Saturday, September 25, 2010

Words, do they have a power?


It is difficult to say if words do have a power, but they surely are the shadow of a soul that the ink throw on the paper. When words are real, which means when they come directly from the heart, they carry in them a deep and long story: is the “I” scratched on the paper just a simple straight line or somehow is capable to represent the shadow of human existence on paper? And why there is a word for life and a word for existence? Because one cannot contain the other?
Why is the Statue of Liberty in Kafka’s Amerika holding an upraised sword instead of the torch we know? Is there a meaning we cannot see? Maybe that even freedom is just another perception of human slavery? Or that there is no freedom without fight for it?

(Dr. Divago)

Tuesday, September 21, 2010

Spunti per una filosofia delle bolle di sapone


Se c’è una filosofia delle finestre (Pessoa), delle candele (Bachelard), delle radure (Heidegger), dei limiti (Wittgenstein) e persino un’ontologia dei buchi, perché non dovrebbe anche esserci una filosofia delle bolle di sapone? Se assumiamo come limite del nostro mondo soltanto ciò che appare davanti agli occhi, una filosofia delle bolle di sapone, ossia una filosofia dell’evanescente, non sembrerà nient’altro che un singolare trastullo dell’intelletto, ma se invece intuiamo nel mondo qualcosa che è più del mondo, allora il nostro sguardo verso le cose cambia radicalmente. Perché, si chiedono alcuni, dovremmo mai preoccuparci di alcune insignificanti sfere di sapone che si dissolvono nell’aria dopo pochi secondi che sono state create? Chi pone questa domanda decide, arbitrariamente, che siano il tempo e il peso le misure grazie alle quali si quantifica il valore delle esistenze. Cosicché se proviamo a rapportare a questa metrica il tempo medio della vita umana con quello, ad esempio, degli elefanti o degli astri, dovremmo dedurne che la nostra vita, in conformità a questo criterio valutativo, è meno importante della loro. E’ sempre un discorso molto delicato e spesso pericoloso quello di chi cerca di trovare criteri di valutazione grazie ai quali sia possibile “pesare” ogni cosa. La storia sia umana, sia individuale, ci ha insegnato che questo criteri sono una chimera di chi non fa altro che assumere unicamente se stesso come limite. Certo, se ogni cosa fosse soltanto in ciò che appare potremmo ancora pensare che la luna ha una sola “faccia”, che il sole giri intorno alla terra, oppure che l’acqua è soltanto qualcosa di liquido e bagnato. Quando, però, cerchiamo di capire qualcosa in più sulle cose – ma anche su noi stessi – ci accorgiamo che la luna ha due “facce”, che la terra ruota intorno al sole secondo precise orbite ellittiche e che l’acqua è un composto di atomi semplici come idrogeno e ossigeno, per limitarci ad un solo livello. Nelle cose e nelle parole non ci sono soltanto dei lati che non vediamo e che, magari, possiamo arrivare a conoscere indirettamente, in esse c’è anche un inesprimibile scarto di senso, qualcosa che non riusciamo a definire ma di cui intuiamo una sorta di “esistenza” (gli antichi coglievano questo aspetto nel “nume” che intravedevano dal sasso fino alla stella lontana). Nel campo dei sentimenti questo aspetto è colto da gran parte degli esseri umani, anche da quelli che in una bolla di sapone non vedono nulla oltre a ciò che appare.
Le bolle di sapone, queste piccole sfere dai riflessi bluastri, possono anche apparirci come messaggeri di mondi lontani, quasi come i fiocchi di neve: epifanie di mondi lontani che attraverso il biancore o la trasparenza sussurrano qualcosa alla nostra individualità, stabilmente radicata nel grigiore di cose quotidiane e scontate. Ci manca sempre qualcosa che non abbiamo, ma ciò che ci manca più di tutto è un mondo delicato, silente, vicino più alle nostre sensibilità interiori che al nostro corpo. La filosofia delle bolle di sapone è come un’ontologia delle forme di luce in cui si rivelano strane ed evanescenti realtà mascherate da sapone e acqua sotto le vesti di una sfera perfetta.
(Tratto da: Sergio Caldarella, Filosofia delle bolle di sapone, in "Rivista di Scienze e Lettere", Vol. XXVII Firenze 1996, pp. 67-73)

Sunday, September 19, 2010

Keep the child alive!


