Monday, December 31, 2012

La traccia delle lucciole


Trovare un significato vuol anche dire accedere a nuove visioni, scoprire nuove porte dove si credeva vi fossero solo mura e filo spinato. L’incapacità di accorgersi delle tante chiavi del significato avvolge il mondo in una luce oscura da cui non traspare nessuna vita. Rigida e ferma nel vuoto è l’esistenza che non contempla e non afferra lo svolazzare delle farfalle che si librano dalle rose del vero. Se ogni nuovo significato è una nuova porta, allora ogni nuovo pensiero è una nuova chiave. Così, accanto all’andare del mondo, c’è anche l’andare del tempo e scindere la vita dal suo trascorrere significa perderne le chiavi.

Tutto ciò che è nel colore contiene anche la luce, come tutto ciò che è nel bello contiene anche l’amore. La porta non può essere scissa dalla sua chiave e l’abbraccio non sa come tollerare l’assenza dell’amata. Troppo si perde giudicando il mondo solo dal suo apparire: per vedere davvero bisogna dapprima saper imparare a guardare.

Chi disconosce i ricami delle libellule sulle acque non può intendere la lingua dell’intangibile e delle combinazioni tra gli eventi, né leggere attraverso le coincidenze di cui è prodigo lo spartito della vita. Chi aspetta e pensa di sapere cosa aspettarsi ancora non sa cosa aspetta. Infiniti sono i sentieri della sera, ma una sola è la traccia lasciata dalle lucciole.

(Tratto da: Sergio Caldarella, La traccia delle lucciole, in “Poetando. Rassegna di autori contemporanei per il nuovo anno a cura di G. Franti”, Roma 2012, p. 97)

Saturday, December 1, 2012

Primo Levi e la ferita della Shoah


              Una nota oscura e grave accomuna i sopravvissuti ai campi di sterminio ossia la memoria di orrori indicibili perpetrati dall’uomo sull’uomo. Primo Levi, Bruno Bettelheim o Paul Celan erano tre grandi intellettuali che sopravvissero fortuitamente ai lager, ma non riuscirono a sopravvivere al ricordo delle mostruosità alle quali erano stati fatalmente esposti laggiù poiché anche il ricordo è capace di uccidere. Forse, dopo aver attraversato la Shoah, persino nel mondo cosiddetto libero, negli occhietti cattivi di certa gente, le loro anime sensibili continuavano a scorgere il disumano ghigno del carnefice. Il grande poeta Paul Celan, mentre si trovava imprigionato e affamato nel ghetto, respingeva la barbarie degli eventi traducendo i Sonetti di Shakespeare, quasi a dimostrare che la poesia è la più solida barriera contro la brutalità del mondo, ma egli stesso non riuscì poi a scampare al mondo cosiddetto “normale”, finendo annegato nella Senna neppure un trentennio dopo. Bruno Bettelheim si soffocò con un sacchetto di plastica e Primo Levi pare si sia lasciato cadere dalle scale di casa, un gesto lieve ma dalle conseguenze terribili. Questo significa che il peso della Shoah si propaga avanti e indietro nella storia e chiunque creda che la Shoah sia qualcosa che riguarda solo il popolo ebraico non ne ha davvero inteso la portata né il significato. Nel rapporto tra la Shoah e il mondo c’è il peso e l’ambiguità degli interrogativi irrisolti che la parte evoluta della nostra specie si pone da millenni: Si Deus est, unde malum? Et si non est, unde bonum? (Boezio) La Torah racconta che Caino venne condannato ad essere “vagabondo e fuggiasco sulla terra” e chi sa leggere le Scritture oltre la scrittura comprende che nell’universo concentrazionario è tornata a manifestarsi la contorta anima vagante di Caino contro l’innocenza della vittima: laggiù Abele il giusto (Matteo 23:35) è stato ucciso ancora e questa volta non si è trattato di un atto rabbioso e brutale consumato, sul momento, da un uomo contro un altro, ma il prodotto di una complessa macchina dell’odio che mostra i denti aguzzi della tecnica e della modernità. Se c’è un marchingegno che inaugura e forse caratterizza l’inizio dell’epoca moderna questo è, più di altri, la ghigliottina da cui si diparte quella tenebra che inizia ad «illuminare la terra di trionfale sventura» (Adorno e Horkheimer, 1944). Alcuni credono e ripetono che i campi di sterminio furono il prodotto di una barbarie antica, mentre quello che sembra mostrino è il volto della rinnovata barbarie della tecnica e della modernità. La Shoah non è un Pogrom, ma un genocidio scientemente pianificato e questa è una differenza non da poco, né da considerare con leggerezza.

            Primo Levi, Bruno Bettelheim o Paul Celan non avevano la tempra di Caino ma il cuore d’Abele e per questo, molto dopo averne superato torture e sopraffazioni, sono ancora stati uccisi dai campi. Sono riusciti a sfuggire all’aguzzino, ma non alla ferita che questi aveva impresso nei loro cuori. Al mondo l’anima dolce e buona sembra soccomba sempre contro quella brutale e selvaggia. Almeno così sembra.

            Per quanti sforzi si possano fare, per quanto si legga e si studi, è per noi impossibile riuscire davvero a “comprendere” l’esperienza dei campi di sterminio, anche se possiamo estrapolare il comportamento degli uomini dalle situazioni ordinarie a quelle straordinarie – difficile, poi, dire se i campi rientrino nell’esperienza straordinaria o in quella dell’assolutamente altro. Quando si pensa al comportamento degli uomini ed a quello che sono quotidianamente disposti a fare anche per delle minuzie, a come sono facilmente pronti e proni ad adeguarsi e sottostare a qualunque ordine maligno delle cose, si può provare ad immaginare i livelli aborrenti raggiungibili in una situazione mostruosa e spaventosa come quella dei campi di sterminio. Se già in una scuola, una caserma o un semplice posto di lavoro in una cosiddetta società libera ci sono cani e caini pronti a tutto per un nonnulla, cosa sarebbe capace di fare questa stessa gente in un luogo dove l’orrore è la sola regola da cui dipende davvero la sopravvivenza? Domanda pesante quest’ultima, perché interroga sulla stessa costituzione ultima dell’umana natura, chiedendosi se l’uomo sia una creatura fondamentalmente benigna o maligna. Una creatura che, a dispetto dei tanti giochi e orpelli tecnologici di cui oggi dispone, sembra non sia ancora uscita dalla foresta, utilizzando una tecnologia dell’era atomica come se fosse ancora la solita vecchia clava.

            A meno di non essere ideologicamente motivati è arduo riuscire a pensare la modernità prescindendo da Auschwitz ma, fatto ancora più inquietante, è anche impossibile pensare Auschwitz prescindendo dalla modernità. Questa è una pericolosissima equivalenza che conduce all’assunto secondo cui i campi di concentramento rappresentano una misura della modernità, tanto quanto la modernità è una misura dei campi di concentramento. I lager non soltanto mostrano il dispiegarsi di un apparato tecnico dell’incubo, ma anche la sospensione di qualunque pensabilità e questa sospensione è ben più radicale di quanto appaia, ponendo gravi interrogativi sulla natura stessa dell’umano e mettendo radicalmente in discussione l’assunto di Terenzio secondo cui Homo sum, et nihil humanum a me alienum puto, In quanto uomo non posso reputare a me estraneo nulla di ciò che è umano. Anche essendo fratelli, Caino e Abele sono eternamente estranei. Il malvagio, del resto, assume sempre la prospettiva di Caino secondo cui il mondo è cattivo e si meraviglierebbe del contrario, mentre per Abele la malvagità è sempre fonte di supremo stupore. Abele è Isacco per il suo stupore, Isacco è Abele per la sua rassegnazione.

            In una tra le tante orribili storie della seconda guerra mondiale si racconta di un gruppo di ebrei rinchiuso in un granaio a cui i soldati nazisti si apprestavano a dar fuoco. Quando un sottufficiale tedesco entrò nel fienile con una torcia pronto ad appiccare il fuoco, un vecchietto terrorizzato gli pose una sola domanda: “perché?”. Il soldato allora lo guardò e rispose con un ghigno: “Hier gibt es kein warum! Qui non c’è nessun perché!”.

