Wednesday, September 9, 2009

Scrivere senza meta.



Una verità puoi anche annodartela ad un dito, mentre l´universo vi ruota, indifferente, attorno - chi più si avvinghia alla vita pare che più se ne allontani. Cose ed eventi sfuggono presto alla vista e qualunque maldestro tentativo di inseguirli è ancora un modo per detestare il pianto che ci fa umani. Se c´è un senso in ciò che siamo è proprio in questo schiaffo che abbiamo accolto dal destino. La poesia – parola ormai quasi proibita in questa deprimente modernità – è qualcosa che si aggiunge al mondo, un pezzo di vita o di verità che prima non c´era e domani non ci sarà più in attesa che qualcuno raccatti di nuovo questi frammenti di senso per dargli nuove forme. La poesia, come scrive Auden, non serve, le poesie make nothing happen, non fanno avvenire niente (oppure “fanno avvenire il niente”), esse sono soltanto una linfa di luce o di pianto e per questo, in gran parte, ignote agli stolti e ai cattivi poiché pensare è esser buoni.
Ciò che di noi appare al mondo e nel mondo non è che l´epitome di un fenomeno più vasto e vario. Troppo facile credere che l´essere umano sia solo materia – per questo sono i più semplici a lasciarsi abbindolare da questa favola. Il bisogno umano di bellezza e di verità mostra che siamo più di quanto non sembriamo e siamo, così, più ancorati alla nostre metafisiche che non alla nostra limitata fisica. Anche per questo il linguaggio poetico attrae i pochi, poiché esso non è una spiegazione, quanto un´indicazione di senso; un po` come qualcuno che, invece di stare a spiegare cos´è la luna, guardando il cielo ne indichi, con la mano, la direzione. Riuscire a vedere l´astro che si oscura o splende sta a colui che guarda. Magari è per questo che un vecchio detto dice, per l´appunto, che quando il saggio indica la luna, lo stolto non vede che il dito.
L´intrico tra reale e presunta irrealtà è simile ad un groviglio di radici da cui dipende il destino degli alberi. Bisogna esser capaci di scavare per intendere la forma delle radici.
Non c´è nulla di altero nel rapporto tra noi e le cose: quello che turba è solo l´oscurità che è in noi, la divorante fiamma di nero che ci consuma. Vorremmo qualcosa d´altro, forse vorremmo esser altri, ma ciò che davvero siamo è in quest´impercettibile tremolio tra l´acqua e la fiamma.

Non conosciamo davvero ciò che è grande perché, se crediamo alle luci, sappiamo che esse rendono la loro verità solo nella distanza, come per una musica buona o nella vita vera le cui parti più dolci consistono in quel retrogusto che ronza ancora in testa quando la sala dei concerti è ormai vuota da tempo. Tautologicamente – ma le tautologie sono parte della scienza dei poeti - un fiore non è solo un fiore ed un bacio non è dunque solo un bacio. Chiunque invochi il piacere non sa, o preferisce ignorare, che esso è solo una trappola con cui si pretende di schiacciare a terra l´anima: un volgare chiodo per crocifiggere le ali del cuore. Non si ama o si scrive per dar sfogo alle necessità del piacere: questa è bugia da egoisti o illusione da mentecatti. Si ama come si scrive perché si è in gabbia, braccati dall´amore, perché più ci inoltriamo, soli, nel fitto del bosco, tanto più sentiamo, intorno a noi, presenze fatate e mute di cui abbiamo un disperato bisogno. Non sappiamo perché siamo né possiamo dire per chi siamo. Assetati di vita ci imbattiamo in un destino che vuol solo piegarci; in attesa di qualcuno da amare non facciamo che passeggiare su una strada che sa di polvere e di erbe amare e ignoriamo se vi sarà mai una fine a questa desolazione. Alcuni dicono che il deserto non esiste ma noi, allora, dove siamo?

Che ci mostrino pure gli angeli caduti e i parassiti che ne divorano le ali, non gli crediamo, non ci lasciamo abbindolare dagli intricati disegni che ci costruiscono intorno. Non lasciamoci ingannare dalle finte sicurezze della comodità e della luce. Sappiamo che in qualche luogo, forse al di là di questo mondo e di questa vita, esiste una metà cui agognamo. Se ne sente il profumo nei giorni di pioggia, ne scopri le orme nel disegno di un volto, tra i prati incandescenti di rose, in uno sprazzo di pace o nel respiro del mare quando accudisce le rive. Ogni cosa è traccia, sentiero che conduce all´Eterno oppure a Lei, sua paredra. Nel mondo ci sono tante linee delle quali nulla sappiamo, neppure dove conducano, allo stesso modo ci sono echi di campane anche in occhi il cui bagliore è più remoto di qualunque arcana ferita. Tutto ciò che sa d´immenso ha il suon di lei, come d´azzurro. Povera cosa la penna che vuol raccontarne le forme. Tutto si perderà, un giorno, nei bagliori del fuoco, ma solo chi non conosce la fiamma ignora che è proprio da lì che riparte la vita. Sciocco inseguire le faville che si perdono nell´aria; stolto cercare di cogliere un lampo di luce tra le ceneri.
(Tratto da: Sergio Caldarella, Memoria e dolore, Zambon Editore, Verona 2004)