Tuesday, July 13, 2010

Un matematico tra le lettere


La confortevole atmosfera della città di Cambridge, nel Massachusetts, fa da sfondo all’Harvard University, la prima università degli Stati Uniti, ed è proprio qui, nel suo studio situato al terzo piano di un edificio in mattoni rossi, che incontriamo il professor Leonard Summer, uno tra i più acuti scrittori americani contemporanei, autore del fortunato Flies over Omaha e di Women without problems. Dall’ambiente, ci si aspetta che Summer insegni in uno di quei tanti corsi di creative writing che sono parte integrante di molti college americani e fonte di sostentamento per intere generazioni di scrittori d’oltreoceano; invece questo elegante quarantenne è docente di matematiche avanzate nella locale università, specialista di crittoanalisi, nonché membro dell’American Science Foundation e dell’International Chronoarchive: insomma un matematico con l’hobby della scrittura e non uno scrittore con l’hobby per la matematica come conferma egli stesso divertito.
Il suo studio, una stanza di poco più di dieci metri quadrati con vista sull’Harvard University Art Museum, ha le pareti interamente coperte da librerie zeppe non solo di libri, messi in verticale, in orizzontale o con il dorso al contrario, ma anche riviste, giornali, cartelline, qualche bottiglia di birra vuota e persino alcune piccole foto incorniciate e lasciate distrattamente davanti ai volumi. Una piccola scrivania in mogano, anch’essa colma di carte e volumi, è posta davanti alla finestra, mentre su un piccolo tavolino, a sinistra della scrivania, troneggia un grosso computer con diverse unità periferiche ed una macchinetta per il caffè.
Il Professor Summer, alto, magro con gli occhi neri e i capelli appena brizzolati, mi riceve con un largo sorriso alzandosi dalla sua piccola scrivania. Si scusa per il disordine e mi chiede se desidero una tazza di caffè, confessa che, in teoria, avrebbe diritto ad una stanza più grande e ad una segretaria, ma ormai sono tanti anni che lavora in quello studio e non si sente ancora pronto ad abbandonarlo. Inoltre, aggiunge, una segretaria avrebbe la spiacevole tentazione di provare a mettere ordine tra le sue carte e questo riuscirebbe difficilmente a sopportarlo trovando, nel caos, una feconda miniera di ispirazione. Mi viene in mente in proposito una scena del suo recente romanzo Lights from Cyberworld, dove il protagonista, entrando nel laboratorio di uno scienziato, ribadisce qualcosa di simile in relazione all’enorme disordine che vi trova. Il professore sorride e aggiunge che è un’osservazione sulla quale si era già trovato in disaccordo, ancor prima della pubblicazione del libro, con la sua ex moglie.
Mi versa il caffè in una tazza con sopra disegnato un pescecane e la scritta: Loans, easy terms (Prestiti, comode restituzioni). Subito dopo si siede di fronte a me ed incrocia le mani in grembo come in attesa di una domanda. Senza perdere altro tempo entro direttamente in argomento chiedendogli a quali altri autori guarda con attenzione e perché, dopo i primi due romanzi dalla forte connotazione esistenziale, ha scelto di scrivere un libro di ambientazione tecnologica e se non si sia ispirato in qualche modo a William Gibson, decano degli autori cyber. Summer dichiara subito (con velata ironia) di non capire molto bene le divisioni della critica letteraria e, tantomeno, capisce perché «se uno scrive qualcosa che ha a che fare con l’anima ed i sentimenti ha subito l’etichetta di esistenzialista, se parla di computer è cyber, se ammazza qualcuno è pulp e se scrive di astronavi e macchine del tempo è science fiction. Si scrive quello che sente e non è dagli oggetti o dalle condizioni ambientali, che servono da spunto alla narrazione, che si deve interpretare il senso di un libro o le caratteristiche di un autore. Non so se conosce la questione dello stream of consciousness? Ha presente Virginia Woolf, Dorothy Richardson? E’ la tecnica di raccontare tutto, ogni dettaglio, proprio tutto, ma a mio avviso ogni autore cerca già di raccontare tutto o quantomeno tutto ciò che egli ritiene valga la pena di essere raccontato, il resto è nulla, spazi bianchi dell’esistenza. Quando Flaubert si perde, o almeno così fa sembrare, in quelle sue lunghissime descrizioni, in realtà ha uno scopo ben preciso, vuol farci trascorrere un certo tempo insieme al protagonista, vuole creare un climax per poi gettarci nella mischia degli avvenimenti, così come anche Stendhal e molti altri. In un romanzo nessuna descrizione è senza scopo. Persino Joseph Ferdinand Gould, un bislacco scrittore newyorkese morto nel ’57 poco conosciuto in Europa, che si era messo in testa di scrivere una “Storia orale” in migliaia e migliaia di quadernetti, raccogliendo le storie di tutti coloro che incontrava dai quartieri alti ai bassifondi di New York, quando scriveva non raccontava mica tutto e però trascrisse oltre ventimila conversazioni. Il vecchio Joe, con i suoi quadernetti, influenzò persino William Saroyan del quale, per molti aspetti, può essere considerato un anticipatore. C’è invece chi crede sia possibile costruire un libro semplicemente raccontando tutto, tutto capisce? Ma cosa significa, poi, raccontare tutto?».