            È singolare come sia proprio la rozza risposta della soldataglia senza cuore a rendere l’intima natura di quello che stava accadendo: “qui non c’è nessun perché”, risponde conclusivamente il soldato senza onore. Se la ricerca delle ragioni determina la qualità intrinseca della vita autenticamente umana, l’assoluta inumanità dello sterminio non poteva che escludere qualunque richiesta di senso. Laggiù non poteva esservi nessun perché, né alcuna risposta e anche da qui la radicale impensabilità della Shoah. Isacco, davanti al coltello d’Abramo, non pone alcuna domanda.

            Comprendere e amare, le due indissolubili forme più elevate dell’esistenza, vengono sottratte all’uomo dal male. La teologia accoglierà la sfida di questa deprivazione in tanti modi dagli gnostici che vedono persino un contrasto tra il D-o buono e il Demiurgo, al male come privatio boni in cui si prova a negare radicalmente il malum, indicando la sua irrealtà e insostanzialità, fino all’estrema fondazione di un mysterium iniquitatis tra le trame del male e del bene (II Tess. 2:9). La privatio boni – e vi si potrebbe ben aggiungere la privazione del vero e del bello – apre quel varco esistenziale in cui s’insinua la perniciosità della brutalità e del male. Quando “non c’è nessun perché” la vita si spalanca sui panorami della solitudine e del nulla con conseguenze sempre fatali per il corpo, lo spirito e il mondo.

            Durante la guerra, nei giorni dell’abiezione, quando l’umanità andava incontro ad una frattura nel tempo che la storia non aveva prima conosciuto, l’orrore era diventato la norma della comunitas. Per questo, tra le tante cose, Auschwitz contiene purtroppo un’unicità che costringe a ripensare la storia e persino il rapporto con il divino.

            In un saggio teologico breve e fondamentale Hans Jonas (Le concept de Dieu après Auschwitz, Il concetto di Dio dopo Auschwitz) coglie quest’aspetto cruciale proprio mettendo in discussione la pensabilità del divino dopo Auschwitz e mettendo in guardia dal rischio ontologico posto da questa frattura nel tempo in cui l’agire umano determina quel tragico punto ove persino l’Eterno potrebbe rimpiangere di aver lasciato divenire il mondo, puisse regretter d’avoir laissé devenir le monde. Una tra le molte lezioni della storia è che nell’uomo c’è l’angelo tanto quanto il demone, ma quando il demone diventa il signore incontrastato del mondo, allora l’Eterno non volge lo sguardo dalla Sua creazione ma vi torna per salire i gradini del patibolo o del Golgota, per venire lapidato, torturato, gasato, arso sui roghi o bruciato nei forni crematori. L’Eterno, dunque, muore ovunque venga commesso il male e risorge dovunque avvenga il bene.

            Per parte sua Primo Levi, nelle sue opere, non descrive il rischio ontoteologico della creazione né accenna all’abbandono dell’Eterno, la sua è una narrazione che appare semplice, uno scrivere che è come un percorso in cui l’autore vuol far ripercorrere al lettore le fasi del cammino a cui il destino lo ha infaustamente sottoposto. Primo Levi conduce il lettore quasi fin dentro il campo di sterminio e prova a cogliere l’inesprimibile narrandolo, partendo ossia da dentro l’esperienza, svuotandosi di tutte le legittimazioni del mondo e raschiando il barile del dolore alla ricerca del nucleo delle verità umane che hanno sempre un rapporto molto prossimo con la dignità dell’uomo. Se volessimo trovare una parola da cui iniziare a leggere tutta l’opera di Primo Levi, questa parola sarebbe racchiusa nell’assordante interrogativo della poesia: Se questo è un uomo con cui si apre il romanzo. «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno». Primo Levi non pone una domanda, perché sa bene che Auschwitz è il luogo dove muoiono tutte le domande, Levi chiede soltanto di “considerare”. Considerare se quest’essere affamato, spaventato e infreddolito che può morire per un sì o per un no dettato dall’arbitrio è ancora un uomo significa anche: provate a pensarci se ne siete capaci e provate a darmi una risposta e magari riuscirete a capire che quanto è accaduto laggiù non è neppure pensabile. Se quello che avvenne nei giorni della Shoah è oltre l’umano è, dunque, anche oltre la pensabilità. Levi infatti continua la poesia con un’esortazione, anzi un comando profondamente ebraico, in cui esorta all’obbligo della memoria (Zakhor), l’unica resistenza possibile, l’unica benedizione lasciata in un mondo dove non c’è più né alto né basso: «Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi, alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi». Nella seconda parte del poema Levi è dunque perentorio, una perentorietà per lui inusitata: “Meditate che questo è stato”, ossia provate, se ci riuscite, a capire quello che non può davvero esser capito, ma che ugualmente è avvenuto sotto il cielo! Anche se qualcosa sembra impossibile, questo non basta ancora ad evitare che questa avvenga. Sembra quasi l’inverso della frase ebraica che si ricava dal dreidel, la trottola di Hanukkah  dalle cui lettere נ (Nun), ג (Gimel), ה (Hei), ש (Shin), emerge la parola “נס גדול היה שם (Nes Gadol Hayah Sham), Un grande miracolo avvenne laggiù”, mentre la storia raccontata dai sopravvissuti di un mondo al contrario parla di “un’immensa sciagura che avvenne laggiù”, in un luogo che non bisogna però dimenticare, anche se già il ricordo è dolore e paradosso. E chi si rifiuta di ricordare fa già parte di quel mondo degli indifferenti che potrebbe, in qualunque momento, tornare ad impugnare lo stiletto essendo ancora parte attiva e consenziente di quel mondo che fa sempre paura. Chi sta con Caino sta ineluttabilmente e sempre contro Abele.

            La dignità è la prima virtù sottratta agli uomini resi schiavi dalla violenza ed i lager, in quanto misura estrema dell’orrore, sono anche la misura estrema della schiavitù e della crudeltà che la cecità degli uomini sa imporre ad altri uomini. Non a caso Levi si chiede disperatamente “se questo è un uomo”, ma la sua è una domanda alla quale egli si rifiuta di dare risposta affermativa. Il pensare di Levi è quello che proviene dalle radici più profonde dell’ebraismo, quel pensiero apofatico che nella sapienza biblica non afferma ma nega e, poi, proprio sulla negazione costruisce una domanda: “tu non farai, non commetterai, non ucciderai...” e dopo – molto dopo – edifica un’etica su radici che partono da ciò che non si deve. Una teologia che comanda senza ordinare, un pensare che lascia spazio alla responsabilità dell’uomo di porre in atto, di eseguire ed essere dunque co-artefice del “comandamento” e, dunque, della creazione (il Rambam raccoglierà 613 di queste מִצְווֹת mitzvot, non tutte apofatiche, che il Talmud suddivide in 365 negative e 248 positive). Altre dottrine più autoritarie preferiscono invece l’imposizione di un ordine a quella di un comandamento, ma seguendo le teologia biblica è implicito che l’Eterno, avendo reso l’uomo libero, non vuole imporgli cosa fare, indicando invece la via etica del non fare. Ne I Doveri del Cuore, Ibn Paquda cercherà persino di costruire un razionalismo trascendentale nel tentativo di giustificare le “vie dell’Eterno” attraverso “prove e spiegazioni infallibili delle verità della Torah e della fede ebraica”. Un programma maestoso che ha anch’esso radici antiche nella cultura ebraica ove Adamo è il primo rabbi e, dunque, il primo ermeneuta del mondo. Rav Adamo, che alcuni definiscono come il primo nomoteta – poiché l’Eterno non nomina nulla nel mondo e si limita a crearlo e il Genesi riporta che questa creazione viene dichiarata טוב, “buona”. Dunque, in quanto ermenuta primordiale Adamo non si limita a nominare le cose, ma ne riconosce il nome vero, egli chiama le cose del mondo. Una rimembranza di questa facoltà la si riconosce nel sentimento d’Amore in cui unicamente la persona amata è in grado di riconoscere il nome vero dell’altro e persino colui che di quello stesso nome è portatore da una vita intera, quando questo emerge dalle labbra dell’amata, scopre di sentirlo pronunciare davvero per la prima volta. Il nome pubblico che tutti conoscono è allora anche il nome che nessuno conosce fino a quando non viene pronunciato dalle rosse labbra dell’amore: amor est magna essentia.

            Rabbi Adamo conosce le “spiegazioni infallibili” che manifestano la vera radice delle cose e nella lingua adamitica non c’è ancora confusione ermeneutica perché il mondo ha il nome che Adamo gli ha dato, non c’è ancora separazione né dissonanza e, dunque, nessuna frattura tra uomo e mondo. Non a caso la Septuaginta tradurrà lo Śhaṭan (הַשָּׂטָן) veterotestamentario con il termine greco diábolos (Διάβολος), colui che divide, in cui è proprio contenuta la radice δυάς, due. Da qui l’Uno/Unità come numero del divino e della perfezione e il due come numero della divisione e, dunque, del male.

