Monday, December 1, 2014

Émile Cioran, ritratto di un pensatore

Émile Cioran, uno tra i più acuti pensatori dello scorso secolo, è uno su cui non si può scrivere nessuna biografia perché, durante la sua vita, ha fatto il possibile per allontanare da sé i biografi provando ad ingannarli nascondendosi, facendo finta di essere uno sfaccendato, un apolide, un uomo senza segni e senza segreti. Cioran diceva: «Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso», ben sapendo che non c’è altro modo di scrivere davvero se non questo. Come altri grandi autori della modernità, Émile Cioran faceva suo quel verso di William Congreve secondo cui «Esser nudi è il modo migliore per nascondersi» («No mask like open truth to cover lies, As to go naked is the best disguise», The Double Dealer, 1694). Gran parte dei paradossi formulati nelle poche interviste rilasciate da Cioran erano, in realtà, sottili prese in giro per quei pochi giornalisti che riuscivano a raccogliere le forze per salire le scale fino a quella soffitta al 21 di Rue de l’Odéon, nel Quartiere latino. In una di queste rare interviste arrivò a dichiarare a François Bondy: «La maggior parte del tempo non faccio niente. Sono l’uomo più sfaccendato di Parigi. Credo che in questo possa battermi soltanto una puttana senza clienti» (tema ripetuto anche nei Syllogismes de l’amertume: «Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi»). Nel dir questo, e riecheggiando il suo caro Oblomov, Cioran si schierava contro la follia reattiva del mondo contemporaneo che pretende di interpretare ogni cosa come il prodotto di una qualche azione ponendosi dalla parte di coloro che comprendono la mutua e radicale esclusione tra lavoro e libertà – volendo magari indicare che era proprio il suo essere “sfaccendato” a renderlo libero, mentre il mito del lavoro, creato per garantire la pigrizia dei pochi, in un modo o nell’altro, rende gli uomini schiavi micidiali (è stata già fatta osservare da altri l’ossessione per il “lavoro ben fatto” che dominava e dirigeva larga parte della mostruosa attività dei criminali nazisti e non solo). Non a caso, nel Précis de décomposition, il pensatore rumeno arrivava a scrivere proprio di un principio satanico della dignità del lavoro in cui, tradendo la vocazione dello spirito, l’uomo si consegna alla produzione e viene asservito ad una mansione professionale qualunque, finendo per rendersi irriconoscibile anche a se stesso. La tesi che Horkheimer e Adorno, con un rigore accademico d’altri tempi, avevano anticipato già dal 1947: “L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime” (Dialettica dell’Illuminismo), trova espressione in Cioran attraverso frammenti di pensiero che rifuggono l’articolazione strutturata che ne ingabbierebbe la forza e l’estro trasformando una serie di dichiarazioni filosofiche in una risposta politica. Charles Bukowsky, forse l’altro antieroe d’oltreoceano più vicino a Cioran, dichiarerà fulmineo in una delle sue poesie: «Fools create their own paradise. Gli scemi riescono a crearsi un paradiso tutto loro» (Days like razors, nights full of rats) e parlava di quella che gli economisti definiscono enfaticamente come “popolazione attiva”, come di una popolazione di “scarecrows”, “spaventapasseri”, cui anch’egli raccontava di aver partecipato per decenni: «you get caught in the structure of what you’re supposed to be (...) so for 50 years I was a scarecrow and now I am supposed to be a writer, si viene catturati nella struttura di ciò che si suppone di essere (...) così per 50 anni sono stato uno spaventapasseri omologato e ora dovrei essere invece uno scrittore» (Bukowsky in un’intervista sull’individualità).