«Sì, capisco. Del resto Joyce riteneva che lo stream of consciousness fosse una pura sciocchezza, a meno di non voler inserire in questa vasta categoria dall’Agamennone alle opere di Shakespeare».
«E’ vero, e quando allusero che il monologo di Molly Bloom potesse essere nello stile dello stream of consciousness, Joyce si infuriò dicendo che “Molly era una donna con i piedi per terra e non si sarebbe mai permessa qualcosa di così cerebrale come lo stream of consciousness”. Come vede, la guerra tra critici e scrittori è qualcosa che ha radici molto lontane».
«Comunque è un dato di fatto che in genere i matematici come lei tendono ad occuparsi al massimo di science fiction, penso a sir Fred Hoyle, astronomo e astrofisico, che ha scritto The Black Cloud, La nuvola nera, oppure a Rudy Rucker, anch’egli matematico di professione, autore di libri di fantascienza come White Light o Master of Space and Time».
«Di Rucker conosco soltanto il suo saggio Infinity and the Mind, mentre per quanto riguarda Hoyle, del quale ero un buon amico, mi lasci dire che il suo The Black Cloud è, sì, un romanzo di fantascienza, ma anche un modo per prendere un po’ in giro la stupidità dei politici che nel suo libro non fanno certo una bella figura. E’ un po’ la riedizione narrativa di alcune tesi di C. P. Snow, l’autore di The two cultures e Science and Government, il quale sosteneva, già negli anni Cinquanta, la necessità di lasciare agli scienziati la possibilità di decidere sulle complesse questioni scientifiche, vista l’inadeguatezza della classe politica i cui fini non sembrano proprio essere quelli della conoscenza».
«E’ la rivisitazione tecnologica delle tesi del buon vecchio Platone».
«Beh, sì, in parte, anche se rivisitate dall’ancestrale ripulsa che gli uomini di scienza in genere provano, o forse dovrei meglio dire ‘provavano’, per il potere. Comunque, rispondendo alla sua domanda, voglio dirle che io insegno matematiche e sono convinto che le scienze esatte siano un tirocinio doveroso per uno scrittore, poiché insegnano a fare a meno della vasta superficialità oggi tanto comune in letteratura, per scavare dentro i significati, le equazioni non sono mai troppo lunghe e qualunque calcolo che sia troppo lungo o complesso può – e deve – essere sottoposto alla semplificazione. In fisica, ad esempio, si è anche inventata la cosiddetta rinormalizzazione, ossia quando alcuni calcoli inerenti le particelle subatomiche tendono verso valori infiniti, allora si introducono ad arte alcune radici e così si riconduce il risultato ad un qualche numero ragionevole, e in matematica ragionevole sta per computabile. C’è anche un professore tedesco che, se non sbaglio, ha scritto un libro dal titolo simile e lo ha presentato qui ad Harvard qualche anno fa».
«Non è forse Die Lesbarkeit der Welt (La leggibilità del mondo) di Hans Blumenberg?»
«Sì, è giusto, proprio lui! Un uomo molto rigoroso nell’esposizione, sembrava più un matematico che un filosofo, credo sia morto qualche anno fa».
«Sì, credo anch’io. Così lei sposa la tesi della matematizzazione della letteratura?».