            Se in poco più di un anno di campo di sterminio Primo Levi ha visto e vissuto più di quanto un’anima sensibile sia capace di sopportare, per Franz Stangl, comandante di Sobibor e Treblinka, il lager era solo un mondo possibile e neppure tanto illeggitimo, uno tra i tanti mondi che una mente degenerata è sempre capace di ammettere e partorire. I lager purtroppo insegnano una mostruosa lezione sull’uomo moderno che non soltanto non bisogna dimenticare, ma sulla quale bisogna ancora riflettere a fondo, senza però credere di poterne venire a capo non mettendo in discussione i fondamenti che rendono la società vulnerabile all’orrore. L’uomo che perde la misura dell’essere diviene preda del non-essere e non c’è, nel creato, fiera più pericolosa di quella che ha perduto il senso dell’orizzonte. Costoro sono uomini pericolosissimi perché saldamente aggrappati a deliri materiali lontani e irraggiungibili dal buono, dal vero e dal bello. In Manzoni l’Innominato si converte, viene ossia raggiunto dal bene, ma si tratta di un racconto, mentre tra i “cocci aguzzi del mondo” l’Innominato non si pente mai, non viene mai raggiunto dalla grazia. Quando a Franz Stangl, intervistato in prigione, venne chiesto cosa provasse per quello che aveva fatto egli rispose, come Eichmann ed altri, di non sapere cosa dire, che “eseguiva degli ordini”. Stangl, anche molto dopo gli eventi di cui si è reso mostruosamente colpevole, non prova nulla, non riesce a provare alcunché perché la sua anima non può più esser raggiunta dalla grazia. All’assassino non interessa di esser tale, non lo colpisce, non gli fa alcun effetto, perché non conosce o comprende un altro modo d’essere. Nell’album fotografico di un carnefice rinvenuto molti anni dopo la guerra venne persino trovata la scritta autografa: “Schöne Zeiten,  Bei tempi”, proprio sotto le foto in uniforme scattate nei campi di sterminio! Schöne Zeiten! Il mostro, del resto, non sa sollevare lo sguardo dalla sua mostruosità, anzi sa solo come distorglielo. Nell’abissale dissociazione in cui vive l’uomo malvagio egli, purché il dolore non lo tocchi direttamente, coglie anche il male assoluto come profittevole: è la spaventosa dilatazione dell’antico mors tua vita mea.

            È strabiliante notare la propensione con cui certuni accettano il male purché non li tocchi direttamente, almeno così essi credono. Costoro non sanno di nulla, ma non nel senso che non hanno informazioni, intelligenza o capacità pratiche, di queste ne hanno anche troppe, quello che non sanno è della vita vera, ossia l’esistenza che non bada solo alla sopravvivenza ed a tutti i suoi piccoli espedienti ed artifizi. Questa gente che crede di essere totalmente attaccata alla vita ne è invece lontana anni luce perché non sa nulla di ciò che la rende vera. Ed è impossibile raccontarglielo perché credono solo a ciò che parla la loro lingua, ossia una lingua di cose morte. Anche se milioni e milioni di praktikoi, i mercanti dell’esistenza, credono che la vita sia solo una forma ristretta dell’esistere, Socrate ha provato ad insegnare che una vita inconsapevole e senza pensiero non è neppure degna di esser vissuta, che non ne vale semplicemente la pena. Vivere solo in funzione di ciò che si crede materialmente vantaggioso ha inoltre un costo esistenziale immenso per sé e per gli altri, poiché uomini cresciuti da lupi sapranno solo agire come tali. Il malvagio, però, ritiene sempre di sapere da che parte stare perché la malvagità è per lui semplice, è una ferita tra uomo e uomo e così non c’è niente da capire o da decidere. Il bene è complesso e richiede partecipazione, bisogna capire, aspirare, sforzarsi, lottare con se stessi e si possono commettere errori, mentre al malvagio l’errore non interessa in quanto è già compreso nella malvagità. Il malvagio non comprende che la sua astuzia attrae molte sventure contro cui Matteo avverte categoricamente: «tutti quelli che prendon la spada, periscono per la spada» (26:52).

            Quando una società, agitando davanti agli occhi della gente sogni di benessere materiale – sono sogni perché bisogna proprio essere addormentati per crederci –, riduce la vitalità dell’esistenza al presunto profitto, vuol soltanto creare un mondo di automi alienati e senza cuore con quattro furboni in alto che credono di poterla sempre far franca. Di fronte al malvagio il mondo si svuota di senso e sembra quasi crollare ogni spiegazione possibile, perché la sua stessa vita non accetta spiegazioni, “non c’è nessun perché”, vive come se fosse agito da forze spettrali e il suo presunto attaccamento alla vita è, in realtà, solo un curioso desiderio di morte – come spiegò grandiosamente, il 12 ottobre 1936, il filosofo Miguel de Unamuno ai Falangisti spagnoli a Salamanca.

            Alla domanda se si possa ottenere l’annullamento dell’umanità nell’uomo Primo Levi risponde: “purtroppo sì” e acutamente aggiunge che questa perdita avviene non soltanto nella vittima, ma anche nel carnefice e questo sembra quasi un ritorno a Tommaso Campanella quando avvisava che l’ingiustizia non avvilisce solo chi la subisce ma deprava anche chi la commette.

            In uno dei verbali degli interrogatori precedenti al processo di Gerusalemme, Eichmann ebbe a dichiarare: “appartengo a quella categoria di persone che non si formano opinioni proprie” e, ad orecchie attente, questa risposta racconta più di quanto non sembri. L’automa non ha coscienza né esistenza, cosicché una società malvagia mira a diminuire il livello dell’esistenza individuale, perché a colui che non esiste non puoi chiedere alcuna responsabilità etica o morale e diventa, dunque, un perfetto strumento nelle mani dei pochi vili. È una caratteristica del malvagio quella di lasciarsi convincere solo dalla malvagità poiché, nella distanza dall’essere in cui ha posto il suo cuore, questa è la sola cosa che lo raggiunge e su questo attecchiscono i molti mali del mondo: «l’animuccia di coloro che sono detti malvagi, ma che sono intelligenti, vede in modo penetrante e distingue acutamente le cose alle quali si rivolge, in quanto ha la vista non cattiva, bensì asservita alla malvagità, di guisa che quanto più acutamente vede, tanto maggiori mali produce» (Politeia, 519 a). Primo Levi notava che nell’epoca della barbarie “era difficile dire chi era nazista e chi non lo era: tutti dicevano di sì”. Allora, rispondere ancora “no” è forse una tra le virtù più umane che ci siano oggi rimaste e raramente concesse.

            (Sergio Caldarella, Primo Levi e la ferita della Shoah, in «QOL» 154/155, Nov. 2012).

Saturday, November 24, 2012

Capre, cavoli e pappagalli


 
 
 
 
