Sunday, January 22, 2012

Paradossi del bene individuale vs bene collettivo


1. Il labirinto della modernità.
La politica, almeno secondo una sua interpretazione classica, è l’arte di governare la polis secondo i criteri del bene comune da cui dovrebbe poi discendere il bene individuale che è, come avvertiva Alessandro Manzoni, un sottoprodotto del bene collettivo: «si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio». Porre una gerarchia tra bene collettivo, prima, e bene individuale, dopo, spiega perché un vago concetto del bene comune e un’opinione egotistica del bene individuale producano, socialmente, un paradosso ed una sostanziale debolezza nella progettualità politica indirizzata al bene collettivo operando una pericolosa trasformazione dal bene all’interesse.
Se il politico riesce a conquistare consenso parlando alla gente del suo ristretto interesse individuale, quando dovrebbe invece proporre il più ampio bene comune, è più o meno evidente che il suo progetto mira alla sola conquista del potere. Il populista, colui che non soltanto usa le masse ma le aizza, è solo l’espressione estrema di un’impostazione in cui gli elettori vengono assecondati e manipolati secondo criteri ristretti. Nell’Italia degli ultimi vent’anni si sono anche dati nomi immaginari come la Padania solo per assecondare le ristrettezze di vedute di una folla elettorale e si tratta pur sempre, mutatis mutandis, della solita strategia utilizzata da valvassori, tirannelli plebiscitari o meno e politicanti per compiacere certi spiriti bottegai.
Il politico deve certamente interagire con le masse e, per far questo, deve anche potersi esprimere in una lingua che esse intendono e questa è, in particolare nelle epoche buie, la sola lingua del presunto interesse individuale. Il prevalere di questa situazione genera il paradosso di una progettualità politica costruita su un ristretto concetto del bene individuale e quasi del tutto incapace di volgersi al bene collettivo. La contraddizione generatasi tra il bene collettivo e quello individuale è diventata, nel labirinto della modernità, uno tra i più pericolosi paradossi della politica. La sostanziale pochezza del nostro tempo continua ad interpretare l’azione politica nel gioco/giogo con cui i vari patriziati ingannano le moltitudini e manipolano il mondo e nello strumento attraverso cui individui di scarsa sostanza raggiungono i più alti livelli di gestione della società: Mussolini o Andreotti, Bush o Berlumponi, Bossi o Scilipoti, la storia continua a ripetersi, anche se verso il basso. In questo scenario, la borghesia che ama credersi classe dominante si palesa invece solo come una classe di controllo preposta a determinate funzioni di controllo e gestione sociale.

2. Homo reciprocans vs Homo economicus.

Nell’opinione collettiva, a dispetto delle belle parole di cui il primate umano ama circondarsi per abbellire le sue consuetudini ed i suoi vizi, il bene individuale ha sovente coinciso con la preservazione/riproduzione, il possesso, l’espansione egotistica ed un vago concetto lontano e nebuloso del bene collettivo. Il pensiero platonico, nel tentativo di dirimere quest’arbitrarietà e muovendosi nella direzione opposta all’opinione comune, era intensamente occupato nella ricerca dell’Idea del Bene, quel supremo principio anipotetico (ep'archên anupotheton) che resiste ad ogni confutazione (dià panton elenchon diexion VII, 534 B-D) e può così indicare la giusta via contro l’opinione bieca e brutale degli uomini pratici, quelli che si muovono a loro agio nella terra oscura del non-essere, “si azzuffano per delle ombre e sono in conflitto perpetuo per il potere” (520 D). L’acume e la radicalità con cui il pensiero platonico individua ed affronta i problemi della polis, lascia anche intendere le ragioni per le quali tale pensiero possa essere considerato pericoloso dai patriziati per i quali le società umane sono unicamente uno strumento per la realizzazione delle loro basse pulsioni.