«Yep (modo informale per dire sì), intendendoci però sul fatto di considerare la matematica come un campo dove regna l’amore verso la struttura logica delle cose e non come una serie infinita di fredde astrazioni come l’uomo della strada è portato a credere. Se guarda le opere dei grandi pensatori vedrà che sono strutturate secondo un ordine matematico, pensi a Spinoza, che costruisce l’Etica come un libro di geometria con postulata, propositio, demonstratio, corollarium, etc., una struttura matematica del pensare filosofico. Il romanzo, invece, nasce moderno, ossia tanto più diventa romanzo, e abbandona la commedia, la tragedia, l’opera buffa, il dramma e tutti quei generi nati principalmente per essere rappresentati, tanto più assume i caratteri della modernità. Non a caso Gargantua e Pantagruel è il primo romanzo della storia ed è un romanzo del Rinascimento, l’epoca che segna l’inizio della modernità, più che l’uscita da un presunto Medioevo. A questo proposito è significativo che l’oracolo del romanzo di Rabelais veda la soluzione dei problemi della vita in una sola parola “Trink”, “bevi”, una sorta di estetica materialista che trova non pochi collegamenti con i crassi miraggi del nostro tempo».
«Bisogna comunque aggiungere anche il Don Chisciotte insieme a Gargantua e Pantagruel».
«Ha ragione, anche Cervantes, guarda caso, propone l’idea dell’uomo spaesato che combatte contro i fantasmi del mondo travestiti, per gli altri, da mulini a vento. Io non sono sicuro che siamo noi ad avere ragione di Don Chisciotte e che i mulini a vento non siano, in realtà, proprio giganti che noi siamo capaci di vedere solo come mulini, i luoghi dove si macina il grano, l’elemento fondamentale di ogni economia, ma questo è un altro discorso e ci porterebbe forse troppo lontano».


© Sergio Caldarella, 2010.

Saturday, July 10, 2010

Copenhagen città dai sogni di vetro.




Copenhagen città dai sogni di vetro è il titolo dell´ultimo libro di Peter Långkvist e non c`è da meravigliarsi se lo scrittore abbia deciso di trascorrere gran parte della sua vita in questa città tranquilla e bella in cui ha avuto la fortuna di nascere. Quando arriviamo davanti alla casa di Långkvist sono già le dieci e trenta del mattino. Due uomini stanno scaricando della ghiaia da un automezzo, mentre, dirimpetto, un tizio con un grembiule grigio sta ramazzando il marciapiede. La sua abitazione, proprio al centro della zona vecchia, è una tipica casetta danese a due piani con il tetto spiovente e la vista sui canali. Vi si accede da una scalinata in mattoni rossi sovrastata da un´imponente porta d´acero con un magnifico battente in bronzo a forma di grifone. Ci sovrastano alcune nubi bianchissime che, sotto l’azzurra volta di quel cielo tranquillo, risplendono di un candore quasi irreale. Suoniamo il campanello e da lì a poco Peter Långkvist, un uomo massiccio dalla folta barba bianca, ci riceve indossando una giacca da camera verde e, dopo una brevissima presentazione in un impeccabile inglese dall’accento britannico, ci fa subito strada verso il piano superiore attraverso una scala costellata di foto e quadretti sul lato della parete.
Långkvist apre la porta del suo studio facendoci segno di precederlo nella stanza. Com’era da attendersi lo studio è stracolmo di libri, illuminato durante il giorno da un lucernario a piramide che lascia cadere la luce naturale su una rosa dei venti intarsiata sul parquet al centro della stanza; il lato che dà sull´esterno è, invece, una grande finestra a riquadri con una porta che accede su una terrazza piena di fiori.
Lo scrittore si siede su una delle grandi poltrone lasciando a noi la scelta del divanetto oppure di due altre poltrone dall´altro lato del tavolino ingombro di volumi e riviste. Nello studio tutto sembra odorare di legno buono e di libri impilati sugli incantevoli scaffali che affollano le tre pareti fino alla grande scrivania davanti alla vetrata. Långkvist, quasi scusandosi, ci dice: “purtroppo in questa stanza non ho spazio per appendere i quadri che, in verità, sistemo dove e come posso in giro per la casa”. Fin da subito, dai modi e dalle parole di Peter Långkvist, si capisce che questa intervista non sarà incentrata sui soliti temi: gran parte degli scrittori contemporanei amano parlare di se stessi e non di idee e l´unica cosa che si aspettano da un intervistatore è adulazione per quello che scrivono. Le parole, il tono e la presenza di Långkvist ci fanno invece capire da subito che l’intervista con lui sarà diversa, perché egli è l´esatto contrario di quella gente e, al di là della barba e dell´aria imponente, lo si potrebbe immaginare come un ragazzo gentile che ha appena accolto in casa due nuovi compagni di giochi.
