Monday, December 9, 2013

Dorothea’s House, Princeton.


Una nota di costume ed un segno dei tempi.


            Nel grigio torpore della cultura della nostra epoca prodiga di opinioni ma quantomai parca di pensieri, Princeton, in New Jersey, è forse uno tra i luoghi culturalmente più aridi che si possano immaginare anche se, grazie alle tante abilità della propaganda del mondo nuovo, gode, invece, di luccicante nomea di cultura. Albert Einstein, che in questa cittadina utilizzano spesso quale emerito concittadino, quando si esprimeva privatamente, scriveva con la stringata lucidità del genio: «Princeton è un piccolo luogo meraviglioso, un villaggio pittoresco e cerimonioso d’inconsistenti semidei eretti su dei trampoli ... Qui le persone che compongono quella che viene chiamata “società” godono di una libertà ancora minore rispetto ai loro omologhi in Europa. Eppure sembrano incoscienti di questa restrizione, poiché il loro stile di vita tende ad inibire lo sviluppo della personalità sin dall’infanzia» (da una lettera alla Regina Elisabetta del Belgio). In questo “piccolo luogo meraviglioso” ben poco pare sia cambiato dal tempo in cui il grande scienziato scriveva tali sferzanti commenti.
            Come molti sapranno, Princeton è anche sede di una prestigiosissimissima università e, nonostante questo, nel villaggio c’è a malapena una libreria decente (la Labyrinth Books sulla Nassau street) ed una deliziosa libreria indipendente (la Glen Echo Books) ha dovuto chiudere i battenti qualche anno fa per lasciar posto ad un modesto negozio d’abbigliamento! La scomparsa delle librerie è, forse, proprio uno tra i più chiari segni dell’odierno abbrutimento e barbarie e coinvolge tanto le Americhe quanto l’Europa, segnando nettamente la fase del curioso declino della società occidentale che sembra ormai aborrisca a tal punto il pensiero da dargli la caccia come un tempo davano la caccia alle immaginarie streghe. Ad un angolo del campus della costosa università di Princeton si trova la Firestone Memorial Library, la biblioteca principale il cui accesso è però sorvegliato da una guardia che impedisce l’ingresso ai non-clienti delle varie facoltà – da tempo in America non esistono più studenti ma clienti e in Europa, lasciando fare a queste borghesie di miseria e ignobiltà, arriveremo anche ad altri elementi grotteschi tipici del sistema statunitense quali la sanità privatizzata con il paziente trasformato in cliente ed altro ancora. A Princeton c’è anche una biblioteca pubblica, un nuovo edificio di vetro, cemento e acciaio sulla Witherspoon che serve, per la maggiore, da emeroteca e videoteca e la gran parte dei libri che vi si trovano, tranne alcuni che però mettono in vendita, sono la solita carta stampata di cui pullulano le varie liste di best seller in ogni dove. Vaghereste inutilmente tra quegli scaffali cercando qualcosa di culturalmente valido da leggere, a meno che non vogliate sottoporvi all’ultimo non-libro di Oprah, Patricia Cornwell, Coelho o James Patterson – larga parte dell’imbarbarimento contemporaneo è, del resto, il risultato del fatto che si leggono questi non-libri ritenendo che si tratti, invece, di libri veri. In una realtà talmente deprivata di cultura come quella contemporanea, tutto passa o può facilmente venir fatto passare per cultura. 