La confusione tra il concetto di bene individuale e bene collettivo genera, oggi come in passato, una specifica situazione di conflittualità in tutte le società. Nel caso particolare della strabiliante situazione contemporanea, la profonda confusione a livello individuale è anche prodotta da un depotenziamento del significato che si manifesta, con forza, nella trasposizione del vivere nella sola dimensione del consumo e del possesso e dall’assenza di un orientamento esistenziale che non sia sotto ogni aspetto darwiniano o pseudotale. Da qui deriva la grottesca logica della competitività con la quale si pretende e presume di misurare le società e le vite degli uomini, nonostante la storia insegni la lezione secondo cui le collettività che riescono meglio sono quelle in cui prevale la cooperazione e non la competizione. Kropotkin farà di quest’argomento la tesi centrale del suo Il mutuo appoggio (1902). L’uomo, quando è uomo, è fatto per cooperare, non per competere: homo homini deus è un motto più autenticamente umano del brutale homo homini lupus.
Gran parte della gente (quelli che Eraclito, ma non solo, definiva come gli οἱ πολλοί, i molti), è purtroppo costantemente impegnata nella semplice autoconservazione – anche quando questa è garantita e darebbe loro la possibilità di investigare altri orizzonti – da non aver tempo o voglia per nient’altro. Questi molti sono anche i molto ingannati, ma non bisogna credere che siano per questo innocenti. È fuor di dubbio che per mantenere il loro potere e raggiungere i loro piccoli fini i vari Mussolini, Andreotti, Berlusconi e loro compari e consimili, hanno ingannato e ingannano gli italiani, ma al tempo stesso la maggioranza degli italiani si lascia ingannare in un complesso gioco di taciti consensi e ammiccamenti. Quando Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti solo gli sciocchi e gli ingenui credevano che l’Italia fascista potesse vincere contro l’America e nel 1941, all’annuncio della dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, il giornalista Giovanni Ansaldo commentò: “Ma il Duce l’ha mai visto l’elenco telefonico di New York?”. Per altro verso, però, i vari gerarchi credevano che, con qualche stratagemma, uno dei soliti, si sarebbe riusciti a farla franca anche in quel caso e se il Paese non vi fosse riuscito loro avrebbero pur sempre potuto cambiare camicia come poi fecero.

Pochi sono coloro che agiscono in conformità a quello che ritengono giusto mentre i molti pensano sempre di agire per quello che ritengono conveniente a se stessi ed è da questa banale confusione tra bene collettivo e bene individuale che sorgono gran parte delle catastrofi sociali che affliggono la nostra specie. È impossibile pensare davvero al bene individuale senza pensare prima al bene collettivo, da qui il paradosso di una società in cui si vuol partire dal bene individuale per creare il bene comune invece di seguire il percorso opposto.

3. Il pluralismo monista

La società contemporanea è riuscita nel creare un sistema che, a molte delle epoche che ci hanno preceduto, sarebbe sembrato impossibile o grottesco, è ossia riuscita nella creazione di un paradossale “pluralismo monista”: una società globale e apparentemente pluralista in cui tutti i popoli sono liberi di perseguire unicamente gli stessi fini. L’omologazione è così diventata a tal punto parte organica del sistema, che in pochi osano andarle contro. Quello che maggiormente stupisce è che, fino a quando alla gente vengono dati dei contentini materiali, questa è disposta a sottostare a ciò che alcuni chiamerebbero il “giogo dell’omologazione”; Josif Brodskij, con la lucidità dei poeti, scriveva in proposito: «un uomo liberato non è ancora un uomo libero».
Il pluralismo della società globale contemporanea, invece di fornire all’individuo maggiori opportunità di partecipazione e contributo (come vorrebbe Adrian Oldfield) pare renda invece impossibile una partecipazione diversa dai fini prestabiliti e sanciti dal suffragio universale omologato. In un certo modo questo ci riporta nuovamente al paradosso del bene individuale ed all’impossibilità, creata dall’omologazione, di veicolare un messaggio che trascenda fini immediati e particolari. Abbindolati dai paradigmi dell'esistente si finisce per seguire quello che Aristotele definiva come phainomenon agaton, il bene apparente.