Con il suo stile di vita e di scrittura, senza però coinvolgersi nel linguaggio politico di una parte o dell’altra, Cioran esorcizzava la religione del capitale che diviene il compimento di quella scempiaggine universale che vuol sempre trasformare l’uomo in cosa ed ha ridotto il mondo intero in un’immensa quanto tetra officina in cui, nell’asservimento universale prodotto da questo meccanismo satanico, pochi si rendono ancora conto della schiavitù e del giogo universale che incombe su ognuno percependone, al massimo, differenze di grado, ossia le differenze tra le posizioni nel gioco/giogo sociale creato e gestito dai pochi sempre e solo allo scopo di mantenere i loro miserrimi privilegi a discapito d’altri. Leggendolo con attenzione si sente, in Cioran, una certa eco del Contrat Social: «L’homme est né libre, et partout il est dans les fers. L’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene», ma egli è un Rousseau senza una causa o una volontà politica. Anzi, l’antipolitica di Cioran è sia “anticapitalista” sia “anticomunista” e demitizza la mitologia del lavoro tanto cara al sistema capitalista tanto quanto a quello dei Soviet – sul mito del lavoro basterebbe ricordare gli attacchi di Lenin nel suo discorso contro Oblomov del 1922, in cui ha certamente qualcosa di sospetto che un leader politico arrivi a prenderserla con un personaggio immaginario sol perché questi pratica l’arte dell’ozio! Con un originalissimo gambetto Cioran disvela, dunque, l’unitarietà del mitologema del lavoro dietro le quinte di ideologie apparentemente diverse come quella capitalista o dei Soviet! Cioran, rigettando completamente l’antica ideologia dell’ozio quale pater vitiorum – tenendo però lontana la sua presunta funzione apologeticamente creativa, come aveva invece provato a fare Bertrand Russell nel suo Elogio dell’ozio (In Praise of Idleness and Other Essays, 1935) – ma ponendolo come una tra le più elevate virtù dello spirito umano, smaschera e polverizza, con un sol colpo, le ideologie che sostituiscono l’Assoluto con l’assoluto minore del capitale o dei processi di produzione e il lavoro quale pietra angolare della realtà (Wirklichkeit) caro sia alla Praxisphilosophie sia all’ideologia capitalista in cui il lavoro viene propagandato come la rappresentazione sociale del diritto ad esistere. Nel Novecento, nessuno ha mostrato in maniera più radicale e in sottovoce, la singolare coincidenza tra marxismo e capitalismo con la sagacia di cui è stato capace Cioran. È allora evidente come alcuni vogliano presentarlo come un pensatore di destra, una categoria, come quella di pensatore di sinistra, tanto vuota quanto antiquata: destra e sinistra hanno senso solo nel contesto di una comune volontà di dominio in cui fazioni diverse, ma con fini comuni, si contrappongono nell’agone sociale utilizzando l’uno o l’altro discours, o terminologia, per condurre le masse sotto i loro vessilli e bandiere.

Prestando la dovuta attenzione a quello che le parole, pur negando, affermano (“O voi ch’avete gl’intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto queste coperte alte e profonde” (Inf. IX 61)), si palesa non una presunta pigrizia di Cioran, un autore che ha scritto, fin da giovane, opere d’immensa profondità teoretica, ma il suo sottile rigetto, teorico e pratico, di una società che, attraverso i suoi giochi e meccanismi contorti, vuol costantemente rendere l’uomo irriconoscibile anche a se stesso – come se lo scopo intrinseco della socialità contemporanea fosse quello di far rifuggire l’uomo dall’uomo, configurandosi, così, come il più pernicioso antiumanesimo mai generato dalla storia. Cioran intuisce immediatamente, già da giovanissimo, che non esiste una soluzione politica ai problemi dell’uomo della modernità e respinge, da subito, i giochi di questo mondo artato, nascondendo questo suo rigetto sotto i panni di un’apparente rinuncia alla vita – ecco il maestro che parla proprio attraverso quel che non dice – perché Cioran, con acume da artista e da poeta, ha amato la vita con un fervore che ne coglieva la grandezza in ogni istante vissuto. Una volta confidò a Costantin Noica: «Ascolta, non parlarne a nessuno, ma io amo molto la vita»; quale risposta sarebbe del resto possibile ad una società del contrario se non quella di mascherare l’amore per la vita proprio con il suo contrario? L’amore profondo che