         Se si volesse provare ad identificare il nucleo del dominio imposto sulla società contemporanea da parte di un’ignobile minoranza disposta a tutto per mantenere anche il più banale dei suoi privilegi, ebbene questo lo si potrebbe facilmente identificare nella terrificante aberrazione in cui, seguendo un ben preciso progetto socio-politico, l’uomo viene trasformato in mezzo e non in fine. È quello che Kant aveva colto con profonda intuizione nella Selbstzweckformel dell’Imperativo Categorico nella Ragion Pratica: «Handle so, daß du die Menschheit, sowohl in deiner Person als auch in der Person jedes anderen, jederzeit zugleich als Zweck, niemals bloß als Mittel brauchst, Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre e allo stesso tempo anche come fine e mai come semplice mezzo (429)». È strabiliante notare come, proprio agli inizi della modernità, Kant avesse profondamente inteso la nullificazione introdotta nel mondo dalla sostituzione del fine con il mezzo, una nullificazione che non avviene unicamente nei confronti dell’altro, ma ha radicali conseguenze anche verso se stessi (proprio in questa sottile opposizione alla trasformazione dell’uomo in mezzo Kant identifica – e vi si oppone – non soltanto una delle radici della modernità ma anche una tra le forme del protonichilismo). Il pensatore di Königsberg aveva capito quello che poi Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler, Schweitzer, Adorno, Marcuse, Fromm o Lukács studieranno e riprenderanno scrivendo di un mondo trasformato in un palcoscenico vuoto in cui l’uomo, ridotto ad automaton, agisce in una cornice svuotata di significati e, dunque, nullificata nelle sue realtà fondamentali. È il mondo stremato e offeso (Vittorini) di un sacrilego noli me tangere che il borghese saluta come proprio e fondativo del rapporto con gli altri: noli me tangere in questa desolazione umana di cui il borghese non vuol saper nulla ed in cui non sembra possa esser raggiunto da alcuna voce che non sia quella di fame, sete e bisogno – Vitaliano Brancati scrisse sul tema un maestoso articolo dal titolo Il borghese e l’immensita oggi ripubblicato in una raccolta dei suoi saggi edita da Bompiani. Non è inoltre infondato ritenere che quest’incapacità di lasciarsi avvicinare e toccare da pensieri autentici corrisponda al timore dello sgretolamento di un’individualità incerta e pericolante. Se la cultura è anche voce, capacità di raggiungere l’altro sia esso lontano o vicino, in un mondo artato in cui bisogna eseguire istruzioni e schermirsi da tutto ciò che è profondamente umano, emerge allora la necessità strumentale di una cultura nova che più non abbia le forme e le aspirazioni di quella del passato e coincida con i dettami dell’homo novus del nostro evo. Debbono allora emergere i ciambellani della cultura, gli “avvocatucci unti di brillantina” (Pasolini), i guardiani diurni ed i buttafuori, gli abbaiatori, i gazzettieri, gli sporcascarpe, i guardaspalle ed i vari manutengoli che pretendono di aver trasformato la conoscenza in lenocinio e mercimonio solo perché hanno malamente occupato una rocca.
         È evidente che, in una tale situazione, c’è da aspettarsi ben poco di buono culturalmente, socialmente o politicamente. Bisogna forse aggiungere che a Princeton, come a Predappio, Catania o Vattelapesca, ci sono sempre degli organizzatori di pletore di manifestazioni e intrattenimenti con velleità di cultura, in genere ad usum dei soliti borghesucci con l’ausilio del chierico di turno che racconta di questo o di quel fatterello con, al termine, un rinfresco con tarallucci e vino in cui si parla della prossima vacanza, della prossima pioggia, neve, calura, etc. È in questo strabiliante contesto contemporaneo che si situa la Dorothea’s House, detta anche la “casa d’incultura italiana di Princeton”, un bell’edificio posto nel centro del villaggio, non lontano dalla biblioteca e da altre amenità locali. Come la Villa Riemann di Siracusa, anche questa casa pare sia il frutto di una donazione che risale al 1913 ed agli inizi questa era un’associazione a scopo benefico. Coloro i quali credono basti avere un bell’edificio per creare cultura non hanno mai capito che la cultura autentica si regge sempre sulle gambe degli uomini e non su stucchi e colonne di marmo: Socrate era un artigiano squattrinato, Spinoza faceva il pulitore di lenti, Pessoa o Kafka erano degli impiegati e nessuno tra costoro – per limitarsi a questi pochi – ha mai avuto in dono edifici da cui propalare un qualunque verbum. Curioso che, proprio la dimensione più propria ed autentica della cultura, ossia di qualcosa che avviene attraverso le menti, sfugga quasi completamente a coloro i quali credono che la cultura consista, invece, di begli edifici, denari, facce imbellettate ed un sacco di pezzi di carta da incorniciare, confondendo così