4. Communitas vs societas

Le società così come le conosciamo sono, del resto, qualcosa di relativamente recente: la societas degli antichi è più “comunità” che “società”. La communitas ha basi etnico-culturali, mentre la società ha un fondamento civico, ossia indipendente da fattori storico etnico-culturali. Per i Greci la base della convivenza era la polis, ossia una comunità-città-Stato formata da tutti coloro che vi appartenevano per nascita e ceto (schiavi o stranieri non erano parte riconosciuta della polis). I Romani, anche per le ragioni legate alla struttura politica di un vasto impero, passeranno dalla città-Stato alla res publica e questo è già un grande salto concettuale: se i Greci appartengono ancora al grande reame dell’antichità, i Romani sono già “moderni” e la società occidentale è, purtroppo, la diretta erede più del sistema romano che di quello greco. E’ una scelta opinabile quella di tradurre la Politeia platonica con il latino Res publica in quanto i due concetti non hanno una sincera corrispondenza diretta. Ancora più incerto ritenere che la Res publica romana abbia una qualche relazione con qualsivoglia concetto di Repubblica in senso moderno.
I Romani, nell’estensione del loro Impero, erano pur sempre una communitas estesa basata sulla civitas, la quale aveva già un dominio di applicazione etnicamente più esteso rispetto alla polis. Famosa l’invocazione di Saul di Tarso della sua cittadinanza romana per porlo nella cerchia di giudizio dei conquistatori: Civis Romanus sum. Un retaggio di queste epoche lo si ritrova ancora nel sintagma Blut und Boden, Sangue e suolo, che congiunge lo ius sanguinis con lo ius soli e verrà poi utilizzato nelle terribili ideologizzazioni dello scorso secolo.
La principale differenza tra societas e communitas è che una società è dominata/controllata dalle sue classi tanto quanto la comunità è controllata dalle sue etnie maggioritarie. In entrambe i casi abbiamo modelli sociali che tendono al conflitto: classe contro classe o etnia contro altra etnia. Il grande Platone spiega come evitare questi paradossi con frasi semplici e meravigliose: «potrai avere uno Stato ben governato solo se riuscirai a trovare, per chi vorrà governarlo, un modo di vivere migliore del potere stesso». Ma la modernità, armata dei suoi paradossi e delle sue idiote finzioni, preferisce dare al sommo Platone l’epiteto di “nemico della società aperta” e “falso profeta dell’umanità” (Popper, 1944). La quantità di scelleratezza, arbitrio, hybris e ignoranza che bisogna applicare al sommo Platone per leggerlo in questo modo è ancora un altro sintomo e segno dei tempi: o tempora, o mores!
A questo punto della storia umana parrebbe lecito chiedersi perché, a dispetto di tutti i grandi annunci, le rappresentazioni, la propaganda, le dichiarazioni ufficiali e di principio, una società migliore (nel senso di una società autenticamente umana) non è ancora stata realizzata e non sembra quasi neppure all’orizzonte? Forse perché siamo in maggioranza esseri brutali, insicuri e primitivi, troppo dipendenti psicologicamente dal gruppo e ad appena un passo dalla scimmia? Perché nonostante millenni di storia non siamo ancora capaci di comprendere la brevità della vita mortale ed elevarci al di sopra delle piccolezze e banalità del quotidiano? Se il pensiero del limite dell’esistenza fosse più presente dietro le scelte e il rapporto con gli altri, sicuramente pondereremmo ben diversamente la vita e l’esistente. Essendo, però, animali primitivi, siamo anche animali gregari e in balia del più determinato tra noi che, sovente, è anche il più primitivo e brutale. Ed è costui che, nella storia, ha infaustamente diretto il nostro destino collettivo. Basta che un individuo dalla psiche contorta e stravolta vesta i panni giusti e cominci a gridare “seguitemi” e sono quasi tutti pronti a credergli e ad andargli dietro. Così, quando le moltitudini trasformano il mondo in una distesa d’immenso vuoto, non rimane più nessun luogo dove poter ancora scappare.

