Monday, December 9, 2013

Dorothea’s House, Princeton.


Una nota di costume ed un segno dei tempi.


            Nel grigio torpore della cultura della nostra epoca prodiga di opinioni ma quantomai parca di pensieri, Princeton, in New Jersey, è forse uno tra i luoghi culturalmente più aridi che si possano immaginare anche se, grazie alle tante abilità della propaganda del mondo nuovo, gode, invece, di luccicante nomea di cultura. Albert Einstein, che in questa cittadina utilizzano spesso quale emerito concittadino, quando si esprimeva privatamente, scriveva con la stringata lucidità del genio: «Princeton è un piccolo luogo meraviglioso, un villaggio pittoresco e cerimonioso d’inconsistenti semidei eretti su dei trampoli ... Qui le persone che compongono quella che viene chiamata “società” godono di una libertà ancora minore rispetto ai loro omologhi in Europa. Eppure sembrano incoscienti di questa restrizione, poiché il loro stile di vita tende ad inibire lo sviluppo della personalità sin dall’infanzia» (da una lettera alla Regina Elisabetta del Belgio). In questo “piccolo luogo meraviglioso” ben poco pare sia cambiato dal tempo in cui il grande scienziato scriveva tali sferzanti commenti.
            Come molti sapranno, Princeton è anche sede di una prestigiosissimissima università e, nonostante questo, nel villaggio c’è a malapena una libreria decente (la Labyrinth Books sulla Nassau street) ed una deliziosa libreria indipendente (la Glen Echo Books) ha dovuto chiudere i battenti qualche anno fa per lasciar posto ad un modesto negozio d’abbigliamento! La scomparsa delle librerie è, forse, proprio uno tra i più chiari segni dell’odierno abbrutimento e barbarie e coinvolge tanto le Americhe quanto l’Europa, segnando nettamente la fase del curioso declino della società occidentale che sembra ormai aborrisca a tal punto il pensiero da dargli la caccia come un tempo davano la caccia alle immaginarie streghe. Ad un angolo del campus della costosa università di Princeton si trova la Firestone Memorial Library, la biblioteca principale il cui accesso è però sorvegliato da una guardia che impedisce l’ingresso ai non-clienti delle varie facoltà – da tempo in America non esistono più studenti ma clienti e in Europa, lasciando fare a queste borghesie di miseria e ignobiltà, arriveremo anche ad altri elementi grotteschi tipici del sistema statunitense quali la sanità privatizzata con il paziente trasformato in cliente ed altro ancora. A Princeton c’è anche una biblioteca pubblica, un nuovo edificio di vetro, cemento e acciaio sulla Witherspoon che serve, per la maggiore, da emeroteca e videoteca e la gran parte dei libri che vi si trovano, tranne alcuni che però mettono in vendita, sono la solita carta stampata di cui pullulano le varie liste di best seller in ogni dove. Vaghereste inutilmente tra quegli scaffali cercando qualcosa di culturalmente valido da leggere, a meno che non vogliate sottoporvi all’ultimo non-libro di Oprah, Patricia Cornwell, Coelho o James Patterson – larga parte dell’imbarbarimento contemporaneo è, del resto, il risultato del fatto che si leggono questi non-libri ritenendo che si tratti, invece, di libri veri. In una realtà talmente deprivata di cultura come quella contemporanea, tutto passa o può facilmente venir fatto passare per cultura. 
         Se si volesse provare ad identificare il nucleo del dominio imposto sulla società contemporanea da parte di un’ignobile minoranza disposta a tutto per mantenere anche il più banale dei suoi privilegi, ebbene questo lo si potrebbe facilmente identificare nella terrificante aberrazione in cui, seguendo un ben preciso progetto socio-politico, l’uomo viene trasformato in mezzo e non in fine. È quello che Kant aveva colto con profonda intuizione nella Selbstzweckformel dell’Imperativo Categorico nella Ragion Pratica: «Handle so, daß du die Menschheit, sowohl in deiner Person als auch in der Person jedes anderen, jederzeit zugleich als Zweck, niemals bloß als Mittel brauchst, Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre e allo stesso tempo anche come fine e mai come semplice mezzo (429)». È strabiliante notare come, proprio agli inizi della modernità, Kant avesse profondamente inteso la nullificazione introdotta nel mondo dalla sostituzione del fine con il mezzo, una nullificazione che non avviene unicamente nei confronti dell’altro, ma ha radicali conseguenze anche verso se stessi (proprio in questa sottile opposizione alla trasformazione dell’uomo in mezzo Kant identifica – e vi si oppone – non soltanto una delle radici della modernità ma anche una tra le forme del protonichilismo). Il pensatore di Königsberg aveva capito quello che poi Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler, Schweitzer, Adorno, Marcuse, Fromm o Lukács studieranno e riprenderanno scrivendo di un mondo trasformato in un palcoscenico vuoto in cui l’uomo, ridotto ad automaton, agisce in una cornice svuotata di significati e, dunque, nullificata nelle sue realtà fondamentali. È il mondo stremato e offeso (Vittorini) di un sacrilego noli me tangere che il borghese saluta come proprio e fondativo del rapporto con gli altri: noli me tangere in questa desolazione umana di cui il borghese non vuol saper nulla ed in cui non sembra possa esser raggiunto da alcuna voce che non sia quella di fame, sete e bisogno – Vitaliano Brancati scrisse sul tema un maestoso articolo dal titolo Il borghese e l’immensita oggi ripubblicato in una raccolta dei suoi saggi edita da Bompiani. Non è inoltre infondato ritenere che quest’incapacità di lasciarsi avvicinare e toccare da pensieri autentici corrisponda al timore dello sgretolamento di un’individualità incerta e pericolante. Se la cultura è anche voce, capacità di raggiungere l’altro sia esso lontano o vicino, in un mondo artato in cui bisogna eseguire istruzioni e schermirsi da tutto ciò che è profondamente umano, emerge allora la necessità strumentale di una cultura nova che più non abbia le forme e le aspirazioni di quella del passato e coincida con i dettami dell’homo novus del nostro evo. Debbono allora emergere i ciambellani della cultura, gli “avvocatucci unti di brillantina” (Pasolini), i guardiani diurni ed i buttafuori, gli abbaiatori, i gazzettieri, gli sporcascarpe, i guardaspalle ed i vari manutengoli che pretendono di aver trasformato la conoscenza in lenocinio e mercimonio solo perché hanno malamente occupato una rocca.
         È evidente che, in una tale situazione, c’è da aspettarsi ben poco di buono culturalmente, socialmente o politicamente. Bisogna forse aggiungere che a Princeton, come a Predappio, Catania o Vattelapesca, ci sono sempre degli organizzatori di pletore di manifestazioni e intrattenimenti con velleità di cultura, in genere ad usum dei soliti borghesucci con l’ausilio del chierico di turno che racconta di questo o di quel fatterello con, al termine, un rinfresco con tarallucci e vino in cui si parla della prossima vacanza, della prossima pioggia, neve, calura, etc. È in questo strabiliante contesto contemporaneo che si situa la Dorothea’s House, detta anche la “casa d’incultura italiana di Princeton”, un bell’edificio posto nel centro del villaggio, non lontano dalla biblioteca e da altre amenità locali. Come la Villa Riemann di Siracusa, anche questa casa pare sia il frutto di una donazione che risale al 1913 ed agli inizi questa era un’associazione a scopo benefico. Coloro i quali credono basti avere un bell’edificio per creare cultura non hanno mai capito che la cultura autentica si regge sempre sulle gambe degli uomini e non su stucchi e colonne di marmo: Socrate era un artigiano squattrinato, Spinoza faceva il pulitore di lenti, Pessoa o Kafka erano degli impiegati e nessuno tra costoro – per limitarsi a questi pochi – ha mai avuto in dono edifici da cui propalare un qualunque verbum. Curioso che, proprio la dimensione più propria ed autentica della cultura, ossia di qualcosa che avviene attraverso le menti, sfugga quasi completamente a coloro i quali credono che la cultura consista, invece, di begli edifici, denari, facce imbellettate ed un sacco di pezzi di carta da incorniciare, confondendo così proprio la distruzione della cultura con il suo sostegno. Il Duca de La Rochefoucauld faceva ben notare: «Coloro che si applicano troppo alle piccole cose, diventano solitamente incapaci delle grandi» (41). E, proprio poiché costoro si applicano troppo alle piccole cose, non soltanto non sanno più come applicarsi ad alcuna cosa grande, ma finiscono per vedere tutto sempre e solo sotto una luce piccola, illudendosi di sfuggire alla responsabilità umana che richiede riflessione autentica e finendo per pensare solo a se stessi, o almeno così credono, perché in realtà quella forma di pensare a se stessi è, a malapena, un altro modo per non pensare a nulla. Del resto c’è sempre molto da imparare anche sulla pochezza e la cecità di coloro che portano i pesi di un sistema il cui fine è l’annientamento della loro stessa personalità. Quando ci viene concesso il dono d’intravedere anche delle piccole verità diventiamo più liberi, quando invece quello che crediamo di conoscere è pura semplificazione, falsità o propaganda, questo ci tarpa le ali e incatena ancor più all’illusione ed alla vita inautentica. Il problema fondamentale di un mondo istintivamente anticulturale è che le strutture socioculturali di una società in cui quest’impostazione è dominante, invece di conferire senso all’esistenza, congiurano nell’inumano tentativo di deprivarla da questo. È proprio questo il dramma contemporaneo contro cui, chiunque voglia dirsi morale, dovrebbe, necessariamente e suo malgrado, levare la propria voce.
          Nei tempi antichi era ben nota l’infatuazione del tiranno di Siracusa per il grande Platone o di Nerone per Seneca e di come tali rapporti siano finiti male o tragicamente, proprio perché questi grandi e nobili maestri si rifiutarono di acconsentire alle piccole volontà dei tiranni e di assecondare le loro manie e vezzi. Certo che se il Dionisio fero o il dedicator damnationis avessero capito a quel tempo che, per venir assecondati, gli sarebbe bastato mettere un paio di stallieri o citaristi stonati in un bell’edificio di marmo e chiamarli professori, non si sarebbero forse presi tanta pena contro Platone ed il povero Seneca. L’Imperatore Caligola ci era andato vicino nominando Senatore il suo equino, ma nella sua epoca non gli era ancora balzato in mente che avrebbe anche potuto nominarlo chiarissimo Rettore o presidente di qualche altisonante istituto. Oggi, invece, i potentati questa lezione l’hanno ben recepita e per questo, oltre ai tanti diplomifici distinti per classi di reddito, sovvenzionano, di tanto in tanto, anche questi covi di conformismo e mediocrità che si arrogano il nome di istituti “culturali” e ad altro non servono se non a rafforzare la potenza del sistema di annientamento della cultura proprio in nome della cultura – Ah! Quale strabiliante epoca di orwellianerie e paradossi! Tale sistema di annientamento della cultura erge così una muraglia anti-culturale favorendo il solo emergere di pseudospiegazioni funzionali al sistema di potere: non è un caso che ad individui come Milton Friedman, tanto per limitarsi ad un solo esempio eclatante, abbiano persino assegnato il Premio Nobel insieme a molteplici altre prebende. Se gli intellettuali, i sapienti, i filosofi e tutti gli altri uomini buoni hanno in passato dato tutto al mondo, anche le loro vite spesso atrocemente terminate, questi sono invece coloro che sanno sempre e solo prendere.