proprio la distruzione della cultura con il suo sostegno. Il Duca de La Rochefoucauld faceva ben notare: «Coloro che si applicano troppo alle piccole cose, diventano solitamente incapaci delle grandi» (41). E, proprio poiché costoro si applicano troppo alle piccole cose, non soltanto non sanno più come applicarsi ad alcuna cosa grande, ma finiscono per vedere tutto sempre e solo sotto una luce piccola, illudendosi di sfuggire alla responsabilità umana che richiede riflessione autentica e finendo per pensare solo a se stessi, o almeno così credono, perché in realtà quella forma di pensare a se stessi è, a malapena, un altro modo per non pensare a nulla. Del resto c’è sempre molto da imparare anche sulla pochezza e la cecità di coloro che portano i pesi di un sistema il cui fine è l’annientamento della loro stessa personalità. Quando ci viene concesso il dono d’intravedere anche delle piccole verità diventiamo più liberi, quando invece quello che crediamo di conoscere è pura semplificazione, falsità o propaganda, questo ci tarpa le ali e incatena ancor più all’illusione ed alla vita inautentica. Il problema fondamentale di un mondo istintivamente anticulturale è che le strutture socioculturali di una società in cui quest’impostazione è dominante, invece di conferire senso all’esistenza, congiurano nell’inumano tentativo di deprivarla da questo. È proprio questo il dramma contemporaneo contro cui, chiunque voglia dirsi morale, dovrebbe, necessariamente e suo malgrado, levare la propria voce.
          Nei tempi antichi era ben nota l’infatuazione del tiranno di Siracusa per il grande Platone o di Nerone per Seneca e di come tali rapporti siano finiti male o tragicamente, proprio perché questi grandi e nobili maestri si rifiutarono di acconsentire alle piccole volontà dei tiranni e di assecondare le loro manie e vezzi. Certo che se il Dionisio fero o il dedicator damnationis avessero capito a quel tempo che, per venir assecondati, gli sarebbe bastato mettere un paio di stallieri o citaristi stonati in un bell’edificio di marmo e chiamarli professori, non si sarebbero forse presi tanta pena contro Platone ed il povero Seneca. L’Imperatore Caligola ci era andato vicino nominando Senatore il suo equino, ma nella sua epoca non gli era ancora balzato in mente che avrebbe anche potuto nominarlo chiarissimo Rettore o presidente di qualche altisonante istituto. Oggi, invece, i potentati questa lezione l’hanno ben recepita e per questo, oltre ai tanti diplomifici distinti per classi di reddito, sovvenzionano, di tanto in tanto, anche questi covi di conformismo e mediocrità che si arrogano il nome di istituti “culturali” e ad altro non servono se non a rafforzare la potenza del sistema di annientamento della cultura proprio in nome della cultura – Ah! Quale strabiliante epoca di orwellianerie e paradossi! Tale sistema di annientamento della cultura erge così una muraglia anti-culturale favorendo il solo emergere di pseudospiegazioni funzionali al sistema di potere: non è un caso che ad individui come Milton Friedman, tanto per limitarsi ad un solo esempio eclatante, abbiano persino assegnato il Premio Nobel insieme a molteplici altre prebende. Se gli intellettuali, i sapienti, i filosofi e tutti gli altri uomini buoni hanno in passato dato tutto al mondo, anche le loro vite spesso atrocemente terminate, questi sono invece coloro che sanno sempre e solo prendere.

         
La Dorothea’s House di Princeton è il preclaro esempio dell’ennesimo bell’edificio trasformato in mausoleo della cultura. La prima cosa che colpisce di questo dopolavoro della cultura è che, già a partire dalla brochure a stampa di presentazione, questi mal illuminati luminari fanno proprio grossolani errori di grammatica italiana in un testo banale e di pochissime righe! L’ironia più grande è che offrono anche corsi d’italiano o, per meglio dire, d’“italiota”, variante illetterata della bella lingua italiana (nel loro sito web infatti preferiscono evitare l’italiano). Le iniziative che organizzano sono poi ancora più ilari e stravaganti del loro bizzarro idioma: ogni tanto proiettano qualche pellicola proveniente dal Grande Paese ed altre volte organizzano magniloquenti conferenze invitando amici, parenti, conoscenti e consociati vari. La casa d’incultura italiana di Princeton è uno tra i tanti luoghi nei quali la nostra epoca contrabbanda chiacchiere e banalità per elevatissima cultura e, se vi dovesse capitare di partecipare ad uno di questi eventi, vi accorgerete che, già dall’atmosfera tetra di questa grande sala senza storia, si prova l’impressione di trovarsi in un fumetto di Alan Ford in cui Luciano Secchi e Roberto Raviola, dal ‘69 alla fine degli anni ‘80, mettevano alla gogna e facevano il verso a questa piccola borghesia polverosa e imbellettata che odora contraddittoriamente di stantio e naftalina.