Cioran manifesta per la vita non è certo indirizzato a quel trascorrere di giorni schiacciati dal gioco determinato dai pochi che è proprio l’oggetto fondamentale delle sue invettive, ma all’esistenza libera e vera, la vita nell’essere in cui la cosa non coincide più con il valore e il valore di ognuno non è mai in ciò che fa, ma in ciò che egli autenticamente è: non per nulla i suoi personaggi preferiti, ed i suoi maestri, erano gente ai margini che non aveva mai scritto nulla, ubriachi, becchini o individui bislacchi e considerati folli, gente che faceva dell’essere l’esistere – due tra coloro che ebbero maggior influenza su di lui da ragazzo erano proprio il becchino e l’ubriaco di Răşinari, sua città natale. Cioran ebbe anche a dire che da una persona in un bar o da una portinaia che abbia pensato a lungo e intensamente sui grandi problemi della vita c’è infinitamente più da imparare che da un intellettuale infatuato di sé – c’è, anche in questo, una singolare comunanza tra Cioran e il già ricordato Charles Bukowsky. Cioran non veste nessuna livrea e non tira fuori soluzioni dal cilindro dell’intellettuale, non si oppone ai Signori del grande gioco, li lascia perdere e basta, limitandosi a vivere al margine della società degli affaccendati, ma al centro del suo universo di problemi e pensieri.
È singolare che, mentre questo pensatore di una grandezza ancora da indagare passava le proprie giornate e le notti a tessere rime di pensieri nei suoi quaderni, nessuno, tra i tanti minuscoli ciambellani delle tante accademie parigine abbia pensato di offrirgli, a suo tempo, la possibilità di condividere questo suo pensare in un’aula (ammesso che si fosse riusciti a convincerlo), mentre appena pochi decenni addietro Bertrand Russell e altri suoi colleghi si umiliavano (letteralmente) di fronte a Ludwig Wittgenstein per convincerlo a lasciare una baita norvegese in cui si era rintanato ed averlo a Cambridge. Lo sconcertante atteggiamento degli accademici contemporanei, oltre ad essere avvilente e ripugnante, rende anche impossibile rappresentare davvero la colpevolezza di questi ignobili ciambellani di fronte alle generazioni presenti e future per tutto quello che hanno sottratto e sottraggono alla cultura autentica che, sola, avrebbe ancora la possibilità di redimere la follia del mondo e salvare la nostra specie dall’autodistruzione. All’annientamento della cultura operato da questi stipendiati parrucconi Cioran risponde, invece, con lo sfoggio di una finta indolenza e attraverso l’uso del più esagerato paradosso: alla moglie di Ernst Jünger, che gli chiedeva da dove traesse il suo sostentamento, rispondeva di essersi abituato a vivere da manutengolo, mentre questi accademici dalle facce di palta che, con il loro blaterare bavoso arrivano a far stancare anche della parola, i veri papponi, le mezzetacche bardate di tocco e toga complici del meccanismo di dominio, quelli che si calano le braghe per un tozzo di pane muffito e legittimano, con i loro timbri sbavati, cerimonie da postribolo e pergamene, la barbarie e l’immane idiozia del nostro tempo, passavano per affaccendati! Quali inerrarabili paradossi impone la modernità! Come dovrebbe allora rispondere a questi riprorevoli paradossi un pensatore del calibro di Cioran se non con altri paradossi? Come si potrebbe altrimenti argomentare contro un’epoca che sembra abbia smarrito quel lento procedere di pensieri che accompagna l’argomentazione e si sbraca così facilmente in sofismi, paralogismi, propaganda e deliri di parole cieche? Al nostro tragico tempo, in cui nei cervelli c’è un allegro fiorire di gramigne, cosa potrebbe mai opporgli chi pensa se non la reclusione e l’esilio volontari? Ed è questo ciò che, infatti, avviene sotto gli occhi di tutti se proprio i più grandi e importanti nomi della cultura, a partire dall’Ottocento, sono degli esclusi dal mondo in cui vivono: Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Kafka, Pessoa, Chestov, Fondane, Caraco, Cioran, per limitarsi solo ad alcuni. Alla canaglia oggi arroccata nei dipartimenti universitari, nelle case editrici e nelle biblioteche, tutto questo non importa nulla, alle loro orecchie corrotte queste non sono neppure argomentazioni, a loro sta bene così e basta. Il futuro che questi abietti bravacci, questi sofisti da retrobottega, stanno costruendo – ed hanno già in larga parte realizzato – è quello di un mondo deprivato di qualunque contenuto spiritualmente autentico e profondo, una realtà depravata, dove solo l’ignoranza più volgare e la dimenticanza di sé possono avere spazio e parola. Le vite di pensatori autentici e fieri come Cioran, lontani e allontanati dalle aule e dall’accademia, sono una tra le prove più evidenti della corruzione cui hanno condotto la cultura contemporanea, rigettando i maestri e occupando le case del sapere trasformate in postriboli per i loro vizi, vezzi e mecenati. È proprio in questo lugubre scenario della cultura contemporanea che, nel 1977, Émile Cioran rifiutò il premio Roger-Nimier conferitogli per la sua opera, ed i 10.000 franchi associati al riconoscimento, questo anche per via del disgusto che gli provocava, come ebbe a dichiarare molti anni dopo, vedere come i vari intellettuali parigini fossero tutti impegnati in una squallida competizione per ottenere premi e conferimenti vari. Questo è uno dei tanti punti in cui Cioran mostra, con esemplare chiarezza, come il suo rifiuto del mondo sia di natura principalmente estetica – poiché, come già mostra Kant nella sua estetica, il disgusto può ben dirsi categoria profondamente estetica. Cioran arrivava anche a dire di provare una sensazione di “vomito” quando definiva il suo lavoro intellettuale come “opera”, ma questo non perché i suoi lavori non rappresentino una maestosa opera profondamente culturale, quanto a causa dell’abuso che si fa di termini come “opera” nella landa della pseudocultura dei parvenu che oggi passa per la cultura ufficiale. Cioran accettò solo il primo premio che gli venne conferito, il Rivarol nel 1949, solo poiché la levità di questo grande pensatore gli faceva ritenere un’impudenza, da parte di un autore sconosciuto, rifiutare un premio letterario e solo dopo aver meglio inteso i meccanismi della vita letteraria francese del tempo, che sono poi anche i meccanismi della cultura ufficiale contemporanea, aveva capito che accettare un Premio letterario di qualunque tipo rappresentava uno sgradevole atto di compromissione intellettuale. Molti notevoli esempi possono essere tratti dalla millenaria storia della cultura da Diogene di Sinope al filosofo cinese Wang Chong (ca. 27–100) o al poeta Tao Yuanming (365–427) il quale, disgustato dagli intrighi cui assistette, rifiutò di compromettersi per un tozzo di pane con le parole “rifiuto di inchinarmi come un servo in cambio di cinque misure di grano”. Lascia un sapore amaro osservare come oggi molti tra i commentatori di Cioran partecipino proprio di quell’ufficialità culturale che egli rigettava e disprezzava.

In Cioran si colgono le tracce di quei pensatori da lui amati quali Schopenhauer, Leopardi, Nietzsche o Spengler (vedi anche il recente volume L’agonia dell’Occidente, dal titolo giustamente spengleriano, che raccoglie le lettere tra Cioran e Wolfgang Kraus). Cioran intende la storia partendo dall’antistoria e così i popoli più fortunati, i popoli autenticamente eletti, sarebbero per lui proprio quelli che, come nel vecchio detto, non hanno storia, quelli che sono stati capaci di tenersi lontani dalla follia della storia. Similmente alla sua vita, in cui l’orrore di un mondo in mano alla malvagità ed alla mediocrità lo portò al ritiro da questo, Cioran propone una versione traslata di questo ritiro anche per la storia dei popoli: poiché la storia è il luogo della brutalità e della miseria degli uomini più miserevoli allora dirsi “fortunati” è dirsi ad essa estranei. È comprensibile la disillusione verso la storia o, per meglio dire, verso la specie umana che fa la storia, da parte di un pensatore post-nietzschiano e post-spengleriano passato attraverso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale: “Istoria universală nu e altceva decât o repetare de catastrofe în aşteptarea unei catastrofe finale, La storia mondiale non è altro che il ripetersi di catastrofi in attesa di una catastrofe finale”. La disillusione di Cioran verso l’uomo e la storia – tratto tipico di molti grandi pensatori – non nasce dalla sua spietata critica alla società contemporanea, ma dalla sua incapacità di comprendere il senso dell’andare degli uomini trasformati in spaventapasseri, in esecutori e manichini di un grande gioco di cui non vedono né la mano artefice né il senso e confondono il fare con l’agire o il sopraffare con la vittoria.
