Sunday, July 24, 2011

L’eclissi dell’Einzelmensch e la scomparsa degli unicorni






In un paragrafo della seconda parte dell’Essenza della Filosofia (Das Wesen der Philosophie, 1907) il filosofo storicista Wilhelm Dilthey intraprende una descrizione della “Struttura della società e collocazione, al suo interno, di religione, arte e filosofia” (almeno così recita l’intestazione del paragrafo). Nella sua disquisizione Dilthey, come altri suoi compari, procede spedito e perentorio e, in un passaggio sibillino, dichiara: «Il singolo uomo, come essere isolato, è una mera astrazione: legami di sangue, comunanza nel luogo di vita, relazioni di lavoro (nella concorrenza e nel lavoro comune, nei vari legami dal perseguire fini comuni), relazioni di potere nel comandare e nell’obbedire rendono l’individuo membro della società». Il modello umano e di società di cui Dilthey sembra si renda sostenitore e propagatore, fatto di legami, obbedienza e comando, lo si trova anche in altre teorizzazioni e, in tutte, il primo elemento destinato a scomparire è ancora il “singolo uomo”, der Einzelmensch, quello che in latino avrebbe magari avuto il nome di individuum, per far posto ad un modello di società dove il singolo uomo non ha più né posto né diritto d’esistenza, neppure ontologico. In questo mondo nuovo il singolo uomo deve eclissarsi, scomparire nell’orizzonte del Brave new world in cui si è tutti parte di un grande modello ben livellato, dove si perseguono fini comuni, relazioni di potere (che poi sono semplicemente relazioni ristrette al forcipe di comandare e obbedire) e si deve dunque essere tutti omologati verso quella presunta direzione comune decisa da quei pochi traviati da una volontà cieca e iniqua. Quelli che pensano di vivere per se stessi, ma alla fine non vivono per nessuno.

Con una frase dallo scrittoio, l’hegeliano Dilthey esegue l’esecuzione immateriale dell’Einzelmensch, descrivendolo come un’invenzione dei fumi di menti deviate dall’astrazione. I dittatori del Novecento passeranno invece a metodi meno teorici, eliminando materialmente quelli che non abdicando all’Odradek della società di massa, non si riconoscevano quali astrazioni di fantasmi in un mondo spettrale. Dilthey indica bene la strada per questa dissoluzione del Mensch nel Masse-Mensch (uomo massa), una dissoluzione contro la quale, agli albori della civiltà della tecnica già Rousseau, Stifter, Kierkegaard, Nietzsche, Thoreau e molti altri avevano invece ben messo in guardia.

Wilhelm Dilthey nasce nel 1833, dunque è di vent’anni più giovane di Kierkegaard e di undici più vecchio di Nietzsche, e trascorre una tranquilla esistenza da accademico scrivendo a più non posso sull’uomo, la società e der Staat (lo Stato). Egli è uno di quei troppi cattivi maestri in pannicelli caldi che hanno contribuito a costruire l’orrore sociale, umano e culturale di cui la nostra epoca è così imbevuta da non riuscire quasi più ad accorgersene.

Dalle parole dei cattivi maestri – volontari e involontari – tra Settecento e Ottocento si è dovuti passare attraverso due mostruose guerre mondiali e ferocissimi totalitarismi verticali per giungere al contemporaneo totalitarismo orizzontale che rappresenta solo il perfezionamento di quei meccanismi di controllo orizzontale già molto efficienti nelle società a totalitarismo verticale (in proposito è illuminante e consigliabile la lettura dell’ormai classico I persuasori occulti di Vance Packard).