         
La Dorothea’s House di Princeton è il preclaro esempio dell’ennesimo bell’edificio trasformato in mausoleo della cultura. La prima cosa che colpisce di questo dopolavoro della cultura è che, già a partire dalla brochure a stampa di presentazione, questi mal illuminati luminari fanno proprio grossolani errori di grammatica italiana in un testo banale e di pochissime righe! L’ironia più grande è che offrono anche corsi d’italiano o, per meglio dire, d’“italiota”, variante illetterata della bella lingua italiana (nel loro sito web infatti preferiscono evitare l’italiano). Le iniziative che organizzano sono poi ancora più ilari e stravaganti del loro bizzarro idioma: ogni tanto proiettano qualche pellicola proveniente dal Grande Paese ed altre volte organizzano magniloquenti conferenze invitando amici, parenti, conoscenti e consociati vari. La casa d’incultura italiana di Princeton è uno tra i tanti luoghi nei quali la nostra epoca contrabbanda chiacchiere e banalità per elevatissima cultura e, se vi dovesse capitare di partecipare ad uno di questi eventi, vi accorgerete che, già dall’atmosfera tetra di questa grande sala senza storia, si prova l’impressione di trovarsi in un fumetto di Alan Ford in cui Luciano Secchi e Roberto Raviola, dal ‘69 alla fine degli anni ‘80, mettevano alla gogna e facevano il verso a questa piccola borghesia polverosa e imbellettata che odora contraddittoriamente di stantio e naftalina.