Continuando il discorso dal punto in cui Långkvist l’aveva appena lasciato riprendo la sua affermazione a proposito dei quadri e gli chiedo: “nei suoi romanzi l´arte ha un ruolo centrale ed è come una chiave capace di aprire tutte le porte: penso, in particolare, a Jorg, il protagonista di La macchia sul viso, che, proprio attraverso l´arte, riesce persino a ritrovare sua madre e la gioia di una nuova vita accanto alla pittrice Leyla. Crede davvero nel ruolo universale dell´arte in un mondo come quello contemporaneo dove, per la maggioranza, Van Gogh è ‘Van Gogh’ solo perché i suoi quadri sono oggi quotati diversi milioni di dollari e non per la sua straordinaria capacità di dipingere?”.
Proprio mentre termino la mia prima domanda entra nello studio un’anziana signora reggendo un vassoio con una teiera e dei biscotti. L’anziana signora ci sorride, poggia il vassoio su un lato del tavolino con i libri, e immediatamente dopo si accommiata con un breve cenno del capo. Noi ringraziamo l’anziana signora e Långkvist si limita a dirle un “grazie mamma” a bassa voce.
Prima di rispondere alla mia domanda lo scrittore compie alcuni movimenti sulla poltrona, come se stesse usandone lo schienale per grattarsi la schiena, poi versa del caffè nero nelle tre tazze, ne prende una senza aggiungere zucchero e dice: “Se per arrivare a capire la realtà dovessimo partire dal mondo così come lo interpretano in molti, non credo che andremmo davvero lontano. Secondo me, l´arte può rappresentare, in qualunque caso, la giusta chiave per accedere ad un nuovo, diverso livello di consapevolezza sul reale così come, del resto, ogni altra cosa buona e bella”.
Cogliendo il suo spunto gli chiedo: “questo ci porterebbe anche ad un discorso sul ruolo dell’artista nella società contemporanea”.
“Un ruolo terribile” replica subito Långkvist.
“In che senso?” Chiedo perplesso.
“In una società del conformismo globale che spazio vuole vi possa essere per l’originalità e l’individualità dell’artista? Viviamo tutti schiacciati da un minimo comune denominatore che ci vuole omologati ad un modello deciso dal volgare sentire comune”.
Piacevolmente sorpreso dalle parole dello scrittore aggiungo: “condivido e capisco bene quello che intende. Del resto un altro Suo eminente conterraneo scriveva su queste cose già nell’Ottocento”.
“Sì, riprese subito Långkvist, il danese Søren Kierkegaard, il grande Kierkegaard che a quel tempo aveva già capito tutto quello che sarebbe successo dopo. In una società dell’omologazione e del conformismo l’individualità dell’artista viene percepita come una minaccia. Dobbiamo essere tutti uguali e ad ogni costo, altrimenti peggio per noi. L’arte risveglia la coscienza e in una società delle anime dormienti essa non può che essere percepita come un pericolo, anche per questo bisogna attribuire un prezzo all’arte, un’etichetta mondana per depotenziarla del suo contenuto”.
A questo punto il mio amico James interviene chiedendo: “mi pare di capire che, su questo punto, lei sia fondamentalmente socratico: il buono, il vero, il bello…”.
“Beh, sì, per me i grandi ideali della Paideia greca non hanno mai smesso di esercitare il loro richiamo”.
“Professore…”
“No, non sono un professore, la prego di non chiamarmi così”.
“Mi scusi, non volevo certo mancarle di rispetto”.
“Sì, lo capisco bene, ma è un argomento cui sono molto sensibile perché, almeno qui da noi in Danimarca, si crede che ogni intellettuale che abbia scritto qualcosa di buono debba necessariamente essere affiliato a qualche istituzione culturale ufficiale. Pensando però allo stato attuale della moderna accademia non si può che provare ripulsa per quel mondo. Oggi ai ‘professori’ è forse da attribuire il dissesto della nostra cultura più che i suoi buoni frutti. In una delle sue e-mail lei mi diceva proprio di aver scritto un libro sulla decadenza della cultura contemporanea”.