Il totalitarismo verticale funziona, come appare già dal nome, dall’alto verso il basso: il Re, Imperatore, Capo, Duce, Führer, Segretario Generale, etc. comanda e tutti gli altri eseguono in ordine discendente. Il totalitarismo orizzontale è, invece, un tratto specifico e specioso delle epoche buie ed ha il suo centro nell’omologazione e nel controllo ideologico che il sistema pretende e impone da ognuno trasformandolo, lo si voglia o meno, in suo fattore agente - anche in questo caso la sola scelta possibile è quella tra obbedire o morire. Dante parlerà di costoro con la sua somma poetica ponendoli tutti nel canto terzo dell’Inferno come di quella gente «che par nel duol sì vinta» e Virgilio a lui risponde: «Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. (...) Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Coloro trasformati in fantasmi dalla loro stessa inedia spirituale sono anche i peggiori artefici di quel dominio silente che vuol imporre ad ognuno la stessa uniforme corporea e mentale. Il totalitarismo orizzontale è raffinato e suadente e certamente più pratico del totalitarismo verticale, anche se il risultato in sostanza non cambia: chiunque si opponga al modello dominante ne viene escluso e, in estrema ratio, eliminato silenziosamente o meno: basti pensare a quello che hanno fatto a Pasolini che aveva fatto della lotta all’omologazione una delle sue battaglie. Dilthey lo scriveva dalla sua comoda seggiola agli albori della Prima Guerra Mondiale: «Il singolo uomo, come essere isolato, è una mera astrazione» e come si potrebbe dunque considerare grave l’eliminazione di un’astrazione? O si può forse biasimare qualcuno che voglia ad ogni costo eliminare un unicorno?

Per tutti quelli rimasti che non sposeranno il Leviatano come luogo ove abdicare alla loro singolarità umana si apriranno i cancelli dei Lager, dei Gulag, dell’emarginazione e del silenzio. In altre parole: o riconosci di essere un fantasma oppure ti ci facciamo diventare noi.

La letteratura del Novecento spiegherà meglio della filosofia questa dissoluzione dell’uomo in un modello di società sempre più estranea all’umano, una società che vuol anzi trasformare l’umano in una “mera astrazione”. Per questo Hans Castorp, quando scende dal Waldsanatorium sulla montagna di Davos (dove oggi, per coincidenza sincronica, si tengono anche i grandi incontri dell’economia mondiale) non riesce più a riconoscere il mondo che aveva lasciato neanche un decennio addietro e, dall’altra parte, Bartleby di Melville, Oblomov di Ivan Aleksandrovič Gončarov, il Babbitt di Sinclair Lewis, Gregor Samsa di Kafka o Ulrich, ne L’uomo senza qualità, i quali, con metodi satirici, grotteschi o filosofici, cercano tutti di sfuggire ad un mondo che li vuol trasformare in vuote astrazioni. Il paradosso della società della tecnica creata, a suo dire, per servire al meglio l’uomo è che in essa proprio l’uomo non ha la tendenza a scomparire, ma deve forzatamente scomparire. E così i personaggi dei romanzi, ossia delle astrazioni, diventano quelli che, come voleva Pirandello nei Sei Personaggi, mostrano più realtà degli esseri umani a cui vorrebbe condurci la società della cogitatio caeca.

Nella notte di questa società contemporanea sembra sia quasi impossibile capire che la gravità dei problemi che affliggono il nostro mondo è profondamente umana e la scomparsa dell’individuo, e forse anche degli unicorni, è uno di questi sintomi: perdiamo sostanza e per questo diventiamo sempre più trasparenti.

Bartleby, il personaggio del racconto omonimo, diversamente dagli sciocchi umani in carne ed ossa che dicono sempre di sì alle assurdità ed ai capricci interessati del potere, si limita ad un “Preferirei di no, I would prefer not to”. Adolf Eichmann invece, come tutti gli altri “volenterosi carnefici” di ogni tempo e nazione, ai suoi ordini disumani obbedisce eccome: eccolo lì l’uomo senza astrazione, eccolo lì in divisa inamidata e in azione!