Il 18 novembre 2012 il docente universitario Piergiorgio Odifreddi ha pubblicato, sul blog di Repubblica, un commento in cui accusava lo Stato d’Israele di essere “Dieci volte peggio dei nazisti”. L’articolo è stato cancellato il giorno dopo dalla redazione (ancora visibile su: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/20/repubblica-cancella-post-di-odifreddi-lui-lascia-meglio-fermarsi/419844/) dando adesso al professorino anche l’opportunità di atteggiarsi a martire della libertà. Quanto ha scritto Odifreddi, pur non essendo nuovo né originale, tratta dei soliti preconcetti triti e ritriti pappagallescamente ripetuti, da tempo, in certi ambienti ideologizzati, in circoli e bar di estrema destra o di estrema sinistra, con l’aggiunta di un flair pseudointellettuale che rende l’argomentazione ancor più insidiosa. Singolare coincidenza che, quando si tratta di Israele, estrema destra ed estrema sinistra tendano quasi sempre ad incontrarsi. Un tizio il quale insegna logica in questa e quella università dovrebbe, almeno in teoria, avere una certa dimestichezza proprio con quella logica di cui ama fregiarsi, almeno quella elementare. Eppure, nel suo commento di neppure una pagina, sprofonda invece in paralogismi e non sequitur a tutto tondo. Partiamo dalla comparazione con cui l’Odifreddi discetta di “logica nazista delle Fosse Ardeatine”. Se uno ci pensa un attimo, e magari non scrive come parla, si accorge che nell’eccidio delle Fosse Ardeatine non c’è proprio nessuna “logica”, ma si tratta di una rappresaglia criminale nazi-fascista e basta (è necessario ricordare che furono anche i fascisti a mettersi a disposizione dell’invasore). Nella rappresaglia non c’è e non c’è mai stata alcuna “logica” se non quella parlata, caro professorino di logica! Nell’eccidio delle Ardeatine, così come in ogni altro crimine, c’è sicuramente una forma mentis brutale ed una mostruosa determinazione criminale, ma questa non ha una “logica”, né l’ha mai avuta nella storia. L’orrore ha il solo volto dell’orrore sia esso follia o umana abiezione. Il fatto che, a posteriori, si studi l’orrore attraverso metodi logici e sistematici, non significa, né implica, che l’orrore abbia una logica per se. Uno dei primi doveri degli uomini di logica, anche quelli che insegnano per concorso pubblico, dovrebbe proprio esser quello di chiarire e non di confondere.
E’ comprensibile come nel linguaggio parlato si possano utilizzare in maniera interscambiabile termini quali “utile”, “profitto” o “guadagno”, ma se un contabile dovesse mettere in un bilancio “profitti” e “utili” come se fossero la stessa cosa, andrebbe dritto in galera, allora perché uno che la logica la dovrebbe insegnare può utilizzare questo termine e le sue comparazioni possibili in maniera talmente disinvolta ed erronea? Ma andiamo oltre: le maestre di una volta spiegavano che non si devono mettere insieme capre e cavoli, ma forse il Nostro geniaccio preclaro e precocissimo non era particolarmente attento a quello che gli dicevano le povere maestre né ad ogni altra osservazione di semplice ragionevolezza. Ad un certo punto di questa sua fulgida carriera accademica avrebbe però dovuto imparare che la comparabilità tra incomparabili è proprio uno dei vizi di ragionamento più elementari, uno dei tanti idola con i quali si intrattengono oggi in molti.

Nel suo pesante bagaglio di vecchie nozioni il professorino tiene anche la lex talionis (occhio per occhio dente per dente), quale principio di reciprocità letterale ed assoluto! Sembra che il Nostro sia rimasto concettualmente fermo ai tribunali dell’Inquisizione ed al catechismo tridentino! Al poveretto, nonostante il suo solito vaneggiare antiteologico, non sarà forse capitato di leggere qualche commento biblico contemporaneo, non avrà mai sentito parlare del metodo storico critico né gli sarà capitato di ascoltare la conferenza di qualche rabbino che gli avrebbe magari potuto spiegare che questo principio biblico, tra gli altri, non può esser letto in maniera brutalmente letterale, ma si trova forse più vicino al redde rationem che non all’accecamento dei contendenti. Ma anche queste sono sottigliezze che non possono che sfuggire ad una mente talmente acuta e capace di elevarsi così al di sopra del mondo da non vederlo più e scorgervi, in vece, solo il suo faccione onnipossente che discrimina tra bene e male come se fossero giocattoli nelle mani dell’arbitrio dell’ego. Ma questo è un vizio che appartiene profondamente alla hybris contemporanea e Odifreddi, come altri, fa di questa hybris una bandiera di verità ed una misura di vita.

Il titolo dell’articolo è: “dieci volte peggio dei nazisti” e perché proprio dieci volte? Sarà stata una scelta del redattore notturno di Repubblica preso da un colpo di sonno? Ma perché non cinque, quindici, centottanta o quarantadue? Ancora il linguaggio parlato? Solo perché abbiamo dieci dita e viviamo in un sistema decimale e allora il dieci ci appare come un bel numero? Per uno che si dice matematico queste osservazioni dovrebbero avere senso e non dovrebbe sparare numeri e concetti a caso. Per uno che si dice matematico...

Nessuna mente capace di leggere la storia e non obnubilata da pregiudizi antichi metterebbe mai insieme, razionalmente, eventi come la Shoa ed un’operazione militare, per quanto tale intervento possa non piacergli. Dissentire non significa oltraggiare almeno due volte la memoria delle vittime di uno tra i più mostruosi crimini della storia. Con una mano oltraggia le vittime e con l’altra oltraggia i sopravvissuti perché, se il professorino ricorda bene la storia, saprà che la costituzione dello Stato d’Israele è, purtroppo, anche una conseguenza di quel genocidio in cui si provò a sterminare per intero gli ebrei d’Europa!

Fortunatamente la storia non si fa con le passioni, ma con la comprensione, mentre la cronaca la fanno proprio questi signori imbellettati e imbevuti di mezze certezze. Magari uno di questi giorni il nostro professorino proporrà una ristampa anastatica dei Protocolli o una riedizione di certi numeri dello Stürmer, tanto per non farsi mancar nulla. Oggi, del resto, per credersi bravi, basta solo ripetere quello che tutti gli altri ripetono. Oltre alla sua volgarità morale e razionale il fatto forse più strabiliante dell’intero articolo di Odifreddi è che a questo signorino non solo gli fanno insegnare logica, ma viene anche considerato come uno tra quelli capaci! Non voglio proprio provare ad immaginare cosa saranno quelli meno capaci...

Thursday, November 22, 2012

Little Thanksgiving meditation


 
 How do you celebrate Thanksgiving? Are you thankful for all of the blessings you have received? But if your well-being and good fortune are created by other people’s misfortunes; if your happiness is built on indifference, if to have more and more you have to deny others the right to have something, no matter how small, and you justify it by saying: “that’s how life is”, and if you also believe that you’re always entitled to more than your fellow humans and the bread on your table is blessed by your silence and peaceful indifference in front of a society that turns its back to the poor and the unlucky, if the center of your world is just you, your immediate relatives and nothing else, then who are you really thanking on this day? And who should you be thanking instead?

(Dr. Divago)

Wednesday, November 14, 2012

The social problems we face today


It might sound surprising, but most of the social problems we face today have already been depicted in great detail by the great thinkers of mankind and they have already explained in the past that our crisis is, fundamentally, an ethical issue with socio-economical consequences, but this aspect seems to be invisible to the majority of contemporary men.

            The malevolent plan of those in control of this pitiful society is, and has always been, very clear: they do not want general liberty because this would endanger their power. Free people are dangerous for those that want to control them. So they implement all possible measures to avoid real liberty and twist the idea of it to make it coincide with just petty material means. The great poet Joseph Brodsky used to say that “Free means not free but liberated”, i.e. real liberty is awareness. Our educational systems have been turned, more or less, into a standardized training or indoctrination apparatus -- if not worse -- and students end up going to universities to buy a degree in the same way they go to a supermarket to buy groceries. Paradoxically, modern universities are damaging knowledge almost to the point of no return and clearly, if the leaders and managers that are nowadays trained by the same diploma mills learn just techniques to attain power or make money and not a cultural/ethical attitude toward the world and society, later we don’t have to wonder about their mediocrity and moral corruption, it’s just the logical conclusion. The contemporary utilitarian approach to life induces the majority of students to believe that the only scope of knowledge is for personal gain or manipulation. As a result the deeper questions are neglected and men go on living, day by day, their unhappy lives of narcissistic happiness.

Confusion generates more confusion and standardized thinking has never led anywhere. We live in peculiar dark times presented as the brightest of all ages by a simplistic system of mass indoctrination. Individuals that are still capable of reading and pondering over the real questions of life understand that we live in a regressive phase of civilization (Giambattista Vico, 1668 – 1744, defined these stages of history as “the cycle of course and recourse”), but this understanding means nothing for the standardized man (or The One-Dimensional Man according to Herbert Marcuse). We have probably reached a point in history where real intellect cannot be understood because the questions that our society poses are no longer intellectual, but fundamentally trivial and deceptive. One example could be the immense confusion between intelligence and intellect. If individuals of real intellect would nowadays be showed on any media around the globe, just a tiny portion of the audience would be able to recognize the meaning of what they are trying to express because they speak a language that cannot be understood without awareness of meaning and a desire for knowledge. A deep person can speak the same language as the shallow person and yet, they speak two different languages: the same occurs in the difference between lover and beloved, as one cannot speak the language of love to someone who has never experienced that feeling. Real words are to chatter what music is to noise and real love is to fake love what a diamond of light is to a ring bought in a crowded mall. So, the more we become oblivious of ourselves the more all deep questions that could bring us in touch with our real humanity will become more and more inaudible, until all is left is the silent scream of our forgotten lives. And all of this in a society that claims to be the most advanced of all human history. Well, after all, history does have its peculiar irony.