         Le magniloquenti conferenze presentate con squilli e schiamazzi alla Dorothea’s House sono, in genere, discorsi raffazzonati tenuti da scalcagnati relatori che s’improvvisano grandi e mirabili esperti di questo o quell’autore, di questa o quella materia, solo perché sono passati dalle forche caudine di un concorso pubblico da qualche parte o perché hanno presentato il giusto numero di lettere di raccomandazione! E questo scenario che si ripete e ripercuote in questa minuscola conventicola di provincia che è la Dorothea’s House è, mutatis mutandis, lo stesso che ormai si ritrova dalle più note istituzioni dette culturali fino al più lontano circolo del bridge di Vattelaspesca. L’addomesticamento della cultura che produce la desertificazione era del resto già stato preconizzato da Nietzsche nell’Ottocento e noi siamo spettatori dell’avverarsi di profezie con le quali eravamo stati ben ammoniti! Si rimane comunque increduli contemplando il livello di arroganza ed ignoranza mostrato in queste pseudoconferenze ed è inevitabile chiedersi chi saranno mai quelli che dirigono un tale circo e così si arriva alla direzione della casa d’incultura. La gran dama di corte è, al momento, una tal Linda che sa di cultura tanto quanto un ciabattino sa di astrofisica e, insieme a quattro fidati consigliori, decide del bello e del cattivo tempo alla casa d’incultura, tendenza questa diffusa nella gran parte degli istituti della cultura nova: a Francoforte sul Meno, tanto per aggiungere un solo altro esempio, c’era alla direzione della Literaturhaus una certa Maria Gazzetti che, sapendo ancor meno di questa, faceva ancor peggio. Del resto ben poche altre epoche possono dirsi nostre pari nell’incompresione e rigetto per ogni pensiero che non sia un ringhio o un belato. La società dell’abundantia produce manichini ben curiosi: mala tempora currunt.
          La società globale contemporanea ha un disperato bisogno di un nuovo modello sociale che soltanto la cultura autentica sarebbe in grado di concepire e, se poco più di un secolo addietro, il mondo si trovava nelle mani di una follia criminale che ha condotto a due orripilanti guerre mondiali, oggi è sotto il saldo controllo di una stolida idiozia dal ghigno sorridente di cui i piccoli menestrelli dell’incultura non sono che nere epitomi. Una cultura resa monca da mezze figure e caudatari che nulla hanno da offrire non soltanto non sarà più capace di proporre delle soluzioni valide alla dissoluzione sociale imposta dai poteri ciechi delle mediocri borghesie di dominio, ma renderà anche impossibile veicolare un messaggio che possegga contenuti culturali validi. In tal modo, l’impostazione del modello accademico/culturale contemporaneo che sembrava unicamente funzionale al meccanismo di dominio si sta invece mostrando quale elemento chiave del processo di disfacimento sociale e di distruzione planetaria. Di fronte a tale sfacelo alcuni si tranquillizzano credendo, erroneamente, che questi borghesucci che pretendono di reggere il timone della cultura almeno non sono esiziali, senza capire che sono invece tanto pericolosi quanto lo erano i loro predecessori con la torcia o il manganello, almeno quelli, quando sentivano la parola cultura, rivelavano la loro autentica natura mettendo mano alla rivoltella, mentre questi se ne vanno in giro tronfi e paonazzi, propagando una voce che grida “cultura, cultura”, ma contiene a malapena uno squittio d’immenso silenzio: o tempora, o mores!
(Sergio Caldarella, Una nota di costume ed un segno dei tempi, «Il Pungolo» 29 novembre 2013).

Friday, October 25, 2013

Lo stupore per quello che già tutti sanno e la scomparsa del popolo.

È difficile capire perché, in questo periodo, siano in così tanti a fingere di meravigliarsi delle varie intercettazioni da parte degli apparati di spionaggio degli Stati Uniti: in un recente articolo dell’Associated Press si parla persino di un’ipotetica fiducia infranta tra gli USA ed i suoi alleati (“US Spying Has Shattered Allies’ Trust” di John-Thor Dahlburg e Geir Moulson). Al di là del fatto che, già dagli anni ’60, si sapeva di programmi di sorveglianza delle comunicazioni quali Echelon, l’altro elemento rilevante è che gli Stati Uniti rappresentano il Paese di punta della globalizzazione economicista e per questo, ed a dispetto di tutti gli altisonanti slogan, sono la prima società del controllo (v. Deleuze) del pianeta. Come ci si potrebbe dunque meravigliare che una società che ha il controllo quale paradigma possa avere delle istanze in cui vi rinunzia? Che logica sarebbe mai questa? Sarebbe come dire che un ubriaco, messo da solo in una stanza con una bottiglia di vino, se l’è bevuto fino all’ultimo sorso. Tale “notizia” dovrebbe forse destare meraviglia? Come si dice nell’ambito giornalistico: “cane morde uomo non è una notizia, uomo morde cane lo è”. Le intercettazioni sono semplicemente coerenti con un modello di mondo che ormai domina incontrastato anche grazie al fatto che sono abilmente riusciti ad annientare la cultura autentica sostituendola con dei feticci servili e funzionali a questo sistema di prebende e coercizioni. I potentati, del resto, agiscono in maniera vile fin dalle origini della storia e sarebbe illusorio attendersi un agire contrario alla loro fondamentale natura che tende alla dimenticanza di sé e, conseguentemente, alla distruzione di tutto e tutti (è sostanzialmente l’apologo dello scorpione e della rana in cui lo scorpione che deve attraversare il fiume e uccide la rana che lo trasporta perché la sua natura è proprio quella di uccidere). In un tempo andato, era la cultura ad essere l’antidoto alla follia dei pochi, ma quella che i contemporanei chiamano cultura, ossia la “cultura ufficiale”, è l’ancella servile di questi poteri forti e ben coopera da tempo nella creazione di un homo novus integralmente funzionale ai fini di chi comanda.

Già da bambini, i cittadini di questo mondo nuovo globale vengono subdolamente abituati ad accettare acriticamente il sistema di potere e soggiogamento di cui sono al tempo stesso vittime e artefici. Del resto un sistema simile non potrebbe esistere senza un’immensa mediocrità umana e culturale quali suoi fondamenti. In America, così come in Europa o in Asia, con la complicità di un sistema corrotto com’è la scuola contemporanea, si viene anche abituati già dall’infanzia alla logica bestiale del cane mangia cane, il mors tua vita mea che, storicamente, indica la fase finale dell’Impero Romano e di ogni altra società. Del resto le borghesie ed i patriziati intendono solo il controllo ed il potere e le loro testacce infami altro non sono mai riuscite a concepire e questa pochezza è tutto quello che sanno proiettare sul mondo. Sono millenni che la specie umana soffre per il controllo che questi pochi mentecatti hanno assunto sulla struttura sociale grazie ad una serie di trucchetti e consociativismi e questo potere dei folli, a dispetto dei risultati mortali che ha sempre prodotto, aumenta invece di diminuire e sta lentamente conducendo l’intero pianeta alla sua distruzione. Siamo costantemente esposti e sottoposti allo sconcio di una società della diseguaglianza e del privilegio gestita da questi pochi che altro non comprendono se non conflitto e appropriazione, ed è uno sconcio al quale ci si è talmente assuefatti che non desta quasi più sconcerto. 
L’incremento del potere dei pochi che dominano i molti e la legittimità che oggi gli si attribuisce è anche un sottoprodotto della scomparsa del popolo trasformato in massa. Il popolo non è la massa, ma il suo contrario. Il popolo è vivo, ha una cultura, un'etica ed un carattere che la massa, soggiogata alla volontà dei pochi, non possiede. Il concetto di popolo è, però, stato corrotto dalle varie ideologie politiche e soggiogato dall’omologazione e da un benessere fatto solo di cose, finendo così per usare la parola “popolo” in maniera interscambiabile con la parola “massa”. Il popolo, diversamente dalla massa, sa guardare al potere con la leggerezza di un’ironia che ne smaschera le velleità e le molte corruzioni. Bertoldo è un personaggio del popolo ed è un sapiente che i potenti chiamano infatti buffone. Di fronte al potere che s’inalbera su troni e scrivanie il popolo sorride e li guarda con una sapiente commiserazione, mentre la massa li invidia e vorrebbe essere come quei pochi senza coscienza che sgomitano per sedersi sulle varie poltrone. La massa serve il potere, mentre il popolo può subirlo, temerlo o venirne irretito, ma non lo serve mai. I potenti e prepotenti pensano di capire sempre tutto perché vedono sempre e solo un lato delle cose, quello del potere, dell'ambizione, del possesso, ossia il lato dell’illusione, come provava a spiegare saggiamente Solone a Creso. Il popolo guarda invece al lato della vita, alla sua caducità ed alla sua ricchezza intrinseca.