Nonostante la profondità del suo pensiero, quando Cioran osservava di aver scritto quindici libri sempre e solo su un unico tema, ossia la sua ossessione verso la futilità e la morte e che tutti gli altri problemi non hanno nessuna importanza – riecheggiando qui il Camus del Mythe de Sisyphe – egli indulgeva, in questo punto centrale del suo pensiero, in una dichiarazione che contiene quell’antica vanità dell’uomo la quale considera importante ciò che lo riguarda di più e, poiché la morte sembra riguardarlo più di ogni altra cosa, allora la vanità umana vorrebbe che questa fosse il problema più importante tra tutti. Anche in Cioran, a dispetto della sua teoresi, il principio secondo cui il problema della morte viene affrontato è quello dell’esorcismo secondo cui: “tutto ciò che è formulabile, diviene più tollerabile”, che è anche una terminologia dalla forte connotazione freudiana – Cioran ha dichiarato spesso che la formulazione scritta dei suoi pensieri ha avuto un’efficacia enorme contro la depressione che, a suo dire, lo ha afflitto per tutta la vita, anche qui nuovamente un topos fortemente freudiano. La ragione, attraverso i suoi dialoghi e confutazioni, cerca di rispondere alla morte, ma la morte non ha risposta alcuna perché non è un interlocutore e allora l’uomo di pensiero gli si erge di fronte e prova a sviscerare un mantra che allevi la sua pena verso la morte. All’età di ventuno anni Cioran già si definiva come un esperto sulla morte perché questo era un tema che lo toccava sin dalla giovanissima età quando, come raccontava, intorno agli otto anni giocava a pallone con dei teschi che gli venivano regalati dal suo amico, il becchino di Răşinari, una scena certamente macabra, ma dal contenuto già precocemente filosofico.

Cioran è uno che vuol vincere contro la vita stessa, scaraventare la morte fuori dalla vita attraverso un atteggiamento sprezzante e irriconciliabile con i tanti e vari artifizi del mondo. Questo non significa che egli abbia vinto la sua battaglia, Cioran sapeva benissimo che la sua era una tenzone che ammetteva solo la sconfitta. In età avanzata, poi, crollò di fronte all’inganno degli occhi mielosi di un’insegnante di filosofia di Colonia che, attraverso baci e abbracci, gli fece scoprire quella potenza primordiale e assoluta in cui si inseguono e abbracciano vita e morte o, come avrebbe detto proprio il grande viennese: eros e thanatos. L’inizio della fine e la fine dell’inizio. Come altri prima di lui anche Cioran viene apparentemente sconfitto dall’aver creduto a degli occhi belli, la dea primordiale e crudele di nome Amore lo pugnala per mano di una donna molto più giovane, ma il suo pensiero rimane e, come ogni grande pensiero, ergendosi ben oltre la penna che lo ha vergato, non contiene traccia della sua ultima sconfitta se non nel fatto che questa contribuì a dare il colpo finale al suo grido intellettuale, conducendolo alla rinuncia alla scrittura che egli motivava dicendo di essersi stancato di calunniare l’universo. Come ogni grande pensatore, l’ultimo schiaffo che Cioran ha dato alla morte è proprio quello di esserle passato attraverso.


(Sergio Caldarella, Émile Cioran, ritratto di un pensatore, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 190, Firenze 2014).