When you’re a child, adults seems to you like strange characters on a stage: one plays the teacher, one is the doctor, a baker or a truck driver, while someone decides to be on the sad side of life and another just paints a happy smile over his face. As a child you see through all of this from a privileged standpoint and you “know” by instinct that it’s just part of a big script where every one pick a role and go on acting, sometimes even for the rest of his life.
Growing up we tend to forget this feeling we later call “innocence”, the gift to see what is real and what is just a meaningless game. As a kid you don’t fully understand why adults decide to play this game, because being a child means to be always bigger than life. As a kid you know that roles are irrelevant and what matters is just who you really are. That’s why we have a society where everybody runs after appearances and fake prizes, just to forget the substance, just to forget that child that we once were. The key to a real life is not losing that innocence: keep the kid alive!

Saturday, September 18, 2010

La scienza senza fede e la fede senza scienza


Alcuni hanno sollecitato una chiarificazione a proposito del post precedente (“Quando troppo non è ancora abbastanza”) e, in particolare, sulla ragione per la quale scrivo che Lapace aveva fornito a Napoleone una risposta ben più arguta dei vari Hawking, Dawkins e brutta compagnia.
La risposta di Laplace “je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là”, è autenticamente scientifica e si connette anche alla vecchia diatriba, nel ‘700 certamente più viva di quanto non sia oggi, tra scienza e religione e si inserisce pienamente nell’alveo di una serie di osservazioni che già il vecchio Galilei, seppur in altri termini, poneva ai teologi dell’Inquisizione. Infatti, larga parte della difesa del pisano in risposta alle accuse di Santa Romana Chiesa, è proprio nell’insistere sulla separazione tra i domini di scienza e teologia. Chiaramente all’epoca la teologia era considerata come madre di ogni sapere e la questione era certamente anche politica – e Galilei, per quello che poteva, ribatteva anche sul versante politico. Quella che sostanzialmente Galilei ribadiva era la differenza tra le verità di fede e le verità di ragione che faceva parte del pensiero teologico da tempi antichissimi.Tommaso d’Aquino aveva già definito fede e ragione come processi conoscitivi diversi, dando chiaramente priorità alla teologia. Galilei cerca invece di motivare questa distanza filosofica tra le due discipline dicendo che l’una non ha legami diretti con l’altra e pertanto, tra le due, non vi possono essere conflitti o contraddizioni. La scienza non ha bisogno di negare quello che non le serve per giustificare le sue leggi e teorie e questo era già chiaro ai tempi di Galilei. Per questo Laplace non dice, come fanno certi contemporanei, “il Creatore non esiste”, ma semplicemente “non ho bisogno di quest’ipotesi”. Scienza e religione appartengono a due domini diversi. Della frase di Laplace si sono fatti molti usi, ma si sa che la politica gioca qui un ruolo fondamentale. Purtroppo non è politicamente indifferente dichiararsi ateo o credente.
Come si diceva nel post precedente la differenza tra i tempi passati e i nostri è nella grossolanità con cui vengono fatte affermazioni di grande complessità senza tenere in alcun conto la storia del pensiero, ma neppure gli aspetti più profondi della scienza. Già da un punto di vista puramente scientifico è impossibile giustificare la certezza assoluta del fatto che domani sorgerà il sole. Se un fisico dovesse dire ad un matematico “sono certo che domani sorgerà il sole” al matematico basterebbe rispondere: “dimostralo” per smascherare la presunta scientificità di una tale dichiarazione. Anche se il fisico dicesse, come il nostro Hawking, che “l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale” basterebbe chiedergli “dimostralo” per metterlo a tacere. Ma si sa che nel nostro tempo la sciocchezza e l’idiozia passano per sapienza e al sapere allora non resta che vestire i soliti poveri panni di sempre, gli stessi che indossava l’incarnazione della filosofia quando apparì a Manlio Severino Boezio nella sua cella prima che lo trucidassero.

Sunday, September 12, 2010

Quando troppo non è ancora abbastanza.