(Tratto da: Sergio Caldarella, L’eclissi dell’Einzelmensch e la scomparsa degli unicorni, in «Corsi e ricorsi», Rivista di Studi aperiodici, nr. VII, luglio 2011
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Sunday, July 17, 2011

Così è se vi pare


Dilettevoli le recenti dimissioni annunciate, in questi ultimi giorni, da Rebekah Brooks, già direttrice del tabloid “News of the world” e relative ad uno scandalo di intercettazioni. Pare che, nelle ultime ore, la signora sia anche stata arrestata e questo, invece, non diletta per nulla. Dico “dilettevoli” perché queste dimissioni hanno il solito sapore dei giochi e delle cose finte con le quali questo mondo nuovo ama trastullarsi. Se c’è una cosa che davvero non convince in questa nostra società del contrario sono proprio le sue finzioni, il voler anzi mostrare ad ogni costo qualunque finzione come realtà, lanciando finti problemi per convincere, in genere, quelli che sono già convinti.

Rebekah Brooks è forse l’ennesimo caprum emissarium di questa società fatta di quinte teatrali, specchi e parate. Quando si scopre il velo di uno degli innumerevoli orrori, falsità e atti di empietà che stanno alla base di un sistema del profitto e dell’annichilazione dell’umano, allora si grida allo scandalo perché, a dispetto di quello che sta nelle cantine, la facciata bisogna pur sempre tenerla pulita. Questo è però uno di quei tanti casi in cui il paradosso è fin troppo evidente. Sarà anche che questa Rebekah Brooks è quello di cui si dice – come avrebbe altrimenti potuto raggiungere gli alti vertici in un sistema sociale come il nostro se non fosse stata al livello della società di cui è parte? – ma questo “News of the world”, un tabloid di pettegolezzi e copertine scandalistiche, chi lo leggeva? Era forse la Brooks che ne comprava tutte le centinaia di migliaia di copie vendute? Certamente no. Se Rebekah Brooks è colpevole di essere ciò che è, non lo sono anche le centinaia di migliaia di lettori che provvedevano a decretarne il successo con il loro contributo individuale? Oppure quelli si salvano solo perché sono in tanti? Si racconta che Pilato era colpevole, ma quelli che hanno gridato "Barabba" a squarciagola, erano anch’essi senza colpa? Non è che la gente non sappia, finge soltanto di non sapere.
L’individuo omologato respira i codici non scritti della società in cui vive e per questo se nasce a Teheran sarà un fervente musulmano, a Roma un appassionato cattolico, a Manchester un fervente anglicano ed a Mosca un barbuto ortodosso. L’omologato, quello che sa sempre da che parte stare solo perché è la parte dove stanno tutti, è anche quello convinto di non avere colpe quando si tratta di una colpa o di un vizio condivisi dalla collettività. Quello che all’omologato interessa è assomigliare agli altri, perché così può convincersi di poter vivere senza colpa: una mattina grida “Duce, Duce” in piazza Venezia e, pochi anni dopo, se ne sta a contemplare lo stesso Duce appeso a testa in giù a Piazzale Loreto e in ogni circostanza si crede sempre senza colpa perché fa “quello che fanno tutti”. In ogni ambito, in ogni tempo, sotto ogni cielo, quello che all’uomo omologato importa è indossare l’abito che indossano tutti: “fare come gli altri”, ossia vivere a prestito. Impiccare un poveraccio su un patibolo al centro di una piazza è cosa deprecabile nella Roma di oggi, ma poco più di un secolo fa era ancora uno spettacolino cui portare i figli perché era proprio così che facevano tutti. Oppure poco più di un settantennio fa, in Germania, i pogrom di regime cui i soliti volenterosi partecipavano o facevano da spettatori diventavano effrazioni solo quando scannando la gente per strada si faceva troppo rumore. Anche in questo caso era quello che facevano tutti. Quello che davvero spaventa nella storia è che gli omologati non si tirano mai indietro davanti a nulla. Additare oggi l’ex direttrice di “News of the world” significa, per gli omologati, solo liberarsi della colpa scaricandola su una di loro: è lei la responsabile di tutto, loro si limitavano a leggere quello che questa tizia faceva scrivere. Peccato per Rebekah Brooks, aggressiva, rampante, sicura e in carriera, che è però finita tra le maglie dell’ingranaggio che tanto amava: lei, in sostanza, aveva solo fatto quello che fanno tutti.
(Sergio Caldarella)