La tecnologia altro non fa che estendere e potenziare spaventosamente l’infinitesima piccolezza umana dei pochi che dominano i molti. Trilussa, nel 1914, scrisse la poesia “Ninna nanna de la guerra” che spiega meglio di tanta storiografia la vera vicenda della Grande Guerra e non spiega solo quella, ma la natura stessa dell’oppressione di quel “covo d’assassini  che c’insanguina la terra” a danno dei molti ignari o ignavi.

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d'un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d'una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d'assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d'un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

I filosofi buoni, i poeti e tutti i grandi intellettuali e artisti sono quelli che, da millenni, denunciano questa viltà dell’uomo contro l’uomo pagandone le dure conseguenze, gli altri sono quelli che se ne stanno bellamente assisi in cattedra oppure quelli che si meravigliano con gran stupore di quello che già tutti sanno.

(Sergio Caldarella, Lo stupore per quello che già tutti sanno e la scomparsa del popolo in La Voce della Voce, Trimestrale di Cultura e Notizie. Bormio, Ott. 2013)

 

 

 

Saturday, September 21, 2013

In ricordo di T.S. Eliot


Come sono bravi questi bravacci e farabutti a celebrare i poeti quando sono morti. Sono bravi a strabuzzare gli occhi e fare gesti di commozione truci quando il poeta non è più tra loro e sono ormai sicuri che non può smentire i loro vuoti commenti. E quanto false sono tutte le loro parole! False come le loro vite di carta secca. Che se ne farebbero, del resto, loro che intendono solo le cose morte, di un poeta vivo? Anzi, quando parlano del poeta da morto gli fanno quell’ultima violenza che non potevano fargli da vivo: rubargli il senso delle sue parole per farlo diventare un altro pupazzo di sale nella loro macabra collezione di silenzi. Le parole del poeta rigurgitano di una vita che questi commedianti della cultura non potranno mai comprendere e per questo provano ad ingabbiare ed ammazzare anche le parole sopravvissute. Sono mostri, orchi dalla faccia infame e imbellettata, e non sanno che i loro rigurgiti sono a malapena voci mozze e senza destino. Fanno finta di celebrare la vita del poeta e invece ne celebrano lieti la morte e le loro espressioni sembrano di compianto solo per chi non sa come guardarli davvero. Del resto, cosa sanno del poeta? Cosa hanno mai saputo? Cosa potrebbero mai saperne? Loro che stanno sempre dalla parte del più forte per poter poi sgranocchiare ossa e briciole cadute dalla tavola. Loro che non hanno mai saputo come vivere davvero neppure un giorno delle loro vite. Loro che sono i primi ad accorrere quando c’è da prendere un pugnale per spaccare il cuore di chi non parla la loro lingua roca. Loro che hanno fatto del pianto il solo canto e della vergogna la sola requie. Loro che fanno del buio la loro luce e accettano di piegarsi solo all’infamia. Loro che sono sempre stati sugli spalti e i torrioni da cui gettavano pietre e sputi sul poeta accovacciato tra le ortiche nel fossato e adesso vogliono arrivare a pretendere che il poeta sia sempre stato tra i loro scranni e balconi, lasciando intendere che anche il poeta era, come loro, uno degli empi schernitori della vita. Questa è la fiaba che vogliono raccontare dai loro pulpiti, ma chi legge sa che non è per niente così, ed anche se loro non potranno mai coglierlo, il poeta, gli ha già risposto tra le righe della sua opera, nascondendo messaggi che loro saranno sempre incapaci di vedere e che sempre smentiranno le loro imbellettate parole. Il fatto che loro siano in tanti e quelli che sanno ancora leggere siano in pochi non significa nulla, non ha mai significato alcunché, perché loro sono sempre stati in tanti. Essere molti è la sola cosa che sanno fare davvero, ed a questo tende sempre il loro fiuto, ad annusare dove sta andando il branco. Il poeta invece va da solo. Rarissimi dunque i poeti che hanno destino di trovare chi riceva le loro parole. Il poeta, del resto, non scrive per esser accettato o per ricevere una pacca sulla spalla, scrive perché non può fare altrimenti, scrive perché la vita tracima nelle parole e le parole tracimano nella vita, scrive perché qualcuno gli ha spaccato il cuore o perché qualcuno gli ha sanato quella ferita. Scrive perché il suo essere è nella sua scrittura e la sua scrittura è nel suo essere.

Il poeta è uno o nessuno, ma non è mai molti. Loro sono invece molti o nessuno, ma mai uno. Per questo lavorano sempre e in ogni modo contro il poeta e non soltanto perché questi non gli assomiglia, ma perché è il loro assoluto contrario. Oggi, nell’epoca nuova in cui questa gente dalla faccia buffa e truce ha conquistato cime e vallate, spiagge lontane e terre vicine, torri e cantine, cattedre, troni e poltrone, vuole anche conquistare i territori della poesia infiltrandovisi e bivaccandovi con anime guaste e scarponi di piombo. Non sanno che quanto più vi si avvicinano, tanto più la poesia e il pensiero si ritraggono o, forse, lo sanno e non gl’importa, ed anche un rudere vuoto gli sembra abbastanza per incoronare i loro eroi di cartapesta: anche una lampada spenta è per loro luce. Perché, dunque, meravigliarsi che la nostra sia un’epoca al buio?

(Da: Sergio Caldarella, Il poeta e i molti, «Il Pungolo» 21 settembre 2013)

Sunday, September 8, 2013

La neo-intelligenza


Un pensiero non può mai davvero essere interamente “spiegato” quanto letto, discusso, interpretato e condiviso. Diversi secoli di volgarizzazione lasciano però credere altrimenti e così migliaia di pubblicazioni, conferenze e lezioni provano a “spiegare” pensieri e pensatori divulgando, in tal modo, non soltanto banalizzazioni, ma anche la pericolosissima opinione secondo cui sia possibile aver “capito” Eraclito, Platone, Kierkegaard, Einstein, Bohr o la Bibbia solo perché si è letto un manuale in proposito. Per questo non c’è cosa più diffusa e comune nel mondo d’oggi quanto la “credenza di sapere”. Preda di un’intelligenza che ci fa credere tutti bravi, crediamo di sapere tutto di tutto senza sapere come e da qui deriva la rapidità, la banalità e la superficialità dei giudizi e delle pseudonalisi dei contemporanei. Ed anche questo è qualcosa che pertiene profondissimamente all’esprit du temps in cui siamo stati capaci d’inventare un’intelligenza stupida che, parcellizzando il mondo, non è più in grado di vederlo e sentirlo davvero. Il pensiero è anche il comune sforzo umano verso la conoscenza compiuto da tutti gli uomini, come già insegnava Socrate nel Menone, mentre l’intelligenza stupida crede sempre di poter bastare a se stessa e da qui la fine del dialogo culturale: «'Tis the times' plague, when madmen lead the blind, È il malanno dei tempi che i matti debbano guidare i ciechi» (King Lear, atto 4 scena prima).

