Tuesday, September 4, 2012

Dallo stato di natura alla selezione naturale


Forse uno tra i maggiori contributi non riconosciuti di Sigmund Freud è quello di aver fornito elementi determinanti per il superamento della teoria degli istinti così come viene concepita da Richard Darwin e dai suoi epigoni. Darwin descrive e caratterizza l’esistenza di comportamenti istintivi nell’uomo e questi “concetti darwiniani”, così come altri, verranno poi incorporati nella psicologia ottocentesca, principalmente grazie a Wilhelm Wundt. Lo stesso Freud passa attraverso una fase in cui, nei suoi scritti e appunti, fa uso del termine instinkt, ma in seguito spiega che l’istinto non pertiene autenticamente agli umani, almeno non nel senso in cui questo può essere utilizzato per definire il comportamento di altri animali. In Freud comportamento e agire non sono più sinonimi anche perché nell’agire umano si trovano insospettabili profondità conscie, inconscie e simboliche: una tra le tante implicazioni della Traumdeutung, ma anche della teoria degli atti mancati (Fehlleistung) è che anche l’inconscio parla o, per meglio dire, trabocca nel linguaggio e nelle azioni umane (Sigmund Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens, Psicopatologia della vita quotidiana, 1901). Non a caso Freud parla della sua teoria degli istinti come di una “nuova soluzione” in cui il maestro di Vienna contrappone l’Eros e la pulsione di morte tornando, in un certo modo, al tema della vitalità nietzschiana.

Utilizzata in un senso rigido, la parola istinto è tra i tanti concetti creati dalla modernità e divenuti, in seguito, strumenti di manipolazione sociale. Il termine “istinto”, coniato nel Settecento in francese prendendo a calco il latino instinctae naturae, che indubbiamente traduce il tedesco instinkt, ma viene meglio reso da Naturtrieb o pulsione naturale, è un concetto figlio della modernità – gli antichi avrebbero usato altri termini, vedi l’Iliade quale maestoso esempio. Nel 1760 Hermann Reimarus scriveva che l’istinto è una “mechanische Triebe der Thiere”, cioè una “pulsione meccanica degli animali”, mentre per Darwin (1872) è un comportamento non appreso ossia innato. Come già osservato, Freud stesso passa attraverso l’utilizzo del termine istinto che sostituisce, poi, con il più accurato “Trieb”, “pulsione”, da cui l’intera Triebtheorie, la Teoria delle pulsioni.

L’intera teoria degli istinti è un costrutto che piace molto non soltanto a coloro che vogliono manipolare la società per i loro fini ma anche a quelli che rigettano l’analisi di se stessi. Tale teoria è anche una comoda spiegazione per un’epoca che vuole vedere l’essere umano meccanicamente e confondere la malattia sociale con i presunti istinti: è infatti più comodo dire che l’uomo possiede un istinto aggressivo, invece di osservare che viene reso aggressivo dalle condizioni sociali (questo viene spiegato efficacemente da Erich Fromm in gran parte della sua opera e, in particolare, in Anatomie der menschlichen Destruktivität, Anatomia della distruttività umana, 1974). Allo stesso modo anche l’amore viene, già in Schopenhauer (che, guarda caso, su questo punto era un hobbesiano convinto), ridotto alla bieca manifestazione dell’istinto di conservazione: l’essere umano che scende al livello dell’automaton! Chissà quanti secoli ci vorranno ancora per comprendere il danno compiuto, a partire dall’Ottocento, dal meccanicismo riduzionista darwiniano. Stupisce anche che a nessuno venga in mente che Darwin, similmente a Martin Lutero o Karl Marx, è servito anche da pretesto e strumento politico ad una certa classe sociale che voleva una giustificazione al suo agire. Ancora più stupefacente pensare che lo stesso Karl Marx, il cui acume politico era sicuramente fuori dal comune, colto dalle ubriacature ottocentesche, apprezzava a tal punto l’opera di Darwin da volergli dedicare Il Capitale – dedica che Darwin rifiutò, ma Marx mantenne. Un secolo dopo, Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) con il suo comportamentismo radicale (Radical behaviorism), sarà il campione del modello istintuale, finendo con il negare persino il desiderio di libertà nell’uomo! Ma anche questa è sciocca ideologia contemporanea. Se l’aggressività, per limitarsi ad un esempio ideologicamente rilevante, viene categorizzata come un “istinto” si rifiuta, al tempo stesso, di riconoscervi altre ragioni profonde e, magari, provare a comprendere queste ragioni secondo una lettura più vasta. L’antidoto che Erich Fromm propone è di uscire da uno stadio necrofilo della società ed accedere ad uno stadio di riscoperta dell’umano (biofilia vs necrofilia), sostanzialmente un nuovo umanesimo. Fromm era infatti ben convinto della relazione tra umanesimo e psicoanalisi. In questo contesto si evince come una società impostata sulla competizione e non sulla cooperazione sia generatrice di aggressività. Un tale modello competitivo su basi antietiche, spinto poi alle estreme conseguenze cui assistiamo oggi, educa i membri delle società all’aggressività sotto qualunque forma. È l’assurdo modello dell’antropologia negativa del Bellum omnium contra omnes offerto da Hobbes (De Cive (1642) e Leviatano (1651)), definito da Nietzsche come “grossolano”, che tanto comodo ha fatto agli organizzatori delle società successive per giustificare un assetto repressivo. Persino Freud, analizzando la società dai suoi sintomi, cadrà, come rileva Herbert Marcuse, nel “convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile” (Eros e civiltà, 1955)  questo apre anche alla possibile analisi e interpretazione del rapporto tra repressione manu militari e repressione psicologica.

La nostra società non mira ad un orizzonte futuro più umano, quanto al suo contrario e questo anche perché ad un certo punto della storia si è voluto iniziare a credere che la società esista per il soddisfacimento dei bisogni ed il sollazzo e non per il miglioramento degli uomini. «Ostendo primo conditionem hominum extra societatem civilem (quam conditionem appellare liceat statum naturae) aliam non esse quam bellum omnium contra omnes; atque in eo bello jus esse omnibus in omnia, Mostro in primo luogo che la condizione degli uomini senza società civile (la cui condizione può essere chiamata lo stato di natura) non è altro che quella di una guerra di tutti contro tutti, e che in quella guerra, tutti hanno diritto a tutte le cose» (De Cive). Nonostante il modello qui descritto della guerra di tutti contro tutti sia presociale, una società costruita su tali basi concettuali sarà appena un agone più sofisticato per la continuazione della stessa lotta “con altri mezzi” (Carl von Clausewitz, 1780 – 1831); ad esempio la competizione e la “selezione naturale” (concetto, quest’ultimo brutalmente estrapolato dall’adattamento particolare dei sistemi biologici).

Come si può evincere da questi pochi e brevi accenni, il pensiero hobbesiano confluirà pari pari nell’ideologismo darwiniano in cui gli si rammenda una veste biologista e svolgerà tragiche conseguenze nel Novecento indossando anche i panni del diritto razziale con Carl Schmitt e il concetto di amico-nemico (Freund und Feind). In sostanza si tratta di moderne ideologizzazioni, in varie forme, del motto medievale mors tua vita mea. E tutto questo spacciato, come al solito, sotto i vecchi panni lucenti del nuovo.
 
(Sergio Caldarella, Dallo stato di natura alla selezione naturale in «Dibattito. Rivista di Studi Politici», Settembre 2012, pp. 109-113).