(Sergio Caldarella, Paradossi del bene individuale vs bene collettivo in «Marginalia» genn. 2011)

Sunday, January 15, 2012

La schiavitù della libertà


La libertà è una prigione le cui colonne affondano nei territori più remoti del desiderio umano di librare le sue ali di cera sopra l’orizzonte della necessità, una follia che s’impossessa dell’uomo costringendolo alla solitudine dell’una o l’altra delle sue manie o desideri. Un impulso, dettato dall’inquietudine, a seguire una retta invisibile.
Quella che viene chiamata “libertà” è, sovente, la schiavitù alle instabili precessioni del sé. Anche per questo libertà e liberazione saranno sempre diverse e, forse, anche opposte tra loro: la prima incatena alla volontà, mentre la seconda spezza le catene della paura. Krishnamurti diceva che ogni scelta è una limitazione della libertà, cosicché già nello scegliere c’è una fondamentale imposizione contraria alla libertà. La liberazione, invece, non si esaurisce nel dualismo incompleto di scelta o non-scelta. Si raggiunge il fuoco solo al costo di scoprire che brucia, per questo il prezzo della liberazione si chiama dolore.
I mistici hanno da sempre conosciuto l’altra via della libertà, ossia l’asservimento volontario ad un principio superiore attraverso cui giungere alla liberazione dalle costrizioni del sé. Per il mistico la libertà consiste nell’obbedienza ad un supremo principio etico dove la sola libertà è nel perdersi, “luce nella luce”, in una verità di ordine superiore.
L’uomo moderno, nato sotto il segno dell’asservimento al più astuto, non crede nel principio etico, quanto nell’imperativo etico: spesso si preferisce infatti dire “è doveroso” al posto di “è giusto”. Un principio sorge con naturalezza, sgorga come le acque delle quali Lao-tzû farà il simbolo impronunciabile del Dao, mentre un imperativo, come ogni altra imposizione, possiede una forza impropria e innaturale. C’è qui la stessa differenza che troviamo tra autorità e autorevolezza: la prima dev’essere imposta, l’altra invece sorge spontanea ed è rispettata perché degna di rispetto, non perché ne viene temuta la forza e le conseguenze del dissenso. Il dovere morale (moralische Pflicht), ad esempio, presuppone, e in un certo senso implica, la possibile costrizione (Zwang) come via per la sua attuazione, mentre il principio morale non impone alcunché ed è poiché proviene dal giusto che conduce naturalmente al retto agire. Il grande Socrate ribadiva infatti che gli uomini commettono il male solo perché non conoscono il Bene e questo significa anche che la conoscenza autentica del Bene implica la naturale aderenza ad esso. Il concetto dell’aderenza naturale è anche un tratto fondamentale del pensiero sapienziale di oriente e occidente e nel taoismo arriva persino a diventare parte dell’architettura: templi e case taoiste vengono infatti costruiti in modo da non disturbare o interferire con la natura circostante, così se la roccia alle spalle della casa ha una determinata forma, anche il tetto dell’edificio seguirà quella determinata curva come se fosse la continuazione del profilo di quella roccia.

Colui che vive sotto la schiavitù della libertà ha paura di perdersi in qualcosa che superi e oltrepassi la misura dell’ego. Il mistico, al contrario, cerca proprio la fusione con l’assoluto perché, avendo compreso la schiavitù della libertà, ha anche compreso l’illusorietà del sé e così non può temere la perdita di un’illusione. La morte non incute alcun timore al sapiente o al mistico, mentre terrorizza lo schiavo della libertà che vive nel reame della grande solitudine della libertà la quale, per sua natura, impone la separazione. L’acqua è libera poiché segue senza costrizione alcuna il profilo delle cose, così come il cuoco Ting riesce a tagliare perfettamente il bue solo quando è capace di non vederlo più, quando il suo coltello coglie gli interstizi tra le ossa e le giunture, seguendone il loro corso naturale. Quando il cuoco Ting iniziò il suo lavoro, altro non vedeva se non il bue intero, dopo tre anni ne vedeva solo la metà e alla fine, quando imparò a squartare senza nessuno sforzo, passando il coltello nell’unico punto giusto, egli non vedeva più il bue, agiva attraverso il non-agire (wu wei), il cuoco taoista raggiunge quel punto dell’illuminazione in cui la sua mano viene agita dal non agire seguendo, così, il flusso naturale delle cose. Uno tra i cardini del pensiero orientale è proprio quest’agire senza l’azione, una passività apparente che si realizza più compiutamente di un agire al quale si contrappongono i moti del mondo. Il wu wei è un agire senza l’azione che aggira quel paradosso della libertà cui accenna Krishnamurti.

