Tuesday, July 13, 2010

Un matematico tra le lettere


La confortevole atmosfera della città di Cambridge, nel Massachusetts, fa da sfondo all’Harvard University, la prima università degli Stati Uniti, ed è proprio qui, nel suo studio situato al terzo piano di un edificio in mattoni rossi, che incontriamo il professor Leonard Summer, uno tra i più acuti scrittori americani contemporanei, autore del fortunato Flies over Omaha e di Women without problems. Dall’ambiente, ci si aspetta che Summer insegni in uno di quei tanti corsi di creative writing che sono parte integrante di molti college americani e fonte di sostentamento per intere generazioni di scrittori d’oltreoceano; invece questo elegante quarantenne è docente di matematiche avanzate nella locale università, specialista di crittoanalisi, nonché membro dell’American Science Foundation e dell’International Chronoarchive: insomma un matematico con l’hobby della scrittura e non uno scrittore con l’hobby per la matematica come conferma egli stesso divertito.
Il suo studio, una stanza di poco più di dieci metri quadrati con vista sull’Harvard University Art Museum, ha le pareti interamente coperte da librerie zeppe non solo di libri, messi in verticale, in orizzontale o con il dorso al contrario, ma anche riviste, giornali, cartelline, qualche bottiglia di birra vuota e persino alcune piccole foto incorniciate e lasciate distrattamente davanti ai volumi. Una piccola scrivania in mogano, anch’essa colma di carte e volumi, è posta davanti alla finestra, mentre su un piccolo tavolino, a sinistra della scrivania, troneggia un grosso computer con diverse unità periferiche ed una macchinetta per il caffè.
Il Professor Summer, alto, magro con gli occhi neri e i capelli appena brizzolati, mi riceve con un largo sorriso alzandosi dalla sua piccola scrivania. Si scusa per il disordine e mi chiede se desidero una tazza di caffè, confessa che, in teoria, avrebbe diritto ad una stanza più grande e ad una segretaria, ma ormai sono tanti anni che lavora in quello studio e non si sente ancora pronto ad abbandonarlo. Inoltre, aggiunge, una segretaria avrebbe la spiacevole tentazione di provare a mettere ordine tra le sue carte e questo riuscirebbe difficilmente a sopportarlo trovando, nel caos, una feconda miniera di ispirazione. Mi viene in mente in proposito una scena del suo recente romanzo Lights from Cyberworld, dove il protagonista, entrando nel laboratorio di uno scienziato, ribadisce qualcosa di simile in relazione all’enorme disordine che vi trova. Il professore sorride e aggiunge che è un’osservazione sulla quale si era già trovato in disaccordo, ancor prima della pubblicazione del libro, con la sua ex moglie.
Mi versa il caffè in una tazza con sopra disegnato un pescecane e la scritta: Loans, easy terms (Prestiti, comode restituzioni). Subito dopo si siede di fronte a me ed incrocia le mani in grembo come in attesa di una domanda. Senza perdere altro tempo entro direttamente in argomento chiedendogli a quali altri autori guarda con attenzione e perché, dopo i primi due romanzi dalla forte connotazione esistenziale, ha scelto di scrivere un libro di ambientazione tecnologica e se non si sia ispirato in qualche modo a William Gibson, decano degli autori cyber. Summer dichiara subito (con velata ironia) di non capire molto bene le divisioni della critica letteraria e, tantomeno, capisce perché «se uno scrive qualcosa che ha a che fare con l’anima ed i sentimenti ha subito l’etichetta di esistenzialista, se parla di computer è cyber, se ammazza qualcuno è pulp e se scrive di astronavi e macchine del tempo è science fiction. Si scrive quello che sente e non è dagli oggetti o dalle condizioni ambientali, che servono da spunto alla narrazione, che si deve interpretare il senso di un libro o le caratteristiche di un autore. Non so se conosce la questione dello stream of consciousness? Ha presente Virginia Woolf, Dorothy Richardson? E’ la tecnica di raccontare tutto, ogni dettaglio, proprio tutto, ma a mio avviso ogni autore cerca già di raccontare tutto o quantomeno tutto ciò che egli ritiene valga la pena di essere raccontato, il resto è nulla, spazi bianchi dell’esistenza. Quando Flaubert si perde, o almeno così fa sembrare, in quelle sue lunghissime descrizioni, in realtà ha uno scopo ben preciso, vuol farci trascorrere un certo tempo insieme al protagonista, vuole creare un climax per poi gettarci nella mischia degli avvenimenti, così come anche Stendhal e molti altri. In un romanzo nessuna descrizione è senza scopo. Persino Joseph Ferdinand Gould, un bislacco scrittore newyorkese morto nel ’57 poco conosciuto in Europa, che si era messo in testa di scrivere una “Storia orale” in migliaia e migliaia di quadernetti, raccogliendo le storie di tutti coloro che incontrava dai quartieri alti ai bassifondi di New York, quando scriveva non raccontava mica tutto e però trascrisse oltre ventimila conversazioni. Il vecchio Joe, con i suoi quadernetti, influenzò persino William Saroyan del quale, per molti aspetti, può essere considerato un anticipatore. C’è invece chi crede sia possibile costruire un libro semplicemente raccontando tutto, tutto capisce? Ma cosa significa, poi, raccontare tutto?».