         Le magniloquenti conferenze presentate con squilli e schiamazzi alla Dorothea’s House sono, in genere, discorsi raffazzonati tenuti da scalcagnati relatori che s’improvvisano grandi e mirabili esperti di questo o quell’autore, di questa o quella materia, solo perché sono passati dalle forche caudine di un concorso pubblico da qualche parte o perché hanno presentato il giusto numero di lettere di raccomandazione! E questo scenario che si ripete e ripercuote in questa minuscola conventicola di provincia che è la Dorothea’s House è, mutatis mutandis, lo stesso che ormai si ritrova dalle più note istituzioni dette culturali fino al più lontano circolo del bridge di Vattelaspesca. L’addomesticamento della cultura che produce la desertificazione era del resto già stato preconizzato da Nietzsche nell’Ottocento e noi siamo spettatori dell’avverarsi di profezie con le quali eravamo stati ben ammoniti! Si rimane comunque increduli contemplando il livello di arroganza ed ignoranza mostrato in queste pseudoconferenze ed è inevitabile chiedersi chi saranno mai quelli che dirigono un tale circo e così si arriva alla direzione della casa d’incultura. La gran dama di corte è, al momento, una tal Linda che sa di cultura tanto quanto un ciabattino sa di astrofisica e, insieme a quattro fidati consigliori, decide del bello e del cattivo tempo alla casa d’incultura, tendenza questa diffusa nella gran parte degli istituti della cultura nova: a Francoforte sul Meno, tanto per aggiungere un solo altro esempio, c’era alla direzione della Literaturhaus una certa Maria Gazzetti che, sapendo ancor meno di questa, faceva ancor peggio. Del resto ben poche altre epoche possono dirsi nostre pari nell’incompresione e rigetto per ogni pensiero che non sia un ringhio o un belato. La società dell’abundantia produce manichini ben curiosi: mala tempora currunt.
          La società globale contemporanea ha un disperato bisogno di un nuovo modello sociale che soltanto la cultura autentica sarebbe in grado di concepire e, se poco più di un secolo addietro, il mondo si trovava nelle mani di una follia criminale che ha condotto a due orripilanti guerre mondiali, oggi è sotto il saldo controllo di una stolida idiozia dal ghigno sorridente di cui i piccoli menestrelli dell’incultura non sono che nere epitomi. Una cultura resa monca da mezze figure e caudatari che nulla hanno da offrire non soltanto non sarà più capace di proporre delle soluzioni valide alla dissoluzione sociale imposta dai poteri ciechi delle mediocri borghesie di dominio, ma renderà anche impossibile veicolare un messaggio che possegga contenuti culturali validi. In tal modo, l’impostazione del modello accademico/culturale contemporaneo che sembrava unicamente funzionale al meccanismo di dominio si sta invece mostrando quale elemento chiave del processo di disfacimento sociale e di distruzione planetaria. Di fronte a tale sfacelo alcuni si tranquillizzano credendo, erroneamente, che questi borghesucci che pretendono di reggere il timone della cultura almeno non sono esiziali, senza capire che sono invece tanto pericolosi quanto lo erano i loro predecessori con la torcia o il manganello, almeno quelli, quando sentivano la parola cultura, rivelavano la loro autentica natura mettendo mano alla rivoltella, mentre questi se ne vanno in giro tronfi e paonazzi, propagando una voce che grida “cultura, cultura”, ma contiene a malapena uno squittio d’immenso silenzio: o tempora, o mores!
(Sergio Caldarella, Una nota di costume ed un segno dei tempi, «Il Pungolo» 29 novembre 2013).