La società globalizzata contemporanea è un mondo in cui sempre più l’immensità della confusione, delle sciocchezze, delle informazioni false, errate o create ad hoc, serve per istupidirci e renderci mansueti di fronte a questo grande gioco manovrato da marionette di vetro.
Stephen Hawking, uno tra i tanti, ha recentemente apposto il suo nome sulla copertina dell'ennesimo libro intitolato: The Grand Design. Questa volta il nostro accademico, novello Laplace, ha bellamente deciso, avec la plume, di espungere la presenza dell'Onnipotente dall'universo. I più ricorderanno la storia riportata da Victor Hugo secondo cui già l’astronomo e matematico Pierre-Simon de Laplace, anche se con maggiore arguzia dei nostri contemporanei, alla domanda di Napoleone il quale, meravigliato, gli chiedeva a proposito de la Mécanique céleste “Comment, vous faites tout le système du monde, vous donnez les lois de toute la création et dans tout votre livre vous ne parlez pas une seule fois de l'existence de Dieu! Ma come, vi occupate del sistema del mondo, fornite le leggi di tutta la creazione e nel libro non parlate una sola volta dell’esistenza di Dio!” rispose: "Sire, je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là. Sire, non ho bisogno di quest'ipotesi". Hawking invece, e il coautore Leonard Mlodinow, che scrive anche copioni per Star Trek, dichiarano drasticamente nel loro recente libro che l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale: “does not require the intervention of some supernatural being”. Chiaramente nell'epoca intellettualmente orrenda in cui viviamo, tutti si gettano a capofitto su una tale dichiarazione, come se fosse una novità, come se non fosse un dibattito che si trascina dagli inizi della storia senziente della nostra specie. Però, si sa, il nostro è un tempo che ha sempre bisogno di novità, così le novità bisogna inventarle anche quando non ci sono e travestire con questi panni lucenti anche una dichiarazione vecchia come il cucco (o come Abacucco). Forse Hawking ha solo pensato di fare concorrenza in libreria ad un altro don dell'accademia inglese come Richard Dawkins (Hawking è a Cambridge, mentre Dawkins è ad Oxford) che da tempo blatera degli stessi temi ed ha recentemente pubblicato The God Delusion, L’illusione di Dio (2006). Non bisogna però pensare che ci sia qualcosa di errato nel discutere o prendere posizione su un tema così affascinante e complesso come quello della divinità; lo hanno fatto in molti e con ragionamenti che hanno prodotto fini elucubrazioni e profondi sviluppi intellettuali. Le idee sul divino dei Greci sono ancora proficuamente dibattute, il Dao de Ching di Lao Tzu ci pone di fronte ad aspetti inusitati del divino e del pensiero, l’argomento ontologico di Anselmo finisce per produrre risultati nella filosofia di Kant e culmina in una prodigiosa elucubrazione matematica da parte di quel genio che era Kurt Gödel. E’ un tema immenso e ricchissimo, almeno per quello che riguarda le epoche passate. Ciò che infatti desta meraviglia nelle osservazioni dei vari Dawkins e Hawking è la loro rozzezza e superficialità intellettuale. Se leggiamo il Talmud o un trattato medievale di teologia – e come non pensare in proposito a Tommaso d’Aquino o Pietro Ispano che fu anche Papa – ci accorgiamo della squisita finezza delle argomentazioni proposte, della logica rigorosa e attenta con le quali le argomentazioni sono costruite, seguite e, oserei dire, inseguite. La grande capacità con cui si trovano le ragioni del divino e si cerca di comprenderne i modi nel mondo, arrivando proprio a comprendere che c’è un punto in cui il pensare legato alle cose deve fermarsi e forse solo un’altra intuizione più fine e sottile può aiutare su quell’ardua strada. Lao Tzu lo dice con tanta chiarezza proprio all’inizio del Dao de Ching: “Il Dao che può essere nominato, non è l’Eterno Dao”, mentre Dawkins e Hawking, come due bambini viziati, strepitano proprio perché non possono nominarlo! Loro vorrebbero essere più in lá del divino, considerano se stessi come l’epitome di ogni cosa e, in questo, assomigliano così tanto al triste uomo medio di