Sunday, January 15, 2012

La schiavitù della libertà


La libertà è una prigione le cui colonne affondano nei territori più remoti del desiderio umano di librare le sue ali di cera sopra l’orizzonte della necessità, una follia che s’impossessa dell’uomo costringendolo alla solitudine dell’una o l’altra delle sue manie o desideri. Un impulso, dettato dall’inquietudine, a seguire una retta invisibile.
Quella che viene chiamata “libertà” è, sovente, la schiavitù alle instabili precessioni del sé. Anche per questo libertà e liberazione saranno sempre diverse e, forse, anche opposte tra loro: la prima incatena alla volontà, mentre la seconda spezza le catene della paura. Krishnamurti diceva che ogni scelta è una limitazione della libertà, cosicché già nello scegliere c’è una fondamentale imposizione contraria alla libertà. La liberazione, invece, non si esaurisce nel dualismo incompleto di scelta o non-scelta. Si raggiunge il fuoco solo al costo di scoprire che brucia, per questo il prezzo della liberazione si chiama dolore.
I mistici hanno da sempre conosciuto l’altra via della libertà, ossia l’asservimento volontario ad un principio superiore attraverso cui giungere alla liberazione dalle costrizioni del sé. Per il mistico la libertà consiste nell’obbedienza ad un supremo principio etico dove la sola libertà è nel perdersi, “luce nella luce”, in una verità di ordine superiore.
L’uomo moderno, nato sotto il segno dell’asservimento al più astuto, non crede nel principio etico, quanto nell’imperativo etico: spesso si preferisce infatti dire “è doveroso” al posto di “è giusto”. Un principio sorge con naturalezza, sgorga come le acque delle quali Lao-tzû farà il simbolo impronunciabile del Dao, mentre un imperativo, come ogni altra imposizione, possiede una forza impropria e innaturale. C’è qui la stessa differenza che troviamo tra autorità e autorevolezza: la prima dev’essere imposta, l’altra invece sorge spontanea ed è rispettata perché degna di rispetto, non perché ne viene temuta la forza e le conseguenze del dissenso. Il dovere morale (moralische Pflicht), ad esempio, presuppone, e in un certo senso implica, la possibile costrizione (Zwang) come via per la sua attuazione, mentre il principio morale non impone alcunché ed è poiché proviene dal giusto che conduce naturalmente al retto agire. Il grande Socrate ribadiva infatti che gli uomini commettono il male solo perché non conoscono il Bene e questo significa anche che la conoscenza autentica del Bene implica la naturale aderenza ad esso. Il concetto dell’aderenza naturale è anche un tratto fondamentale del pensiero sapienziale di oriente e occidente e nel taoismo arriva persino a diventare parte dell’architettura: templi e case taoiste vengono infatti costruiti in modo da non disturbare o interferire con la natura circostante, così se la roccia alle spalle della casa ha una determinata forma, anche il tetto dell’edificio seguirà quella determinata curva come se fosse la continuazione del profilo di quella roccia.

Colui che vive sotto la schiavitù della libertà ha paura di perdersi in qualcosa che superi e oltrepassi la misura dell’ego. Il mistico, al contrario, cerca proprio la fusione con l’assoluto perché, avendo compreso la schiavitù della libertà, ha anche compreso l’illusorietà del sé e così non può temere la perdita di un’illusione. La morte non incute alcun timore al sapiente o al mistico, mentre terrorizza lo schiavo della libertà che vive nel reame della grande solitudine della libertà la quale, per sua natura, impone la separazione. L’acqua è libera poiché segue senza costrizione alcuna il profilo delle cose, così come il cuoco Ting riesce a tagliare perfettamente il bue solo quando è capace di non vederlo più, quando il suo coltello coglie gli interstizi tra le ossa e le giunture, seguendone il loro corso naturale. Quando il cuoco Ting iniziò il suo lavoro, altro non vedeva se non il bue intero, dopo tre anni ne vedeva solo la metà e alla fine, quando imparò a squartare senza nessuno sforzo, passando il coltello nell’unico punto giusto, egli non vedeva più il bue, agiva attraverso il non-agire (wu wei), il cuoco taoista raggiunge quel punto dell’illuminazione in cui la sua mano viene agita dal non agire seguendo, così, il flusso naturale delle cose. Uno tra i cardini del pensiero orientale è proprio quest’agire senza l’azione, una passività apparente che si realizza più compiutamente di un agire al quale si contrappongono i moti del mondo. Il wu wei è un agire senza l’azione che aggira quel paradosso della libertà cui accenna Krishnamurti.

Forse non si è ancora riflettuto abbastanza sul fatto che i momenti più intensi e veri della vita umana provengono proprio dalla cancellazione della libertà (non dalla fuga da essa) e dal conseguente abbandono alla liberazione; cosa ne sarebbe, ad esempio, del sentimento d’Amore se in esso si volesse continuare a vivere la separazione richiesta dalla libertà? L’Amore, quando è grande e vero, non è solo desiderio di fusione nell’altro, ma anche una rinuncia alla libertà di essere un’anima sola e separata per vivere nell’anima dell’altro, una fusione e un totale abbandono di corpo e spirito nell’essere amato, uno scambio di una parte di sé con una parte della persona amata. Per questo nella separazione dall’amata c’è sempre un sapore di morte, la morte di quella parte di noi che esisteva fuori di noi.

La terrificante scomparsa del sentimento d’Amore nella società contemporanea non è dovuta unicamente al solito scellerato materialismo da due soldi di cui il nostro mondo è pateticamente imbevuto ma anche, in larga parte, dall’incapacità di rinunciare alla schiavitù della libertà che, in ultima analisi, diventa una servitù verso le cose e le regole del mondo. La passione autentica libera dalle catene delle costrizioni e delle convenzioni e se non sai scegliere tra il sentimento che scuote la vita e la tranquillità delle convenzioni e delle piccole cose, allora non sai ancora neppure amare (e la scelta in Amore differisce da ogni altra scelta poiché unisce invece di separare). L’Amore trova davanti a sé qualcosa di infinitamente più grande delle convenzioni e delle cose. L’amato desidera al di là di ogni misura possibile. Nell’Amore vero nulla conta se non la passione ed esso non può esser reso nei termini di una misura, perché l’assoluto conosce solo l’incommensurabile.

Quando ci si libera dalle costrizioni dell’ego che sono, poi, in larga parte, costrizioni dettate dalla natura materiale, si raggiunge un punto in cui, avendo abbandonato le costrizioni della libertà, tutto risulta allora possibile. Un punto in cui, anche i legami nascosti diventano palesi ed ogni paura che attanaglia lo spirito umano non è più neppure un ricordo lontano. Questo è il segreto di Tertulliano certum est quia impossibile est (De Carne Christi, V) e della Regina in Alice nel Paese delle Meraviglie: «sometimes I’ve believed as many as six impossible things before breakfast, Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione». La capacità di credere nell’impossibile è proprio il dono di coloro che sono stati in grado di andare oltre la schiavitù della libertà.
La libertà ci rinchiude nell’innaturale separazione tra noi e gli altri e, in seguito, nella separazione tra noi e il mondo, mentre la liberazione, mostrando il volto autentico della vita, spezza le catene della paura e dell’egotismo consentendo lo sguardo verso orizzonti ignoti a coloro che abitano tra le ombre e le catene della libertà.

(Sergio Caldarella, L’esclavage de la liberté in Les Cahiers Du Collège De Pataphysique N° 97: Nouvelle Série)