(From: Sergio Caldarella, The social problems we face today, in Rantrave.com)

Wednesday, October 24, 2012

In ricordo di Padre Arcangelo Rigazzi



Tra le tante cose, la morte ha anche la triste prerogativa di porre la vita in prospettiva. La scomparsa di una persona, soprattutto se improvvisa, pone sempre mille interrogativi ai vivi, poiché ci si trova, d’un tratto, di fronte ad un’assenza che è tanto più grande quanto era la presenza di colui che non è più tra noi. Lunedì 22 ottobre 2012 è venuto inaspettatamente a mancare Padre Arcangelo Rigazzi e la sua assenza è già così pesante da lasciare pochissimo spazio per qualunque parola. Ricordarlo è difficile perché Padre Arcangelo era un uomo dalla vitalità fuori dal comune. Per chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene Arcangelo era un prete, un amico, un fratello ed a volte anche un padre ma, più di ogni altra cosa, era un uomo profondamente buono. Di lui ci mancherà tutto: il suo essere un prete così straordinario e così naturale allo stesso tempo e tutte quelle innumerevoli piccole e grandi cose che lo rendevano una persona così speciale. Padre Arcangelo poteva sedere con la stessa naturalezza alla tavola di un principe come a quella dell'ultimo dei poveri. Sapeva sempre trovare la parola giusta per consolare e non perché fosse uno che cercava le parole giuste da dire, ma perché quello che diceva lo sentiva per davvero. Padre Arcangelo non sapeva essere la persona giusta al posto ed al momento giusto, egli era, invece, la persona giusta. Da buon sacerdote Arcangelo amava senza discrimine: è stato missionario nella lontana Curitiba, in Brasile, e per questo parlava un eccellente portoghese, è stato parroco, cappellano del carcere, insegnante, direttore di comunità di accoglienza e, in quello che lui definiva il vero spirito cristiano, ha sempre aiutato chiunque incrociasse la sua strada tanto uomini quanto animali. Ricordo una volta, una tra le tante, in cui mi fece molto preoccupare fermando la macchina nel mezzo dell'autostrada e scendendo nel mezzo di quel traffico serale solo perché aveva visto, da lontano, un cane che, provando ad attraversare, avrebbe potuto restare ucciso! Se fossimo riusciti ad acciuffare quel lazzarone di un cane randagio lo avrebbe sicuramente portato con sé per prendersene amorevole cura: ad Arcangelo bastava attraversargli la strada per venire travolti dalla sua bontà. Quella sera rischiò per salvare un randagio e chi lo conosceva può testimoniare che anteporre gli altri a se stesso faceva parte della sua filosofia di vita. Tutti avevano accesso alla sua parrocchia e per tutti aveva sempre tempo, cura e la giusta soluzione. Alcuni lo avevano soprannominato “il bulldozer di Dio” e, anche se, ufficialmente, non poteva approvare questo nomignolo, da come sorrideva quando lo raccontava sapevo che, sotto sotto, quella definizione gli faceva un pò di piacere. Era davvero un prete travolgente ed era difficile resistere alla sua forza interiore ed alla sua tempra: tra le tantissime cose era anche un eccellente programmatore, adorava la musica classica ed aveva una voce bella e sottile, così come era un ottimo suonatore di mandolino per non parlare poi di quando si metteva ai fornelli: gli dicevo sempre che se non avesse fatto il prete avrebbe potuto essere uno tra i migliori cuochi del mondo e questo era il solo complimento che ricordo non declinasse con la sua schietta modestia.
Su Arcangelo Rigazzi, questo grandissimo uomo e grandissimo prete, si potrebbero scrivere pagine su pagine senza mai raccontare abbastanza su tutto ciò che egli era e di quanto ha significato nella vita di molti. Volergli bene non era difficile, anzi era una tra le cose più facili che si possano immaginare. E adesso che se n'è andato e magari ci guarda già dall'alto dei Cieli con il suo sorriso dolce e lo sguardo buono, capiamo ancora di più quale grande dono sia stato averlo vicino come parroco, come amico o come fratello.
 
 (Sergio Caldarella)


Sunday, October 14, 2012

Il festoso festival di Modena, Carpi e Sassuolo.


 

            Una stolida filastrocca vagamente amata dagli hommes du monde recita: “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale” anche se, nel nostro tempo, il termine “filosofia” pare sia diventato, escludendo i circoli scientifici ed economici, una parola à la mode di cui amano fregiarsi proprio quei borghesi che, con la quale o senza la quale, rimangono davvero tali e quali. Questi signori che ormai non solo discettano di filosofia, ma ne sono diventati i pomposi rappresentanti ufficiali, organizzano persino dei festival e magari, a breve, vi dedicheranno anche un bel carro addobbato per il carnevale di Viareggio. Dicono che, alle conferenze di un manipolo di eletti al recente festival di Modena, Carpi e Sassuolo, abbiano assistito oltre 180.000 persone, un numero certamente impressionante per chi si lascia impressionare dal numero. Quello che particolarmente rattrista è constatare come tutta questa brava gente si sia recata all’evento pensando che avrebbe magari sentito parlare di filosofia, trovandosi invece di fronte ad una sfilza di cattedratici chiamati a pensare per concorso pubblico che gli hanno rifilato le solite lezioni di misosofia (μισώσοφία) passandole, ovviamente, per elevatissima filosofia fresca di giornata. Il grande Manlio Severino Boezio, nel suo grandioso testamento spirituale e intellettuale che è la Consolatio Philosophiae, vergata poco prima della sua esecuzione capitale, lasciava che già a suo tempo l’incarnazione della filosofia lo ammonisse contro queste maschere incipriate: «Pensi tu – dice la filosofia – che questa sia davvero la prima volta che la sapienza corre gravi pericoli ad opera di una società corrotta? (Nunc enim primum censes apub improbos mores lacessitam periculis esse sapientiam?) E non è forse vero che, anche presso gli antichi, prima ancora che vivesse il mio Platone, io ho dovuto ripetutamente sostenere grandi battaglie contro le iniziative sconsiderate degli stolti, e che proprio durante la sua esistenza, il suo maestro Socrate meritò di riportare, con la mia assistenza, la vittoria su un’ingiusta morte? Purtroppo, dell’eredità socratica tentarono in seguito di impossessarsi la plebaglia epicurea e stoica e tutti gli altri, arraffandola ciascuno per proprio conto; e benché io protestassi e resistessi, trascinarono via anche me, quasi fossi una loro preda, mi lacerarono la veste che avevo tessuta con le mie mani e, staccatine brandelli, se ne andarono, convinti, ciascuno, d’avermi portata intera con sé. E poiché in costoro si scorgeva una qualche impronta del mio vestito, l’umana leggerezza, scambiandoli per miei discepoli, spinse sulla strada sbagliata parecchi di loro, con grave danno della moltitudine ignara».

            Il metodo organizzativo di queste manifestazioni è, poi, sempre lo stesso: si creano questi eventi come si creano le carriere tra i corridoi delle accademie o in altre istituzioni ossia invitando parenti, amanti, amici, complici, affiliati ed amici degli amici, un po’ come si fa in tutte le organizzazioni di potere lecito o illecito: mala herba cito crescit. Sorprendono, in tale contesto, studiosi attenti come Giovanni Reale, un filosofo come Carlo Sini o un intellettuale di spessore quale Enzo Bianchi, ma sono mosche bianche invitate per dare quantomeno una parvenza di serietà alla ciarlataneria. Se la nostra non fosse una società del contrario, sarebbe surreale pensare che è dal 2001 che, con grandi schermi, sovvenzioni, bancarelle, tavolate, conferenze, fiaccolate, lezioni magistrali e chi più ne ha più ne metta, vanno avanti con la messincena di questo sedicente festival di filosofia tra Modena, Carpi e Sassuolo. A discolpa degli organizzatori bisogna forse dire che questi poveretti devono arrangiarsi con il tessuto culturale del Paese e bisogna concedere loro che, in un’epoca di mostruosa banalità e omologazione, questi signori che mettono in cattedra possono pur passare per filosofi. Se, però, questi organizzatori spendessero più tempo tra le librerie secondarie e le bancarelle di libri usati, oppure a qualche conferenza in una piccola biblioteca lontana dal trambusto, invece che davanti alla televisione o nelle grandi librerie commerciali, forse scoprirebbero che anche in Italia esiste una cultura più vera e meno di facciata molto diversa e lontana da queste genti lugubri.

