…”.
“Capisco, davvero interessante questo discorso. In sostanza sembra proprio che l´umanità non faccia altro che ripetere sempre le stesse cose”.
“No, non direi – aggiunge ancora Långkvist – perché un pensiero, anche se apparentemente assomiglia ad un altro, ma viene espresso altrimenti o in un’epoca molto diversa, in quel momento coglie un angolo della realtà che era rimasto ancora inesplorato anche se non ignoto, un lato che solo da quella prospettiva può essere visto in quella sua particolare luce. Proprio adesso abbiamo parlato di Platone, di Berkeley o Descartes i quali dicono ognuno cose diverse eppure, in fin dei conti, dicono pur sempre la stessa cosa”.
Lieto di quell’incontro con Långkvist aggiungo timidamente: “Pare che ci muoviamo sempre nello stesso alveo concettuale e forse, con Platone, un giorno riusciremo a guardar fuori da questa caverna delle apparenze e tornare a riveder le stelle”.
“Sì, un giorno, sperando magari di trovare un bel cielo là fuori…”.

Copyright © 2010 by Sergio Caldarella & James Krote.