L’intelligenza stupida è anche narcisista, ossessionata da conclusioni e applicazioni, dal corpo e dalla materia, dalle cose e dalle loro successioni e permutazioni. Un’intelligenza zoppa e fatalmente muta di fronte alla vita. Un’intelligenza che è arrivata al punto da uccidere la poesia, la filosofia, la teologia, relegare la letteratura o l’arte in mediocri angolini della società e portare le scienze a modello di una nuova divinità materiale. Anche a dispetto dei secoli, siamo ancora adoratori del grasso vitello d’oro.

(Sergio Caldarella, La neo-intelligenza, in Giornale del Nuovo Millennio, 7 sett. 2013).

Friday, August 2, 2013

Umberto Galimberti e la Shoah


Prima d’inviare questo messaggio ho riflettuto a lungo chiedendomi le ragioni per le quali ritenevo fosse appropriato e importante condividere questo video di un noto accademico italiano che oggi vende fino a 240.000 copie di un suo testo di filosofia o giù di lì e, passando per uno di quelli buoni, ossia la classica mela sana nel cestino delle mele marce, si lascia andare a delle dichiarazioni che mostrano invece un sottofondo di spaventosa indifferenza e assenza di sensibilità culturale tanto tipici del suo ambientino di ciambellani piccolo borghesi e caudatari. Come potrete ascoltare, se vorrete, c’è un punto dell’intervento “I miti del nostro tempo”, tenuto dal Galimberti al Premio Biblioteche di Roma del 2010, in cui il Nostro pronuncia una frasetta che turba sia per l’indifferenza che mostra verso la Shoah, sia per il fatto che viene detta in un consesso reputato colto e da un individuo reputato altrettale. Per non doversi subire l’intero discorso basta cliccare sulla barra del video (http://www.youtube.com/watch?v=svhAclfto5k) a (0:30:50) ed ascoltare lo strabiliante commento del Galimberti quando dichiara: “perché l’Olocausto è una cosa importante? Perché gli ebrei sono un popolo colto”! Sic et simpliciter! E, in seguito, aggiunge che il massacro degli armeni non è, invece, così importante perché gli armeni non sono un popolo colto! È sinceramente strabiliante che un personaggio di riferimento della presunta cultura ufficiale (questo dimostra ancora una volta che la cultura ufficiale non esiste davvero, ma è appena una mala trovata di gerarchetti e ciambellani vari) non si renda neppure conto della gravità di una tale dichiarazione né, evidentemente, della portata storica e cataclismatica di un evento come la Shoah che lui riduce ad una dichiarazione dai toni foschi!
Dire che la Shoah “è una cosa importante perché gli ebrei sono un popolo colto” – oltre alla perturbante connotazione surreale – indica che chi la pronuncia non ha inteso assolutamente nulla di quest’evento, neppure il linguaggio, infatti, nonostante la sua conoscenza del greco, Galimberti continua anche a ripetere il termine “olocausto” che, nonostante il suo uso comune, contiene una grave inadeguatezza concettuale in riferimento alla Shoah. Colpisce, inoltre, che un mostruoso accadimento storico di tale portata possa venir ridotto al rango di un evento noto al pubblico per il fatto che il popolo ebraico è un “popolo colto”! Con tutte le ambiguità che una tale generalizzazione pone. In Italia si tengono congressi, seminari, conferenze e giornate della memoria sui temi dell’ebraismo, ma pare non se ne tragga il dovuto giovamento se tali dichiarazioni sono ancora concepibili e ammissibili. Magari a questo signor Galimberti chiedono pure di parlare da qualche parte proprio nella giornata della memoria, così può meglio propagare questo revisionismo sottile: la Shoah “è importante perché gli ebrei sono un popolo colto…” che è, poi, anche come dire la Shoah “è importante perché gli ebrei sono importanti… ricchi…con la coda e le corna… e magari si riuniscono la notte nei cimiteri per dominare il mondo… (per tornare ad un classico dell’antisemitismo ottocentesco come i Protocolli).

Ci si potrebbe – e dovrebbe – anche chiedere cosa ne è stato delle domande dei grandi intellettuali che, invece, coglievano nella Shoah una portata trascendentale, interrogandosi se fosse persino ancora possibile la poesia dopo Auschwitz (nel 1949, nel saggio Kulturkritik und Gesellschaft, Theodor Adorno esprimeva con drammatica drasticità il concetto secondo cui: “Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben, ist barbarisch, scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico”, una frase che Adorno sostenne in altri scritti posteriori e contiene delle profondità che lo condussero ad una critica ancora più profonda e radicale della società contemporanea). Questi intellettuali di un tempo andato ben comprendevano che, nella Shoah, vi sono nodi irrisolti e forse non risolvibili perché fondamentalmente impensabili nella loro interezza, poiché l’inumano è sempre al di là della pensabilità umana e quest’assolutamente altro è entrato, con Auschwitz, nella storia e vi è entrato con una dirompenza che il signor Galimberti certamente non intende e risolve invece con una frasetta pericolosissima e indicativa di un clima culturale o pseudotale. La Shoah è un abisso, una cesura, una cicatrice impressa al volto della storia, una ferita che bisogna ancora pensare e su cui non si può smettere di riflettere. Hans Jonas, in un libro brevissimo quanto profondo, arrivava persino a porsi la difficile domanda sul “Concetto di D-o dopo Auschwitz” ponendo l’Onnipotente ed Auschwitz in una complessa e difficile relazione dialogica che ha radici antiche nell’ebraismo (vedi Giobbe). Tutto questo per dire che Auschwitz rappresenta ancora un immenso punto interrogativo nella storia, ma queste domande vengono seppellite sotto questa mole d’incultura e banalità in cattedra e da queste genti chiamate a “pensare” per concorso pubblico.