Forse non si è ancora riflettuto abbastanza sul fatto che i momenti più intensi e veri della vita umana provengono proprio dalla cancellazione della libertà (non dalla fuga da essa) e dal conseguente abbandono alla liberazione; cosa ne sarebbe, ad esempio, del sentimento d’Amore se in esso si volesse continuare a vivere la separazione richiesta dalla libertà? L’Amore, quando è grande e vero, non è solo desiderio di fusione nell’altro, ma anche una rinuncia alla libertà di essere un’anima sola e separata per vivere nell’anima dell’altro, una fusione e un totale abbandono di corpo e spirito nell’essere amato, uno scambio di una parte di sé con una parte della persona amata. Per questo nella separazione dall’amata c’è sempre un sapore di morte, la morte di quella parte di noi che esisteva fuori di noi.

La terrificante scomparsa del sentimento d’Amore nella società contemporanea non è dovuta unicamente al solito scellerato materialismo da due soldi di cui il nostro mondo è pateticamente imbevuto ma anche, in larga parte, dall’incapacità di rinunciare alla schiavitù della libertà che, in ultima analisi, diventa una servitù verso le cose e le regole del mondo. La passione autentica libera dalle catene delle costrizioni e delle convenzioni e se non sai scegliere tra il sentimento che scuote la vita e la tranquillità delle convenzioni e delle piccole cose, allora non sai ancora neppure amare (e la scelta in Amore differisce da ogni altra scelta poiché unisce invece di separare). L’Amore trova davanti a sé qualcosa di infinitamente più grande delle convenzioni e delle cose. L’amato desidera al di là di ogni misura possibile. Nell’Amore vero nulla conta se non la passione ed esso non può esser reso nei termini di una misura, perché l’assoluto conosce solo l’incommensurabile.

Quando ci si libera dalle costrizioni dell’ego che sono, poi, in larga parte, costrizioni dettate dalla natura materiale, si raggiunge un punto in cui, avendo abbandonato le costrizioni della libertà, tutto risulta allora possibile. Un punto in cui, anche i legami nascosti diventano palesi ed ogni paura che attanaglia lo spirito umano non è più neppure un ricordo lontano. Questo è il segreto di Tertulliano certum est quia impossibile est (De Carne Christi, V) e della Regina in Alice nel Paese delle Meraviglie: «sometimes I’ve believed as many as six impossible things before breakfast, Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». La capacità di credere nell’impossibile è proprio il dono di coloro che sono stati in grado di andare oltre la schiavitù della libertà.
La libertà ci rinchiude nell’innaturale separazione tra noi e gli altri e, in seguito, nella separazione tra noi e il mondo, mentre la liberazione, mostrando il volto autentico della vita, spezza le catene della paura e dell’egotismo consentendo lo sguardo verso orizzonti ignoti a coloro che abitano tra le ombre e le catene della libertà.

(Sergio Caldarella, L’esclavage de la liberté in Les Cahiers Du Collège De Pataphysique N° 97: Nouvelle Série)