“Sì, è un libro dal titolo: La Società del Contrario, un’analisi su come la cultura sia stata tradita proprio da quelli che avrebbero dovuto difenderla e preservarla. Purtroppo non è tradotto in inglese o in danese, altrimenti gliene avrei portato una copia.
Volevo però chiederle qualcosa d’altro a proposito del suo ultimo libro, il primo che lei dedica alla sua città, Copenhagen città dai sogni di vetro. In quest´opera lei inaugura una teoria secondo cui la specie umana, con tutta la sua arroganza e il suo credersi al centro dell´universo, altro non è che il veicolo di trasmissione di un´altra specie che se ne serve come veicolo, ossia il gene che è in ognuno di noi. Secondo quanto lei scrive, siamo veicoli funzionali alla pura e semplice riproduzione del gene; quasi come un autobus che porta dei passeggeri da un luogo all’altro del tempo. Nel suo libro lei propone la tesi secondo cui, fin dalle origini della storia umana, ciò che nell´uomo rimane invariato è la natura fondamentale del suo gene. L´uomo di Neanderthal e l´Homo Sapiens sono diversi nella struttura anatomica e comportamentale, ma non in quella genetica; così il gene, attraverso noi, sopravvive ai millenni lasciandosi trasmettere in avanti nel tempo a nostra insaputa. Al gene non importa nulla se milioni di esseri umani muoiono in un conflitto oppure a causa di un´epidemia – esso è assolutamente amorale, o per dirla con Nietzsche, al di là del bene e del male. Al gene interessa soltanto che rimanga sempre un ragionevole nucleo umano atto a perpetrare la sua riproduzione che, poi, è la sua eterna sopravvivenza. Secondo questa teoria la specie umana, e tutte le sue fantasie di centralità e supremazia sul mondo, è soltanto il mezzo attraverso cui il gene si sposta nel tempo! Le nostre fantasie, la nostra volontà, i nostri desideri, null´altro sarebbero se non sogni che il gene ha incastrato nella nostra mente per consentirci di andare avanti e non accorgerci di essere solo contenitori o portatori di qualcosa d´altro. In sostanza non agiamo, ma siamo soltanto agiti: non agit sed agitur”. A queste parole Peter Långkvist assente limitandosi a calare varie volte il capo.
“Certo, al di là del suo intriseco nichilismo, la sua tesi confina anche con la letteratura fantascientifica, in sostanza lei ipotizza una sorta di invasione degli ultracorpi che, invece di provenire dallo spazio o da chissà dove, sono in realtà da sempre stati dentro di noi”. A questo punto del mio riassunto Långkvist, con un largo sorriso, aggiunge: “Badi bene che la teoria cui Knut (il protagonista del romanzo) fa riferimento non si ferma qui, ma va ben oltre. Egli, influenzato dalla lettura di Nietzsche e dalla teoria, fatalmente non del tutto nietzschiana, dell’Übermensch, il Superuomo, ne deduce che il pensatore tedesco avesse ragione, sbagliandosi però nel ritenere che questo Superuomo, al suo emergere nella storia, sarebbe stato ancora un “uomo” strictu sensu, ossia un essere umano come noi siamo abituati a concepirlo. Egli ipotizza che, in realtà, il Superuomo non sia altro che il compimento del gene, ossia verrà un tempo in cui il gene, stanco di abitare nelle profondità dell´uomo, o magari pronto ad entrare in una fase successiva della sua evoluzione, emergerà dall’interno noi prendendo il controllo e, paradossalmente, questo segnerà la fine della specie umana così come la conosciamo”.
A questo punto attendo che lo scrittore finisca di parlare e gli chiedo: “Posso però citarle un passo del suo libro dove l´avvocato Mathyl si rivolge pessimisticamente a Knut ma, allo stesso tempo, tenta di ridimensionarne la teoria del gene? È un passaggio che personalmente trovo molto suggestivo: ‘Cerca, cerca, in questo aggirarsi tra i giorni, e cosa trovi? Dopo aver sperimentato in lungo e in largo, verso quale terra volgere ancora il capo? È possibile scovare una ragione per cui siamo vivi? Oppure bisogna abbandonarsi al destino che ci fa schiavi dei nostri geni? Noi siamo dunque nulla ed è, secondo te, solo il gene che attraverso di noi continua la sua perversa esistenza? Se così fosse allora anche questa mano che scrive è diretta da una forza che essa ignora? Sì, ignoriamo, è vero, la totalità delle ragioni, ma da qui ad affermare di essere eterodiretti il passo è lungo, non breve, mio caro’. Questa potrebbe essere, all’interno del romanzo, una ragione in sé per rivalutare lo scopo e il valore dell’esistenza umana anche a dispetto della predominanza del gene?”.