            Questi signori che si offrono al grande pubblico con parvenza di pensatori sono talmente presi a recitare da far ritenere che la dote più grande sia la capacità di sapersi fingere filosofi. Sanno fingere a tal punto da finire a fingere di credere loro stessi a quello che fingono (Pessoa lo aveva già scritto anche se in ben altri termini). Per questo bisogna prestare un’estrema attenzione a quel che dicono ed a come lo dicono perché, come diceva il grande Freud, se tacciono con la bocca parlano pur sempre con la punta delle dita. Come ogni buon attore amano un copione ben scritto anche perché gli viene facile da ripetere, così fingono di inebriarsi raccontando di Platone, Cartesio, Kant o Nietzsche, come se davvero sapessero di cosa stanno parlando. In realtà tra quelle stanze del pensiero non ci si sono mai avventurati davvero e, per guadagnarsi un modesto tozzo di pane, orecchiano da dietro le porte e ripetono a memoria e così tutto quello che sanno raccontare sono a malapena dicerie di pensieri. C’è un filmato in cui uno tra questi piccoli uomini (http://www.youtube.com/watch?v=iw7E18X3WqI), uno tra i tanti chiamati a pensare per concorso pubblico, chiacchiera su Friedrich Nietzsche con la sua voce biascicante e, ad un certo punto del suo raccontino annacquato, dichiara tranquillo che, nel suo periodo finale a Torino, il grande filosofo tedesco scriveva ai suoi amici: «delle lettere esaltate dandosi arie da grande pensatore» (sic!). Ecco, basta starli ad ascoltare e si tradiscono! Come si può dire di Nietzsche: «dandosi arie da grande pensatore»!?! Questa frase non dice forse già tutto su chi la pronuncia? Come si può trattare un filosofo del calibro di Nietzsche con tale atteggiamento sprezzante? Forse qualcuno dovrebbe ricordare al professorucolo che Nietzsche non si dava “arie da grande pensatore”, ma era un grandissimo pensatore, una differenza a quanto pare per lui difficile da cogliere. Una famosa frase, variamente attribuita, dichiara che noi non vediamo il mondo così com’è ma così come noi siamo e, in questo caso particolare, il professorino sta più confessando qualcosa su se stesso che dicendo alcunché su Nietzsche. Alcuni tra i pochi direbbero che è una vergogna che la filosofia venga rappresentata da questa gente, ma anche a questi già pochi bisognerebbe rispondere che, proprio per potersi permettere un fiero incedere, costoro la vergogna l’hanno ormai dovuta uccidere da tempo. Eppoi di cosa dovrebbero mai vergognarsi? In sé non hanno abbastanza autocoscienza per dubitare di se stessi ed hanno sufficiente scaltrezza per razionalizzare qualunque loro comportamento e questa capacità di manipolare parole li fa sentire bene ed al loro posto. Quella di usare le parole per assecondarle ad un bieco interesse è, purtoppo, una vecchia piaga umana e non è un caso che Socrate fosse un acerrimo oppositore dei sofisti, ossia di coloro che per primi fecero di questa perniciosa facoltà un credo intellettuale. Ma a questa gente messa oggi in cattedra neppure un Socrate redivivo riuscirebbe a farli dubitare di ciò che si credono di essere e questo non vale unicamente per gli accademici, ma per i politici di professione, manager, plutocrati e patriziati vari che controllano oggi il mondo. Hanno semplicemente imparato a giostrare con le parole solo per assecondare la mediocrità delle loro piccole anime. Credo fosse Flaiano a sentire la mancanza di quei bei cretini di una volta poiché oggi anche l’ultimo dei cretini è diventato un cretino sofisticato. Millenni di trasmissione culturale sono forse serviti a questo? A rendere sofisticata la cretineria?

            Mai come nel mondo dell’uomo nuovo la conoscenza per amore della conoscenza aveva subito le offese che patisce oggi, costretta a vivere in uno stato d’assedio prima ignoto. Ad esempio, quando la gente parla, semmai ne parla, di un’epoca come il Medioevo lo immagina nei modi in cui viene presentato attraverso l’indottrinamento scolastico o cinematografico, ossia come di un’epoca “buia” e terribile (in un recente discorso alle Nazioni Unite anche il Primo Ministro Netanyahu ha proprio fatto riferimento al Medioevo come ad un’epoca oscura, meritando le giuste critiche di alcuni intellettuali israeliani). Se, però, il Medioevo si curassero di studiarlo meglio si accorgerebbero che è, invece, un periodo ricchissimo di cultura, di imprese, di architetture e iniziative politiche, contatti tra civiltà, grandi aspirazioni, scoperte e molto, molto altro ancora. Grandi visioni del mondo e dottrine nascono in quel periodo, ma anche grandi maestri di logica, matematica, eppoi cabalisti, filosofi, mistici, astronomi, navigatori e, chiaramente, anche Santi e cattedrali maestose. Anzi, in quell’epoca che si crede oscura, l’amore per la conoscenza ed i libri aveva i caratteri della sacralità mentre oggi ha il solo carattere dell’orientamento professionale. Studiandolo meglio il Medioevo si presenta come un’epoca di grande vivacità intellettuale mentre, studiando la nostra epoca, se ne trae l’impressione opposta di un periodo intellettualmente piatto e culturalmente scialbo, pericolosamente sepolto sotto i macigni di omologazione, indottrinamento e intrattenimento. La cultura medievale non era centralista come la nostra ma aveva “centro in ogni loco” e Dante ne è forse l’esempio più eccelso.

            Un antico proverbio ebraico si chiede cosa sarà degli altri alberi se il fuoco raggiunge anche i faggi? Ossia, se quelli che dovrebbero essere i migliori tra noi si comportano come i peggiori, che ne sarà degli altri e del mondo? Beh, per rispondere a questa domanda a chi sa ancora guardare basta contemplare quel che ne è del mondo: res ipsa loquitur. Quello che ci offrono è davvero un brutto spettacolo anche se, alla fine, solo di uno spettacolo si tratta, lo stesso che offre la società del capitale con i suoi frizzi e lazzi. Scrivere di tutto questo non è certo piacevole, ma nella terribile emergenza in cui viviamo è necessario sobbarcarsi anche questo povero compito. Difficile dire se un giorno la conoscenza autentica tornerà a presenziare fattivamente nel mondo, ma fino ad allora è bene che certe cose vengano dette anche se da una sola voce che si levi contro il multiforme delirio di questo nostro piccolo tempo.

            La teoria critica insegna che il capitalismo produce delle profonde patologie della ragione e tra queste patologie c’è anche l’annientamento del pensiero sostituito con vino nuovo e annacquato. Molti sono i sistemi e le agenzie che si occupano di questa sistematica distruzione della cultura e, conseguentemente, del pensiero. I veri filosofi tra Ottocento e Novecento ci avevano avvisati, ma troppa acqua è passata sotto i ponti della storia e alcuni grandi pensatori sono stati semplicemente dimenticati ed altri colpevolmente ignorati, spesso proprio per garantire un posticino a quelli che preferiscono stare dalla parte dei potenti e ricevere i loro tozzicelli di pane. Theodor Adorno, un pensatore che il nostro tempo lo aveva ben capito e spiegato, distingueva e trovava una pericolosa coincidenza in tre livelli nella società capitalista: fascismo, stalinismo e industria culturale! L’industria dell’omologazione, l’apparato di ripetizione di massa che quando si appropria di un nuovo termine o prodotto lo porta immediatamente sulla bocca di tutti, la produzione di bestseller, i diplomifici, la cultura ufficiale, i nastri e nastrini che addobbano le carriere dei plutocrati che controllano il nostro mondo servono fin troppo bene gli scopi dell’oscurità e della dimenticanza di sé insieme all’asservimento agli oggetti ed al potere. Questa trasformazione del mondo non si sarebbe potuta mai conseguire senza la fidata complicità dei ciambellani della presunta cultura ufficiale. Un antico insegnamento sapienziale ricorda che anche un uomo solo, seppur accusato e maltrattato da tutti, può ergersi contro un mondo intero ed è proprio questo il compito che, da secoli, si sobbarcano i filosofi autentici.