Sunday, January 8, 2012

Il caso e la scrittura


Scrittori e poeti, quei pochi rimasti, intrattengono da sempre una curiosa lotta con il reale ed in quest’impari tenzone la loro penna diventa una spada su cui appuntare tutte quelle sbavature che il mondo, nonostante il suo sghembo andirivieni, non riesce a coprire per intero. Può trattarsi di uno stormo d’uccelli in una fredda mattina d’autunno, di un fiocco di neve che rifiuta, ostinatamente, di sciogliersi nella notte o di una farfalla che spunta inaspettata e vola come eseguendo un rito curioso, ma è in questi piccoli eventi che lo scrittore trova segni che ad altri sfuggono e lo portano, come un segugio d’altre realtà, ad investigare la natura del significato apparente dietro le cose.
Per lo scrittore nulla accade “per caso” e per alcuni autori, forse i più estremi, tutto, ma proprio tutto, accade proprio perché doveva accadere, come se per il solo fatto di scrivere lo scrittore vedesse anche se stesso e il mondo come elementi di un’immensa trama. Shakespeare lo dichiarerà senza mezzi termini nell’atto secondo di As You Like It: «All the world’s a stage, / And all the men and women merely players: / They have their exits and their entrances; / And one man in his time plays many parts, Il mondo intero è un palcoscenico, / E tutti gli uomini e donne semplici attori: / Hanno le loro uscite e le loro entrate in scena; / Ed un uomo, durante la sua esistenza, recita molte parti».

Lo scrittore è un ladro di verità e scovare sempre connessioni tra cose ed eventi è parte inscindibile del mestiere di scrivere. Una scrittura che non si accorga di questi significati che occhieggiano da eventi apparentemente senza collegamento è capace di narrare solo piccole cose, una scrittura piccola per un piccolo mondo fatto solo di piccoli uomini e di piccoli eventi. Se c’è proprio un elemento fondamentale nella scrittura è quello di investigare la ragione che muove, o sembra muova, gli umani eventi, una ragione che sfugge agli occhi distratti o offuscati dalla nebbia del mondo. Omero, il primo narratore dell’Occidente, dietro le crudeli lotte degli uomini vedeva la danza di dèi antichissimi e con questo spiegava, a suo modo, i capricci del mondo. La cultura contemporanea che si crede tanto lontana da queste antiche narrazioni spiega il mondo diversamente, ma lo spiega anch’essa con una narrazione dove al posto degli dèi ci sono cose, macchine e denari ma alla fine, anche questa curiosa cultura del nostro tempo, ha pur sempre bisogno di qualcuno che racconti una storia, qualunque essa sia. Ogni cosa è, del resto, una prova di qualcos’altro. La teoria degli insiemi insegna che anche un insieme vuoto ({ }), il grado zero degli insiemi, è ancora un insieme e in sanscrito lo zero può essere, a seconda dei casi, vuoto (sunya) o pieno (purna). Pare proprio che, a dispetto dei piccoli sogni dei materialisti, vi sia nelle cose sempre molto più di ciò che appare.

Lo scrittore non guarda, vede, e questa non è una sua dote precipua, ma una prerogativa propria e intima della scrittura. Per scrivere bisogna dapprima concentrarsi su cose ed eventi e, come ben sanno quelli che da bambini passavano ore a fissare una bottiglia, un rocchetto, un tappo di bottiglia o un rospo che non voleva gracidare, le cose, a forza di venir fissate, perdono il loro contorno e cominciano a rivelare una natura diversa e ambigua. È come se, a forza di concentrarsi su qualcosa, essa iniziasse a svanire, mostrando una realtà che stava proprio lì, davanti a noi, e bastava solo guardar meglio per trovarla. Solo i bambini conoscono questi grandi segreti del mondo e lo scrittore è colui che ha ancora abbastanza memoria per ricordare quell’epoca in cui tutto appariva nella sua apparenza e lo sguardo sapeva sempre leggere quello che si celava dietro il manifestarsi del reale: ad un bimbo basta disegnare un paio di quadranti e indicatori in un cartone vuoto per trasformarlo in una fantastica astronave per viaggi verso galassie immensamente lontane, oppure raccogliere su una spiaggia un paio di sassi lisci e colorati per farli diventare tesori perduti da Achab o dal Capitano Nemo. Quello che fa lo scrittore o il poeta è ricordare la freschezza di quello sguardo passato e utilizzarlo, come una lente, per smascherare la patina che il tempo dipinge sul mondo.

(Sergio Caldarella, Il caso e la scrittura, pubblicato in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n.178, 2012)