«Sì, capisco. Del resto Joyce riteneva che lo stream of consciousness fosse una pura sciocchezza, a meno di non voler inserire in questa vasta categoria dall’Agamennone alle opere di Shakespeare».
«E’ vero, e quando allusero che il monologo di Molly Bloom potesse essere nello stile dello stream of consciousness, Joyce si infuriò dicendo che “Molly era una donna con i piedi per terra e non si sarebbe mai permessa qualcosa di così cerebrale come lo stream of consciousness”. Come vede, la guerra tra critici e scrittori è qualcosa che ha radici molto lontane».
«Comunque è un dato di fatto che in genere i matematici come lei tendono ad occuparsi al massimo di science fiction, penso a sir Fred Hoyle, astronomo e astrofisico, che ha scritto The Black Cloud, La nuvola nera, oppure a Rudy Rucker, anch’egli matematico di professione, autore di libri di fantascienza come White Light o Master of Space and Time».
«Di Rucker conosco soltanto il suo saggio Infinity and the Mind, mentre per quanto riguarda Hoyle, del quale ero un buon amico, mi lasci dire che il suo The Black Cloud è, sì, un romanzo di fantascienza, ma anche un modo per prendere un po’ in giro la stupidità dei politici che nel suo libro non fanno certo una bella figura. E’ un po’ la riedizione narrativa di alcune tesi di C. P. Snow, l’autore di The two cultures e Science and Government, il quale sosteneva, già negli anni Cinquanta, la necessità di lasciare agli scienziati la possibilità di decidere sulle complesse questioni scientifiche, vista l’inadeguatezza della classe politica i cui fini non sembrano proprio essere quelli della conoscenza».
«E’ la rivisitazione tecnologica delle tesi del buon vecchio Platone».
«Beh, sì, in parte, anche se rivisitate dall’ancestrale ripulsa che gli uomini di scienza in genere provano, o forse dovrei meglio dire ‘provavano’, per il potere. Comunque, rispondendo alla sua domanda, voglio dirle che io insegno matematiche e sono convinto che le scienze esatte siano un tirocinio doveroso per uno scrittore, poiché insegnano a fare a meno della vasta superficialità oggi tanto comune in letteratura, per scavare dentro i significati, le equazioni non sono mai troppo lunghe e qualunque calcolo che sia troppo lungo o complesso può – e deve – essere sottoposto alla semplificazione. In fisica, ad esempio, si è anche inventata la cosiddetta rinormalizzazione, ossia quando alcuni calcoli inerenti le particelle subatomiche tendono verso valori infiniti, allora si introducono ad arte alcune radici e così si riconduce il risultato ad un qualche numero ragionevole, e in matematica ragionevole sta per computabile. C’è anche un professore tedesco che, se non sbaglio, ha scritto un libro dal titolo simile e lo ha presentato qui ad Harvard qualche anno fa».
«Non è forse Die Lesbarkeit der Welt (La leggibilità del mondo) di Hans Blumenberg?»
«Sì, è giusto, proprio lui! Un uomo molto rigoroso nell’esposizione, sembrava più un matematico che un filosofo, credo sia morto qualche anno fa».
«Sì, credo anch’io. Così lei sposa la tesi della matematizzazione della letteratura?».
«Yep (modo informale per dire sì), intendendoci però sul fatto di considerare la matematica come un campo dove regna l’amore verso la struttura logica delle cose e non come una serie infinita di fredde astrazioni come l’uomo della strada è portato a credere. Se guarda le opere dei grandi pensatori vedrà che sono strutturate secondo un ordine matematico, pensi a Spinoza, che costruisce l’Etica come un libro di geometria con postulata, propositio, demonstratio, corollarium, etc., una struttura matematica del pensare filosofico. Il romanzo, invece, nasce moderno, ossia tanto più diventa romanzo, e abbandona la commedia, la tragedia, l’opera buffa, il dramma e tutti quei generi nati principalmente per essere rappresentati, tanto più assume i caratteri della modernità. Non a caso Gargantua e Pantagruel è il primo romanzo della storia ed è un romanzo del Rinascimento, l’epoca che segna l’inizio della modernità, più che l’uscita da un presunto Medioevo. A questo proposito è significativo che l’oracolo del romanzo di Rabelais veda la soluzione dei problemi della vita in una sola parola “Trink”, “bevi”, una sorta di estetica materialista che trova non pochi collegamenti con i crassi miraggi del nostro tempo».
«Bisogna comunque aggiungere anche il Don Chisciotte insieme a Gargantua e Pantagruel».
«Ha ragione, anche Cervantes, guarda caso, propone l’idea dell’uomo spaesato che combatte contro i fantasmi del mondo travestiti, per gli altri, da mulini a vento. Io non sono sicuro che siamo noi ad avere ragione di Don Chisciotte e che i mulini a vento non siano, in realtà, proprio giganti che noi siamo capaci di vedere solo come mulini, i luoghi dove si macina il grano, l’elemento fondamentale di ogni economia, ma questo è un altro discorso e ci porterebbe forse troppo lontano».


© Sergio Caldarella, 2010.