A questo punto Peter Långkvist, tira un leggero sospiro, si gratta il mento con la mano sinistra e poi dice: “Beh, è chiaro che l´avvocato, essendo un religioso, prova ad opporsi filosoficamente alla tesi di Knut ma, alla fine del libro, accorgendosi che il suo amico viene proprio ucciso da una malattia che nessuno riesce ad identificare né tantomeno a curare, collega questa situazione alla scoperta dell’amico e ne diventa un fervido sostenitore”.
A questo punto intervengo nel discorso di Långkvist chiedendogli: “Allora, se dobbiamo seguire la tesi di Knut, l´uomo, in quanto essere autonomo, non è mai esistito o, per dirla meglio, tutto ciò che di lui esiste ha ben altro fine, così, la sua esistenza ha tanto senso quanto quella di un vaso che trasporta del vino: non è il vaso che conta, ma il vino che c´è dentro”.
“No, non direi, a mio avviso la situazione è un po´ più complessa, poiché è vero che Knut dice anche queste cose però lui le ha scoperte, dunque è un po´ come una macchina senziente – in questo caso l´uomo – che si ribella al suo padrone – il gene. Sarebbe come se domani uno dei nostri elaboratori elettronici cominciasse ad aver coscienza di essere ciò che è: a partire da quell´istante non sarebbe più una macchina e basta, ma una nuova entità con cui dovremmo confrontarci. Ecco, in realtà Knut è l’autentico Messia o il novello Socrate se vuole: colui che scopre la verità dentro l´uomo e nel momento in cui gli esseri umani prendono coscienza di questa verità possono finalmente dirsi liberi”.
A questa sua frase ribatto: “Sentire la prigione, per capire la libertà... In un certo modo assomiglia alla tesi fondamentale del film Matrix dove Neo è un Messia in versione cyber che porterà a compimento la riappacificazione tra gli uomini e le macchine”.
E Långkvist prontamente aggiunge: “In un certo senso... Ma la tesi del film che lei cita appartiene, in realtà, ad un discorso ben più antico: quando Neo viene risvegliato dalla pillolina e scopre che quella realtà da lui vissuta fino a quel momento era solo un sogno che una macchina aveva creato elettronicamente nel suo cervello egli riecheggia un concetto platonico mischiato con pensieri di Berkeley, Cartesio e la teoria dei cervelli in una vasca”.
Sorpreso dall’accuratezza della risposta di Långkvist aggiungo: “Ha certamente ragione: Platone per quanto riguarda il mito della caverna, Berkeley per l´esse est percipi e Cartesio?”.
Långkvist sorride nuovamente e dice: “Cartesio poiché è lui che pone il dubbio assoluto relativo al mondo esterno e fonda l´unica certezza nel pensiero di pensare, lo stracitato cogito ergo sum…”.
“Capisco, davvero interessante questo discorso. In sostanza sembra proprio che l´umanità non faccia altro che ripetere sempre le stesse cose”.
“No, non direi – aggiunge ancora Långkvist – perché un pensiero, anche se apparentemente assomiglia ad un altro, ma viene espresso altrimenti o in un’epoca molto diversa, in quel momento coglie un angolo della realtà che era rimasto ancora inesplorato anche se non ignoto, un lato che solo da quella prospettiva può essere visto in quella sua particolare luce. Proprio adesso abbiamo parlato di Platone, di Berkeley o Descartes i quali dicono ognuno cose diverse eppure, in fin dei conti, dicono pur sempre la stessa cosa”.
Lieto di quell’incontro con Långkvist aggiungo timidamente: “Pare che ci muoviamo sempre nello stesso alveo concettuale e forse, con Platone, un giorno riusciremo a guardar fuori da questa caverna delle apparenze e tornare a riveder le stelle”.
“Sì, un giorno, sperando magari di trovare un bel cielo là fuori…”.

Copyright © 2010 by Sergio Caldarella & James Krote.