Questa conferenza di Galimberti, così come altre del Nostro, è anche piena di incongruenze ed errori tanto elementari quanto sintomatici come in quest’altro filmato:
http://www.youtube.com/watch?v=55gpINIItI8
(da 54:00 in poi) dove l’accademico nostrano cita il libro di Gitta Sereny (Into That Darkness, 1974, trad. it. In quelle tenebre, Adelphi 1975) e le interviste/colloqui agghiaccianti che la giornalista ebbe con l’ex comandante di Treblinka Franz Stangl (che Galimberti chiama “direttore”, come se parlasse di una filiale della Conad!) nel carcere di Düsseldorf nel 1971. Secondo il Galimberti, che del libro non avrà forse neppure letto la quarta di copertina, Stangl è ancora vivo e per giunta lo hanno lasciato stare a casa sua!!! (È tutto nel video!) Non reca meraviglia, dunque, che questo signore possa poi esprimersi con tanta leggerezza su uno degli eventi più tetri e ancora incomprensibili della storia che per lui è tale solo perché gli ebrei sono un popolo colto! Stupisce anche che nessuno tra gli astanti abbia colto la gravità di una tale affermazione, ma anche questo è un segno dei tristi tempi.
(Divulgato per la prima volta il 22 luglio 2013 attraverso la mailing list di SpI).

Sunday, July 14, 2013

I NUOVI FASCISMI DAL FACCINO SORRIDENTE


È strabiliante notare come, a livello della opinion publique, non si sia o non si voglia cogliere, la natura profondamente contemporanea delle dittature dello scorso secolo e di quanto quei principi ideologici deumanizzanti, mutatis mutandis, continuino ad avere un ruolo sempre maggiore e più pernicioso nelle società attuali. Si pretende di relegare gli eventi del fascismo, franchismo, nazismo o stalinismo al rango di anomalie ormai tramontate, spettri seppelliti nel cimitero della storia, e non si vuol invece vedere quanto la radice di quelle categorie contorte, attraverso una mutazione estemporanea che è più un adattamento ai tempi, serpeggi ancora in vari gradi nel mondo contemporaneo.

            Molte sono oggi le strategie escogitate per non fare i conti con un passato tanto tetro quanto vicino. La gente che per la gran parte s’incontra in giro per il mondo non si pone quasi più domande sul passato e, nei casi comuni e sintomatici, non si pone neppure domande che vadano appena un po’ oltre l’immediato presente. L’homo occidentalis contemporaneo si è a tal punto rimpicciolito da interessarsi unicamente a quale scuola andare per ottenere il diplomino migliore per sistemarsi da qualche parte, gli interessa il viaggetto, la macchinetta, la miscela per il caffè e il tappetino della doccia, ma non ha alcun interesse per il passato o il futuro, perché questi non lo includono né rientrano in quest’orizzonte artato e immediato che si è costruito. I posteri sono ormai tramontati e ad essi non viene oggi più demandata alcuna ardua sentenza. Tutto ciò che questo bizzarro uomo nuovo intende è quanto il destino curioso gli ha posto davanti l’uscio di casa e il futuro non è certo parte di quest’orizzonte. Quest’atteggiamento di pericolosa indifferenza è anche l’ennesimo sottoprodotto della smisurata condizione narcisista nella quale vive l’individuo contemporaneo (esiste del resto un curioso rapporto tra piccolezza d’animo e narcisismo). Nel mondo del cosiddetto benessere gli uomini sono troppo presi da un’immensa follia di sé che li affanna e affaccenda. Stanno tutto il tempo a dire e pensare: “io, io, io”, avvinti in quel personalissimo microcosmo che il grande Pascal aveva già liquidato con la sola frase Le moi est haïssable. L’io è odioso. La ragione calcolante basata sull’io che si presenta come una ratio, il calcolo dell’interesse personale o del 2+2, quella che Dostojevskij chiamava la ragione “Euclidea, terrestre”, se guardata con maggior attenzione, svela il volto di una follia che, in realtà, non è più in grado di guardare al mondo secondo l’ottica dell’umanità, dell’etica o dell’equilibrio, elementi centrali per una ragione che voglia dirsi autentica. I Greci avevano del resto già ben compreso che ogni disproporzione è una frattura attraverso cui la follia e la barbarie accedono nel mondo, anche per questo l’oracolo delfico insegnava quale principio fondamentale la regola della misura: μηδὲν ἄγαν. Altri hanno poi anche voluto vedere nel Minotauro la rappresentazione dell’irrazionale all’interno del labirinto della ragione e Teseo come l’incarnazione della ragione buona, quella che conosce il senso della misura e segue il filo di Arianna, non la forza brutale che tutto sfascia solo perché può farlo, ossia solo perché detiene i mezzi per la determinazione dei fini.