questo tempo. Tutto deve condurre a loro e se così non è, meglio negarlo – anche se poi è soltanto con un colpo di penna. Ad un certo punto del libro Mlodinow e Hawking scrivono anche “Because there is a law such as gravity, the universe can and will create itself from nothing” e sembra di essere tornati indietro di quasi duemila anni alla diatriba sulla creatio ex nihilo elaborata dai Padri per rispondere agli Gnostici, nihil novi sub sole dunque. Quello che forse c’è di nuovo è l’attenzione e la ricezione che questo tempo riserva a tali banalità. E non sfugge neppure l’arroganza di un’affermazione in cui si assume una legge fisica come la gravità, ancora non del tutto chiara (non sappiamo se c’è un mediatore della gravità, non sappiamo perché è solo attrattiva, non siamo sicuri che sia solo geometria dello spazio-tempo, non conosciamo tutte le implicazioni di essa a livelli microscopici e macroscopici, etc.), per giungere a conclusioni che non sono neanche lontanamente logicamente giustificabili.
Questa superficiale negazione del divino da parte dei vari Hawking e Dawkins parte dalla solita confusione che domina in questo nostro tempo e non ha nessuna delle basi che magari avevano altre ben più raffinate ed elaborate critiche – almeno fino a quella di Bertrand Russell il quale, più che contro l’Eterno, aveva un ragionevole problema contro le religioni le quali hanno molto contribuito, e continuano a farlo, alla gran confusione che regna sul tema del divino. Paradossalmente, la sicumera contemporanea di argomentazioni che pretendono di negare ciò che non rientra in una sola chiave di lettura del reale è simile a quella del vecchio Cesare Cremonini che, per non far entrare nel suo limitato mondo una porzione di luce, si rifiutò ostinatamente di guardare nel cannocchiale di Galilei. Strano pensare che nel ‘600 erano gli scienziati quelli che portavano avanti la conoscenza e oggi, invece, questi titolati accademici hanno preso il posto di quelli che reggono saldamente la fiaccola dell’ignoranza, della superficialità e dell’oscurità.
Quando si pensa al passato è lieto ricordare quelle menti eccelse e illuminate e le loro meravigliose spiegazioni e interpretazioni del mondo che ormai non trovano quasi più rispondenza in questa società meschina e barbarica. Raramente l'idiozia e l'arroganza sono state con tale saldezza ed empietà al comando di una società. A meno che non si vogliano ripercorrere all'indietro millenni di storia o addentrarsi, come antropologi, nella mentalità e nella storia di certe tribù cannibali. Certo, nell'accusare un'intera società di barbarie, non si può evitare di venirne accusati indietro: del resto lo schiavo che viene bastonato è proprio quello che non si affeziona alla sua catena. L'organizzazione della tecnica dà alle pecore l'impressione della forza e allora basta sentirsi gregge per sentirsi forti. Dov'è, allora, in questa landa desolata la casa del Buono, del Vero e del Bello? Nel pecoraio? Quello che c'è in questa landa – o rimane – sono unicamente fiumi di vuoti chiacchericci. Tutto parla di cose piccole e aspirare a qualunque cosa grande agli occhi di queste genti è quasi un atto empio e rivoluzionario, per questo ogni grandezza dev'essere accuratamente bandita dal nostro orizzonte, per questo si possono impunemente scrivere libri diffamatori su Einstein, Schweitzer, Gandhi etc. Un’epoca piccolissima, infinitesima, come potrebbe mai capire, o anche lontanamente accostarsi, alla grandezza autentica? In una società di tal fatta bisogna discutere ovunque di fatterelli, di attrici, calciatori e cantanti, del numero di piedi che ha un millepiede o del tempo che farà domani. Vittorini lo diceva così bene in Conversazione in Sicilia: «Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso». Nella sua coscienza da poeta Vittorini ha bisogno di dire che il mondo è "molto offeso", non solamente "offeso" ed è proprio in quel "molto" che si celano così tanti segreti. Oggi, epoca in cui tutto sembra sia solo questione di consensus, chi può ancora arrivare a capire l'offesa del mondo? Forse solo quei pochi poeti ancora rimasti.

Sergio Caldarella