Thursday, June 18, 2015

Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz.

Ci sono libri che hanno determinato le coscienze di un’epoca e libri che, invece, vengono rigettati perché condensano il senso delle trasformazioni storiche nella silloge dei dolori, lutti e tragedie che queste epoche hanno portato e ospitato nel loro manto. I libri più belli, quelli che lasciano davvero tracce, sono quelli difficili da leggere e ancor più difficili da scrivere perché costringono l’autore e, conseguentemente, il lettore, a percorrere strade impervie tracciate dalle spine di antichi dolori che la memoria rigetta e il cuore riporta sempre a galla. Sono ormai troppi i grandi pensatori dello scorso secolo la cui voce è ormai quasi inudibile tra i corridoi della cultura ufficiale pesantemente lastricati dall’incultura della nostra epoca e Jean Améry è, senza ombra di dubbio, uno tra i più importanti intellettuali del Novecento ed è, allo stesso tempo, uno di cui non si sente quasi più il nome, nonostante ci abbia lasciato, in pochi libri, un grande patrimonio di pensieri ancora da pensare. Jean Améry, al secolo Hans Mayer, sopravvissuto alla più colossale mostruosità della nostra epoca, all’età di 65 anni, terminerà poi da sé, similmente a Primo Levi, compagno di baracca ad Auschwitz, quella vita che l’incubo nazista non era riuscito a distruggere. Il libro Intellettuale ad Auschwitz è un testo denso che è tanto un’interrogazione filosofica quanto un’esperienza, anzi, è un testamento filosofico dell’esperienza del male e dell’ingiustizia esperiti in prima persona. È un libro che, a prima vista, sembra parli della tortura e della deportazione ma, in realtà, è un grido di stupore intellettuale in cui l’autore, allibito, chiede, attraverso la scrittura, di render conto dell’antico tradimento dell’uomo verso l’uomo. Améry non ha qui scritto un trattato di filosofia accademica, ma ha voluto interrogarsi e interrogare sul significato del dolore e della tortura e sull’indifferenza con cui un uomo può infliggere dolore e morte ad un altro. Améry descrive la scoperta di una realtà in cui si entra non appena si riceve il primo pugno sul viso: “il primo pugno cambia tutto”. Dal momento in cui si finisce tra le grinfie dell’aguzzino, ossia tra le mani di uno degli innumerevoli esecutori sempre pronti e proni a eseguire il volere dei pochi con la feluca o la corona sul capo, il mondo in cui si era vissuti diventa un altro mondo, una realtà le cui porte si spalancano, con clangore ferrigno, sulla brutalità e indifferenza degli uomini, un mondo troppo lontano da quei sogni che avevano avvolto l’intellettuale prima di venire incarcerato e torturato dalla Gestapo e dagli aguzzini di Auschwitz, in una descente aux enfers in cui il reale assume il ghigno della più contorta follia. La nostra è un’epoca indifferente all’ingiustizia e, proprio in questo suo tratto, si configura come un’epoca diretta alla distruzione. L’enigma della grande prova è, allora, quello di riuscire a intravedere tra le maglie della brutalità dei tempi e capire se il mondo vero sia quello dell’esecutore, del malvagio che impugna saldamente lo stiletto o la clava e si erge come ferale nemico del suo prossimo, o se la realtà autentica sia proprio l’esatto contrario di quanto la forza del male vuol provare ad imporre. Questa è una domanda che Améry affronta con tutta la serietà che questa merita, ma alla quale non riesce a fornire risposta alcuna perché sulle carni gli bruciavano ancora le ferite inferte, mentre qualcosa in lui testimoniava di un mondo che rigetta il carnefice attraverso il pensiero in cui si riconoscono solo gli uomini e non i mostri o le bestie che sanno infliggere solo dolore, tortura e morte.


(© 2015, Sergio Caldarella)

Saturday, June 13, 2015

The invisible corruption of the human soul

                                                  

Tzu-kung, disciple of Confucius, after travelling to Ch’u in the south, came back by way of Chin. When he was passing through Han-yin he saw an old man who was engaged in irrigating his vegetable plots. The way this old man did it was to let himself down into the well-pit by footholes cut in the side and emerge clasping a pitcher which he carefully emptied into a channel, thus expending a great deal of energy with very small results.
   “There exists,” Tsu-Kung said to him, “a contrivance with which one can irrigate a hundred vegetable plots in a single day. Unlike what you are doing, it demands a very small expenditure of energy, but produces very great results. Would you not like me to tell you about it?” The gardener raised his head and gazed at Tsu-Kung. “What is it like?” he asked. “It is an instrument carved out of wood,” said Tsu-Kung, “heavy behind and light in front. It scoops up the water like a bale, as quickly as one drains a bath-tub. Its name is the well-sweep.” A look of indignation came into the gardener’s face. He laughed scornfully, saying, “I used to be told by my teacher that where there are cunning contrivances there will be cunning performances, and where there are cunning performances there will be cunning hearts. He in whose breast a cunning heart lies has blurred the pristine purity of his nature; he who has blurred the pristine purity of his nature has troubled the quiet of his soul, and with one who has troubled the quiet of his soul, Tao will not dwell. It is not that I do not know about this invention, but that I should be ashamed to use it.”

(Chuang Tzu)