            L’uomo nuovo è un uomo tanto terribile quanto pericoloso e, diversamente da altre epoche, è ormai irraggiungibile dalla voce del sapere poiché, anche grazie alla tecnica (τέχνη) ed alle sue povere capacità di lettura e scrittura (a tal punto che stanno ora persino escogitando congegni per tornare a scrivere con le mani nude sullo schermo), crede di dominare tutto, anche il sapere. Da tempo i giornali hanno lasciato cadere la Terza pagina sostituendola con quella degli spettacoli e, quando ancora la mantengono sotto la generica dicitura di “Cultura e spettacoli”, quello che vi scrivono riguarda canzonette e commedie, qualche libercolo sponsorizzato o televisizzato o, per l’appunto, qualche bel festivalazzo di misosofia. La situazione non cambia nelle presunte istituzioni culturali o accademiche italiane e straniere: la nostra è ormai una povertà globale e complessiva.
            A questo punto direte: “ma come puoi scrivere queste cose? Noi c’eravamo a Modena, Carpi e Sassuolo! Li abbiamo visti assisi sui podi a battersi il petto con severa postura da pensatori, li abbiamo ascoltati pronunciare parole difficili con aria grave e li abbiamo sentiti sospirare sui mali dell’uomo e del mondo!” Ed a questo punto mi redarguirete malamente: “Sei proprio un arrogante a parlare in questo modo di questi illustrissimi cattedratici! Ma non hai visto che belle livree che avevano? E che bei tocchi? E com’erano rossi i loro nasi? Eppoi, guarda, ma non vedi come stanno ben assisi su delle belle sedie? Non basta forse già questo a farli filosofi?” Vorrei allora aggiungere che le vostre obiezioni sono tutte vere: costoro sanno bene come star seduti in bella postura e fare il grugno grave, sanno anche vestire bei pannicelli caldi, anzi queste parodie gli servono proprio a vestire quei pannicelli (http://materialivari.blogspot.com/2012/08/who-are-rich.html). Per riuscire davvero a vederli bisogna però guardarli in faccia e provare a leggere dentro quegli occhietti furbi e indifferenti. E se sono sembrati filosofi è perché di filosofi non ne fanno più sentire da tempo. Quelli che ormai fanno vedere sono quelli allineati e coperti, quelli che sanno sempre come comportarsi, sanno cosa è utile dire e cosa non dire e stanno dalla parte di chi sa sempre da che parte stare. E come sono bravi a far finta. Ah! Quanto son bravi in quell’arte antica! Il filosofo autentico è invece uno che non sta da nessuna parte se non dalla parte del buono, del vero e del bello e non sa neppure come considerarsi parte, per questo agli occhi di certi religiosi confessionali viene detto ateo, mentre agli occhi degli atei viene detto religioso, così come per i filosofi è un non filosofo e per i non filosofi un filosofo. Se questa gente che si arroga oggi il diritto di discettare di filosofia avesse anche una vaga idea di cosa sia un pensiero autentico, sarebbe magari capace di uscire dallo spirito parolaio e bottegaio con cui erge cattedrali di vuoto e ripensare certi concetti sempre attuali, trovandovi nuove strade, costruendo interrogativi sopra altri pensieri, senza ergersi come se vi fosse qualcosa di nobile nello stare assisi e non nel vedere. Le parole di chi pensa sono pesanti e contengono una forza che trascende chi le pronuncia, sono parole che scuotono e accompagnano chi ama comprendere, non una ninnananna rassicurante o un raccontino addomesticato per l’intrattenimento. Il pensiero è domanda ma è anche risposta, non una risposta conclusiva quanto un tenersi per mano, un raccogliere gemme e sorridere insieme. Per questi, invece, significa solo parlare da un podio e raccattare pepite. Poveri loro e poveri anche noi quando li ergiamo a maestri.

Tuesday, September 4, 2012

Dallo stato di natura alla selezione naturale


Forse uno tra i maggiori contributi non riconosciuti di Sigmund Freud è quello di aver fornito elementi determinanti per il superamento della teoria degli istinti così come viene concepita da Richard Darwin e dai suoi epigoni. Darwin descrive e caratterizza l’esistenza di comportamenti istintivi nell’uomo e questi “concetti darwiniani”, così come altri, verranno poi incorporati nella psicologia ottocentesca, principalmente grazie a Wilhelm Wundt. Lo stesso Freud passa attraverso una fase in cui, nei suoi scritti e appunti, fa uso del termine instinkt, ma in seguito spiega che l’istinto non pertiene autenticamente agli umani, almeno non nel senso in cui questo può essere utilizzato per definire il comportamento di altri animali. In Freud comportamento e agire non sono più sinonimi anche perché nell’agire umano si trovano insospettabili profondità conscie, inconscie e simboliche: una tra le tante implicazioni della Traumdeutung, ma anche della teoria degli atti mancati (Fehlleistung) è che anche l’inconscio parla o, per meglio dire, trabocca nel linguaggio e nelle azioni umane (Sigmund Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens, Psicopatologia della vita quotidiana, 1901). Non a caso Freud parla della sua teoria degli istinti come di una “nuova soluzione” in cui il maestro di Vienna contrappone l’Eros e la pulsione di morte tornando, in un certo modo, al tema della vitalità nietzschiana.

Utilizzata in un senso rigido, la parola istinto è tra i tanti concetti creati dalla modernità e divenuti, in seguito, strumenti di manipolazione sociale. Il termine “istinto”, coniato nel Settecento in francese prendendo a calco il latino instinctae naturae, che indubbiamente traduce il tedesco instinkt, ma viene meglio reso da Naturtrieb o pulsione naturale, è un concetto figlio della modernità – gli antichi avrebbero usato altri termini, vedi l’Iliade quale maestoso esempio. Nel 1760 Hermann Reimarus scriveva che l’istinto è una “mechanische Triebe der Thiere”, cioè una “pulsione meccanica degli animali”, mentre per Darwin (1872) è un comportamento non appreso ossia innato. Come già osservato, Freud stesso passa attraverso l’utilizzo del termine istinto che sostituisce, poi, con il più accurato “Trieb”, “pulsione”, da cui l’intera Triebtheorie, la Teoria delle pulsioni.

L’intera teoria degli istinti è un costrutto che piace molto non soltanto a coloro che vogliono manipolare la società per i loro fini ma anche a quelli che rigettano l’analisi di se stessi. Tale teoria è anche una comoda spiegazione per un’epoca che vuole vedere l’essere umano meccanicamente e confondere la malattia sociale con i presunti istinti: è infatti più comodo dire che l’uomo possiede un istinto aggressivo, invece di osservare che viene reso aggressivo dalle condizioni sociali (questo viene spiegato efficacemente da Erich Fromm in gran parte della sua opera e, in particolare, in Anatomie der menschlichen Destruktivität, Anatomia della distruttività umana, 1974). Allo stesso modo anche l’amore viene, già in Schopenhauer (che, guarda caso, su questo punto era un hobbesiano convinto), ridotto alla bieca manifestazione dell’istinto di conservazione: l’essere umano che scende al livello dell’automaton! Chissà quanti secoli ci vorranno ancora per comprendere il danno compiuto, a partire dall’Ottocento, dal meccanicismo riduzionista darwiniano. Stupisce anche che a nessuno venga in mente che Darwin, similmente a Martin Lutero o Karl Marx, è servito anche da pretesto e strumento politico ad una certa classe sociale che voleva una giustificazione al suo agire. Ancora più stupefacente pensare che lo stesso Karl Marx, il cui acume politico era sicuramente fuori dal comune, colto dalle ubriacature ottocentesche, apprezzava a tal punto l’opera di Darwin da volergli dedicare Il Capitale – dedica che Darwin rifiutò, ma Marx mantenne. Un secolo dopo, Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) con il suo comportamentismo radicale (Radical behaviorism), sarà il campione del modello istintuale, finendo con il negare persino il desiderio di libertà nell’uomo! Ma anche questa è sciocca ideologia contemporanea. Se l’aggressività, per limitarsi ad un esempio ideologicamente rilevante, viene categorizzata come un “istinto” si rifiuta, al tempo stesso, di riconoscervi altre ragioni profonde e, magari, provare a comprendere queste ragioni secondo una lettura più vasta. L’antidoto che Erich Fromm propone è di uscire da uno stadio necrofilo della società ed accedere ad uno stadio di riscoperta dell’umano (biofilia vs necrofilia), sostanzialmente un nuovo umanesimo. Fromm era infatti ben convinto della relazione tra umanesimo e psicoanalisi. In questo contesto si evince come una società impostata sulla competizione e non sulla cooperazione sia generatrice di aggressività. Un tale modello competitivo su basi antietiche, spinto poi alle estreme conseguenze cui assistiamo oggi, educa i membri delle società all’aggressività sotto qualunque forma. È l’assurdo modello dell’antropologia negativa del Bellum omnium contra omnes offerto da Hobbes (De Cive (1642) e Leviatano (1651)), definito da Nietzsche come “grossolano”, che tanto comodo ha fatto agli organizzatori delle società successive per giustificare un assetto repressivo. Persino Freud, analizzando la società dai suoi sintomi, cadrà, come rileva Herbert Marcuse, nel “convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile” (Eros e civiltà, 1955)  questo apre anche alla possibile analisi e interpretazione del rapporto tra repressione manu militari e repressione psicologica.