            Il trapasso dalle dittature dal grugno duro e quelle dalla faccina sorridente e dell’omologazione è egregiamente riassunto in due racconti capaci di sintetizzare la realtà attraverso la fantasia: 1984 di George Orwell e Brave New World di Aldous Huxley, nell’uno si parla della dittatura forte, quella dura e poliziesca, nell’altro di quella soft, per noi ben più attuale, in cui gli esseri umani vengono subdolamente persuasi delle ragioni di chi li controlla. Entrambe i romanzi hanno in comune la dissociazione della parola dal significato che caratterizza i due modelli di controllo sociale solo apparentemente diversi. Anche a dispetto della magniloquente propaganda della società attuale, i segni del dominio dei pochi sui molti sono del resto lapalissiani per chi non abbia abdicato alla facoltà di vedere e Rousseau, già nel 1762, riassumeva questo sentire con la celeberrima frase: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers, L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene”. Oltre due secoli dopo, non si riesce ancora neppure ad uscire dal dilemma secondo cui l’attività di governo significa ancora complicità con lo status quo. I fascisti, secondini sociali in camicia nera, urlavano con le loro vocine stridule: “credere, obbedire, combattere”, mentre oggi abbiamo lasciato cadere il “combattere” (non sempre), ma bisogna continuare a “credere” e, soprattutto, “obbedire” e la camicia è appena passata dal nero ad un bianco pallido e costoso. È significativo che, nel motto fascista, il credere preceda già l’obbedire perché, per andar dietro ai dettami di una società del contrario, bisogna proprio smettere di guardare o di provare a capire e, dunque, abbandonarsi all’indifeso “credere”. Provare a capire è difendersi, ma di fronte alla muraglia del non-pensiero si dissipa anche il pensiero e tutto diventa materia di sola opinione, la sola cosa di cui si possa ancora chiocciare. È per questo che il “credere ciecamente” diventa proprio una funzione dell’accecamento di chi vuol imporre a se stesso o agli altri il non vedere come fiore all’occhiello per partecipare alla grand danse di cecità e stultitia del mondo contemporaneo. In tal modo l’uomo d’oggi viene scientemente paralizzato nel suo sentire, reso monco nei suoi pensieri e colpito nel profondo da dardi invisibili che lasciano ferite oscure. Le conseguenze e le implicazioni ideologiche ulteriori di tale impostazione sono vaste e molteplici: la vita interpretata come violenza, il mondo visto come un luogo ostile in cui difendersi legittimando un’aggressività conseguente verso altri uomini e verso la natura stessa e una visione dell’uomo come di un essere che ha bisogno di giustificarsi economicamente (o che trova la sua giustificazione in ragioni di ordine economico) dimenticando che l’uomo, in quanto uomo, ha già naturalmente in sé la propria giustificazione. Quel che fa davvero crescere una società non è l’economia quanto la giustizia autentica che non è la sola amministrazione della forza. È evidente come tale manipolazione sociale generi anche un concetto predatorio dell’intelligenza ed un clima d’immenso vuoto culturale e intellettuale. Non è un caso che, a partire dall’Ottocento, avvengano anche fatti culturali mai avvenuti prima e pare che nessuno se ne accorga o ne valuti la grave portata. Un esempio lampante è il caso Pessoa: com’è potuto accadere che uno tra i poeti più importanti del XX secolo, indubbiamente il più grande poeta portoghese del Novecento, sia passato completamente inosservato al suo tempo? Oppure pensiamo a Kafka che, quand’era in vita, era noto ad appena un gruppetto di intellettuali e costretto tra le scrivanie di una compagnia di assicurazioni (per limitarsi a due esempi tra i più sconcertanti e avvilenti nell’epoca dei telefoni, delle ferrovie, del “veemente dio d’una razza d’acciaio” (Marinetti) e della magnifica comunicazione)! Nel mondo precedente all’Ottocento intellettuali di tale magnitudine avrebbero potuto sì finir male, in esilio, al rogo e molto altro, ma non sarebbero mai stati ignorati, anzi il poeta interloquiva in ogni tempo dalla stessa altezza del sovrano. Antoine de Saint-Exupéry scriveva: “Poco importa che il cero sia grosso. Solo la fiamma mi dà la misura della sua qualità”. Dall’Ottocento, invece, Kierkegaard, Schopenhauer o Nietzsche divengono esempi lampanti di solitudine culturale! Prima di questa svolta Epitteto era stato uno schiavo e Spinoza faceva il pulitore di lenti, ma le menti illuminate della loro epoca ne intuivano bene la portata intellettuale! Una società che rigetta i maestri di conoscenza è una società che scende, come avrebbe detto Vico, nell’epoca della “barbarie seconda”, ossia quel regresso che caratterizza le fasi di ricorso storico. Una società di questo tipo non può andare da nessun’altra parte che non sia la direzione del tracollo. Basta, del resto, guardare quelli che controllano questo mondo per capire quanto siano corrotti sotto ogni aspetto, anche quelli inimmaginabili. Gente minuscola, sempre pronta ad eseguire dettami e mansionari, individui piccoli e storti che sanno soltanto come fare per raccogliere prebende e sedersi a capo di qualunque sedia, grandi ciambellani che sono a malapena funzionari del vuoto e dell’oscurità. E questo anche in virtù di quella nullificazione dell’individualità alla quale sono stati esposti già con il latte materno. Quando a Theodor Adorno venne chiesto se fosse possibile riassumere in una breve dichiarazione l’essenza del regime nazionalsocialista egli rispose con una frase che, genericamente tradotta, significa: “inchinarsi verso l’alto e dare calci verso il basso” ossia arroganza e servilismo, spirito gregario e sadismo che, anche in questo caso, sono aspetti diversi di uno stesso fenomeno o disturbo dello sviluppo psicologico. L’uomo contemporaneo ha poi lasciato che proprio questi caudatari in pannicelli caldi lo trasformassero in una statistica nelle mani di quelli che detengono il saldo controllo delle leve di comando.
            Ibsen nella commedia Peer Gynt, descrive un uomo che non aveva mai saputo esser nulla e persino il diavolo (l’uomo magro), non sa che farsene di costui che non ha mai avuto abbastanza personalità neppure per finire all’inferno! Ma Peer Gynt l’inferno lo aveva già vissuto dentro la vita e se ne era reso conto solo dopo, quando aveva perso le sue illusorie certezze e si era accorto dell’annientamento della vita dentro la vita. Anni dopo capitò a Sigmund Freud di dover rifiutare l’analisi ad una paziente perché non dotata di sufficiente intelletto e capacità introspettiva per essere analizzata: il mondo aveva tolto a quella sventurata lo specchio di sè. Chissà che direbbe il maestro viennese davanti al magro spettacolo della società odierna che confeziona oggi esseri umani come se fossero caramelle...

            Erich Fromm vedeva nella rinuncia alla libertà una paura inconscia dell’uomo verso la responsabilità implicita nella libertà stessa e fece di quest’argomento il tema di un libro centrale nel suo pensiero: Escape from Freedom, pubblicato negli Stati Uniti nella significativa data del 1941. In tutta la sua opera Fromm ha continuato a denunciare la contemporanea trasformazione dell’essere umano in automaton, ossia in colui che ha interamente abdicato non solo alla libertà, ma anche alla propria individualità, sostituendola con un’umiliante parvenza fatta di convenzioni e giochi sociali. L’abilità dei sistemi dello Spätkapitalismus sta anche nel proporre un modello di vita preconfezionato che abbia però sgargiante parvenza d’individualità. Sempre Fromm osservava che il diritto alla libertà d’opinione non serve a nulla quando non si hanno più idee da esprimere! La legge potrà anche mantenere il diritto alla libertà d’espressione, ma se l’ambiente sociale non la incoraggia e la preclude attraverso raffinati costrutti socio-economici, la legge non serve né significa alcunché: “Nelle mani di un ingiusto anche la giustizia serve gli scopi dell’ingiustizia” (L’Algebra degli Scacchi, Zambon 2008, [5]). Non è che l’automa non senta un bisogno minimo di libertà, è che la interpreta solo come un mettersi ogni tanto un po’ d’olio sulle giunture!

            Mentre l’uomo di latta ne Il mago di Oz aveva per unico desiderio quello di ottenere un cuore, tanto quanto Pinocchio voleva diventare un bambino vero, l’automaton del mondo nuovo vuole appena una grossa macchina o un paio di scarpe lucide e nuove. Si torna qui alla differenza tra le due facce di uno stesso sistema: quella dura che impedisce con la forza di dire qualcosa oppure quella sottile e persuasiva che ti toglie le cose da dire anche dalla testa riempiendola, al contempo, di affaccendamenti vacui ed inutili. Per questo i pensatori della Scuola di Francoforte ritenevano le dittature “dure” spiritualmente meno pericolose di quelle soft perché le prime lasciano ancora spazi di libertà entro cui è ancora possibile resistere, mentre le dittature del secondo tipo eliminano ogni resistenza ed ogni pensiero, creando un uomo nuovo che non si rende neppure più conto del suo asservimento. Quello che un tempo si sarebbe definito come lo schiavo perfetto: colui che ama la propria catena e la sente come sola misura di libertà. Fromm lo chiamava homo consumens, altri lo definiranno l’uomo della reificazione o l’uomo che trasforma se stesso in un meccanismo, con tutte le implicazioni derivanti, non ultima la visione contemporanea che spadroneggia in medicina o in biologia che, coerentemente con l’ideologia dominante, interpreta l’uomo appena come una sorta di meccanismo biologico che è, poi, l‘homme-machine di Descartes. Ben altra domanda è poi chiedersi se l’uomo alienato sia davvero funzionale o non sia, invece, l’architetto e artefice di immani distruzioni future.

