Sunday, January 6, 2013

Il drago che è in noi


Nella commedia Il Drago (1943), appartenente a quella che è stata definita come «la trilogia del potere», Evgenij Schwarz (Švarc) descrive, con un linguaggio tra fiaba filosofica e metafisica, una città dominata dalla figura di un terribile e dispotico drago che ha assoggettato alla sua volontà, da oltre quattrocento anni, tutti gli abitanti del luogo. Così come Molière scriveva di Luigi XIV dietro la facciata di un personaggio di una delle sue farse, Pirandello utilizzava l’immagine dei Giganti della Montagna (1933) per indicare il fascismo e Ionesco i Rinoceronti (Rhinocéros, 1959) per parlare dei nazisti nella Francia occupata, allo stesso modo Schwarz scrive di un drago dietro cui si intravvede il baffone di Stalin.

            Il giorno prima del sacrificio di Elsa (poiché il drago oltre al sacrificio di «mille vacche, duemila pecore, cinquemila galline e mezzo quintale di sale al mese» pretende anche, secondo cliché, quello di giovani fanciulle) arriva in città il cavaliere Lancellotto che, avvertito da un gatto (chissà se Bulgakov si è ispirato anche a Schwarz per il suo gatto ne Il Maestro e Margherita o, magari, il gatto di Bulgakov è la sintesi del gatto Murr di Hoffmann, di quello di Puskin – devo la citazione sul gatto di Puskin ad una conversazione con Renzo Oliva – e un po’ quello di Schwarz), si propone di sfidare il drago per impedire il sacrificio di Elsa e liberare la città dal giogo. Quando il cavaliere comunica le sue bellicose intenzioni a Charlemagne, il padre di Elsa, ed alla ragazza, entrambi, assuefatti al pensiero che non sia possibile ribellarsi al drago né, tantomeno, sfidarlo in combattimento senza mettere a rischio l’incolumità della città intera, cercano di dissuaderlo. Padre e figlia cercano anche di giustificare il drago tributandogli una funzione di equilibrio sociale e assicurando Lancellotto sulla bontà del mostro che ha da tempo liberato la città dagli zingari (poiché, nei primi anni del suo dominio, questi avevano osato opporsi al drago) e quando la città era stata minacciata dal colera «egli alitò il suo fuoco sul lago e lo fece bollire. Tutta la città poté bere acqua bollita e si salvò così dall’epidemia», giustificando così la figura e la necessità sociale del drago. Alla fine della sua difesa del drago, seguendo una precisa linea di realismo politico, Charlemagne conclude affermando: «Finché è qui lui nessun altro drago osa toccarci» e all’obiezione di Lancellotto secondo cui gli altri draghi «sono stati sterminati da un pezzo», ribatte «E se non fosse così? (...) l’unico modo per liberarsi dai draghi è di tenersene uno».

            Dopo la sfida lanciata dal cavaliere Lancellotto al drago – recatosi, per l’occasione, a far visita  alla sua prescelta incarnando una forma umana – i gatti diffondono la notizia e il borgomastro, udendo quanto era accaduto, giunge immediatamente alla casa di Charlemagne dove la sfida ha avuto luogo. Il borgomastro, un uomo sofferente (a suo dire) «di tutte le malattie nervose e psichiche del mondo e di altre tre finora sconosciute» insieme ad epilessia, catalessi ed altro ancora, cerca anch’egli di dissuadere Lancellotto, ma le sue ragioni sono ben diverse da quelle di Elsa e di suo padre. Egli vuole che il drago viva perché quest’ultimo teneva in pugno il suo aiutante «e tutta la sua banda di mugnai». Per il mantenimento dello status quo il borgomastro sarebbe intenzionato a sacrificare anche due città e conclude il suo discorso affermando sicuro: «Meglio cinque draghi che quel serpe del mio aiutante». Nel frattempo, in punta di piedi e addossati al muro, accorrono anche «i migliori uomini della città» per chiedere a Lancellotto di andarsene. Il cavaliere, continuando ad ascoltare lo sproloquio del borgomastro, dichiara: «Capisco perché quella povera gente è corsa qui in punta di piedi». «Perché?» chiede il borgomastro. «Per non ridestare gli uomini veri. Vado a parlare con loro» dice Lancellotto uscendo di corsa dalla scena. L’atto si conclude con il dialogo tra il borgomastro, Elsa ed Heinrich, il lacchè del drago nonché figlio del borgomastro, il quale propone ad Elsa, per ordine del drago, di uccidere il cavaliere con un coltello avvelenato.

            La commedia non riporta il dialogo tra Lancellotto e gli abitanti accorsi e il rapporto tra il cavaliere e la cittadinanza viene palesato in poche righe nel secondo atto non appena quest’ultimo rientra in scena e il borgomastro gli chiede se, nel corso della notte, ha fatto qualche amicizia: «I pavidi abitanti della sua città mi hanno aizzato contro i cani – risponde il cavaliere . Ma i cani qui hanno molto giudizio. E’ con loro che ho fatto amicizia». In questa curiosa fiaba, gli animali rappresentano la coscienza della natura che, vedendo al di là dei fini puramente individuali si rivela come pura saggezza ancestrale. La fiaba di Schwarz è una grande metafora del mondo, del potere e degli uomini che in esso patiscono o fanno patire. Nel dialogo con Lancellotto il drago chiede: «Non vorresti morire per degli esseri deformi (...) Se tagli in due un corpo, l’uomo crepa. Ma se squarci un’anima, diventa docile e basta». Ecco descritta, nelle parole del mostruoso drago, la natura di un mondo malato perché immagine della mostruosità del drago, una realtà fatta di necessità e disciplina che squarcia l’anima degli uomini. Il mondo di questa fiaba filosofica senza tempo non assomiglia soltanto alla Russia degli anni ’40, ma ad ogni altra epoca, la nostra inclusa, in cui gli uomini vengono condotti alla deformità da un potere deforme e infame che altro non riconosce e promuove nell’uomo se non la sua mostruosità. Meglio allora, come sembra voler insegnare Schwarz, camminare a passi pesanti e forse si potrà ancora svegliare qualcuno.           

(Sergio Caldarella, Il drago che è in noi, in «Littera morta», 11, 2013, pp. 13-14).