            Emile Cioran, nel Sommario di decomposizione, scoprendosi improvvisamente più platonico di quanto abbia mai voluto ammettere nei suoi scritti, situerà l’origine del “credere” indubitabile nell’annus infaustus della chiusura del più grande tempio della conoscenza, ossia la data nella quale Giustiniano chiude l’Accademia Platonica o quel che ne era rimasto: “Et si je cherche la date la plus mortifiante pour l’orgueil de l’esprit, si je parcours l'inventaire des intolérances, je ne trouve rien de comparable à cette année 529, où, à la suite de l’ordonnance de Justinien, l’école d’Athènes fut fermée. Le droit à la décadence officiellement supprimé, croire devint une obligation, Se cerco la data più mortificante per l’orgoglio dello spirito, se scorro l’inventario delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a quell’anno 529 in cui, per ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene. Soppresso ufficialmente il diritto alla decadenza, credere diventa un obbligo” (Cioran, Précis de décomposition, p. 165). L’editto terribilis di Giustiniano ha comunque radici ben più antiche ed un corrispettivo nell’ordine d’esilio dei filosofi ordinato da Vespasiano nel 71 o il bando dei filosofi dell’85-90 d.C., ad opera di Domiziano, anche se a questi due Imperatori succedettero Adriano e Marco Aurelio che in un certo modo ovviarono, anche se non per molto, alla barbarie dei loro predecessori. Vespasiano, l’Imperatore che ebbe anche a pronunciare il celebre: pecunia non olet è sotto molti aspetti, non ultimo la sua indifferenza o avversione verso la cultura, una figura politica assolutamente contemporanea.

            La guerra contro il sapere ha del resto conosciuto non pochi alti e bassi nella storia, ma non aveva mai raggiunto il livello di sfacciataggine e mistificazione contemporanei in cui i nemici della conoscenza si piccano di esserne i rappresentanti ufficiali (cfr. La Società del Contrario, Zambon, 2005). Da questa pericolosissima svolta proviene non solo la contemporanea indifferenza verso la cultura autentica e la sostituzione di questa con banalità, superficialità e chiacchericci alla moda, ma anche con l’incapacità per la cultura di fornire soluzioni ai molteplici problemi che affliggono la società contemporanea.
***
            Quelli che si credono astuti nel ridurre la vita ai soli bisogni pare non intendano che si tratta, invece, di una misera ritirata dalla vita ridotta al suo minimo comun denominatore di sopravvivenza e paura e in un individualismo che non ha proprio nulla d’individuale. L’uomo contemporaneo si trascina ormai in una situazione tanto disastrosa quanto spaventevole perché, come già in altre epoche, ha abdicato la libertà al bisogno. Si rinuncia al buono, al vero ed al bello chiamando tutto questo con il magniloquente termine di “realtà”, come se questa famigerata realtà dovesse necessariamente coincidere con la deprivazione di sé e non con il compimento umano. È proprio attraverso l’imposizione dell’esistente che è stata sottratta realtà all’esistere, trasformando il mondo intero in un luogo di terribile desolazione: Terribilis est locus iste.

            Se nel Ventennio bisognava credere nella patria, nel manganello e nel moschetto, oggi bisogna magari “credere” nell’economia del capitale e nel diritto dei pochi di dominare i molti. Le parole di adesso sono sicuramente più suadenti, ma la loro volgarità resta invariata: “seguite i dettami di chi comanda e state zitti”, anche se il mondo della vita vera grida altrimenti. Tapparsi occhi e orecchie diventa allora il primo dovere di chi vuol continuare a “credere e obbedire”. Il risultato che quest’apparato produce sugli esseri umani è di trasformarli nell’ombra di ciò che potrebbero davvero essere finendo così, come avevano già ammonito pensatori di un tempo ormai andato, nel perdere, per il vivere, proprio le ragioni del vivere. E, come notava Leopardi, tolto l’umano dal mondo, non resta che la barbarie.
(Sergio Caldarella, I nuovi fascismi dal faccino sorridente, in «Littera morta», nr. 12, 2013, pp. 45-53).

Sunday, June 9, 2013

Le colpe della rappresentazione


Nell’epoca contemporanea, anche grazie all’uso e all'ausilio dei tanti orpelli e giocattoli elettrici ed elettronici, tutto sembra si sia trasformato in spectaculum, in qualcosa non più da guardare, spectare, ma in qualcosa che, per esser degno d’attenzione, richiede dapprima una scenografia ben posta per far sí che il nostro sguardo non venga turbato proprio da quell’artifizio con cui la rappresentazione scenica ci viene mostrata: la finzione deve sembrare naturale. Un film fatto bene è quello in cui non si vede la mano del regista, così come in una società regolata non si devono vedere le dita dei pochi con le mani sui bottoni. L’attenzione psicologica dei contemporanei richiede ormai una techné per nascondere l’artificio con cui ci viene mostrato il mondo e tali téchnai vengono comunemente dette scenografia, sceneggiatura, ma anche pubblicità, propaganda o politica.
Tra i tanti effetti deleteri, questo nuovo paradigma trasforma la visione in una visuale sull’artefatto e conduce ad una concezione della visione quale “visione scenica”. Dopo l’antica trasformazione della narrazione in storia, ἱστορία, ossia racconto di cose vedute, e del mondo in rappresentazione (Vorstellung), anche il ragionamento, le idee e la conversazione diventano ora elementi di una rappresentazione e, senza la loro bella cornice, non si riescono quasi più ad ascoltare oppure, se mancano dell’artifizio dai molti nomi, non vengono considerate degne di nota. Tutto si trasforma così in coreografia, in una questione di rappresentazioni, titoli, cornici, scenografie, consensi e artefatti vari. Questa trasformazione della percezione e, dunque, anche questa comprensione speciosa che, in prima battuta, si presenta magari come semplice mentalismo, è ancora e sempre il solito vecchio e tremendo egocentrismo che, indossando nuovi panni sgargianti, ora non vuol soltanto continuare a porre al centro di tutto la sua microbica singolarità percettiva, ma una percezione ben regolata in una rappresentazione calibrata da ben studiate téchnai.
Uno tra i tanti risultati di questa nuova impostazione è che tutto, dalla vita all’arte, viene ridotto alla sua rappresentazione, ossia all’effetto scenico. Basta presentare una cosa con la giusta combinazione di frizzi e lazzi per dargli pari dignità d’argomento con qualunque altra. Del resto una civiltà dell’immagine è anche una civiltà dell’illusione ed è forse anche per questo che tanta parte degli uomini contemporanei è fatalmente appesantita da illusioni di benessere, felicità ed eternità che, con l’ausilio delle téchnai di cui sopra, vengono fatte apparire come le sole verità possibili dell’esistenza. Un tempo saremmo forse stati avvertiti con il proverbio: chi va appriesso a ‘o cecato fernesce dint’o fuosso.
 
(Sergio Caldarella, Le colpe della rappresentazione, in Commento: Rivista di Studi Critici, nr. 7, Roma 2013, p. 48)