La nostra società non mira ad un orizzonte futuro più umano, quanto al suo contrario e questo anche perché ad un certo punto della storia si è voluto iniziare a credere che la società esista per il soddisfacimento dei bisogni ed il sollazzo e non per il miglioramento degli uomini. «Ostendo primo conditionem hominum extra societatem civilem (quam conditionem appellare liceat statum naturae) aliam non esse quam bellum omnium contra omnes; atque in eo bello jus esse omnibus in omnia, Mostro in primo luogo che la condizione degli uomini senza società civile (la cui condizione può essere chiamata lo stato di natura) non è altro che quella di una guerra di tutti contro tutti, e che in quella guerra, tutti hanno diritto a tutte le cose» (De Cive). Nonostante il modello qui descritto della guerra di tutti contro tutti sia presociale, una società costruita su tali basi concettuali sarà appena un agone più sofisticato per la continuazione della stessa lotta “con altri mezzi” (Carl von Clausewitz, 1780 – 1831); ad esempio la competizione e la “selezione naturale” (concetto, quest’ultimo brutalmente estrapolato dall’adattamento particolare dei sistemi biologici).

Come si può evincere da questi pochi e brevi accenni, il pensiero hobbesiano confluirà pari pari nell’ideologismo darwiniano in cui gli si rammenda una veste biologista e svolgerà tragiche conseguenze nel Novecento indossando anche i panni del diritto razziale con Carl Schmitt e il concetto di amico-nemico (Freund und Feind). In sostanza si tratta di moderne ideologizzazioni, in varie forme, del motto medievale mors tua vita mea. E tutto questo spacciato, come al solito, sotto i vecchi panni lucenti del nuovo.
 
(Sergio Caldarella, Dallo stato di natura alla selezione naturale in «Dibattito. Rivista di Studi Politici», Settembre 2012, pp. 109-113).

Tuesday, July 31, 2012

L’uomo mancante a se stesso


Emanuele Severino, in una recente intervista, ha affermato che quello che l’uomo cerca sempre di evitare è il dolore e la morte. La dichiarazione dell’accademico potrà forse dirsi vera entro certe filosofie o per le epoche antiche, ma bisognerebbe notare che l’uomo contemporaneo è fatto, in proposito, di ben altra pasta. L’uomo del mondo nuovo ha ormai smarrito gli orizzonti della morte e del dolore, non perché questi siano stati cancellati, ma perché è diventato talmente incosciente e inconsapevole di sé da non sentirli più quali orizzonti propri. L’uomo contemporaneo si indirizza al consumo, alla pianificazione materiale, all’acquisizione di cose e certificati, ai programmi ed al guadagno economico e questo è tutto quanto gli è rimasto della vita. La sua esistenza gli appare come un grande gioco di profitti, perdite e pianificazioni dal cui orizzonte è scomparsa la morte, il dolore, ma anche la passione, l’amore, l’empatia, la ricerca di senso e la conoscenza. Anzi, l’uomo contemporaneo sacrifica sull’altare delle sue illusioni proprio quei sentimenti che rendono l’umana misura alla vita. L’uomo contemporaneo ha annullato se stesso fino al punto da non riconoscere più l’annullamento (in altri termini si direbbe che si è abbandonato all’alienazione). Quest’uomo nuovo ha sposato il non-senso in maniera talmente radicale da non riuscire a riconoscere null’altro dalle sue illusioni e per questo pianifica, sceglie e programma come se la sua vita ed i suoi giochi fossero indubitabili e infiniti. L’uomo contemporaneo, come i suoi progenitori, ha certamente ancora paura di ciò che potrebbe accadergli domani, ma ha al tempo stesso completamente rimosso il pensiero di dove conduca il cammino della vita. Fino a poche generazioni addietro si aveva ancora coscienza, anche linguistica, della temporaneità e caducità dell’esistenza e la si accettava per la sua naturalità: pulvis et umbra sumus. L’uomo contemporaneo sembra abbia invece dimenticato tutto di sé, abdicando ad un pseudo dover-essere dettato da deliri collettivi e globali e pare raggiunga ormai il dolore e la morte in maniera puramente accidentale.

L’uomo contemporaneo, perso nei suoi costrutti, è così convinto della sua potenza da pensare di poter pianificare anche contro il destino e contro il cuore. Suddito della tecnica, crede di poter pre-vedere l’esistenza e, per questo, si illude di riuscire a pianificare fino ad aggirare gli orizzonti umani di dolore e morte, anche perché spera nel soccorso della tecnica che, secondo lui, lo aiuterà a sconfiggere il dolore e posporre la morte. Per questo l’uomo contemporaneo si allontana dalla religiosità, anche se la sua è più una defezione che un allontanamento dal divino; avendo per millenni interpretato l’Eterno come la potenza suprema egli ha ora liberato la tecnica, ossia una potenza più materiale e vicina cui allearsi, abbandonando il divino solo perché non lo rassicura tanto quanto la tecnica (ma ci sono anche quelli che, tanto per non farsi mancare nulla, tengono da una parte la tecnica e dall’altra la religione). Autenticamente vivo è, però, chi sente e comprende, come i poeti, che nella vita c’è più delle cose (Hegel ribadiva che la coscienza è più forte della morte perché la oltrepassa), ma l’uomo nuovo è stato astutamente accecato alla luce.

E’ evidente che un individuo che ha rimosso dall’esistenza la morte, il dolore e le passioni, ha anche rimosso ogni forma di pensiero profondo e di sapientia perché queste lo ricondurrebbero nuovamente a quelle verità e quegli enigmi che preferisce invece provare ad aggirare. Da qui il sorgere di un mostruoso apparato (l’Odradek?) per conseguire la negazione dell’esistere dentro la vita: mezzi di distrazione di massa, traguardi apparenti, finti conseguimenti, giochi sociali ed economici con i quali provare ad eludere e ingannare il tempo e respingere la coscienza del memento mori. La nostra è un’epoca di scombinata stultitia e incoscienza, come pensare allora che possa invocare o avvicinarsi a ciò che non le assomiglia per niente? 

(Dr. Divago)

Friday, July 27, 2012

Brevissima digressione sull’alienazione



Quando Theodor Adorno, riecheggiando il concetto di alienazione in Marx, dichiara «Es gibt kein richtiges Leben im Falschen» che, tradotto per quanto possibile, significa «Non può esserci vera esistenza in una vita falsa», questo significa anche che il gergo dell’inautenticità non può parlare la lingua della veram vitam. Tra la perduta gente, però, l’alienazione appare non come la forma d’esistenza migliore, ma come la sola forma d’esistenza possibile. All’hombre-masa (uomo-massa), spiegato e sezionato da Ortega y Gasset, le bieche prebende dello Spätkapitalismus bastano e avanzano. Diversamente da quanto si possa credere a prima vista, il mondo massificato e deumanizzato in cui vive la medietà è proprio quel mondo in cui si trova a suo agio e che aveva in testa fin dal primo momento e farebbe davvero fatica persino ad immaginare un mondo diverso.

Per comprendere la disperazione è necessaria la riflessione, ma l’hombre-masa rigetta la riflessione (e Adorno questo lo sa molto bene perché ha studiato Kierkegaard in profondità). L’hombre-masa considera se stesso pressappoco come uno dei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, il suo carattere è quello che gli viene attribuito sulla scena collettiva, ma egli non è una comparsa quanto un protagonista attivo della storia: la silent majority, la maggioranza silenziosa, cara a Richard Nixon. Aldous Huxley, invece, li chiamerà i gamma: «We’re not too stupid, we’re not too bright, to be a Gamma is to be just right, Non siamo troppo stupidi, non siamo troppo intelligenti, ed essere un Gamma significa essere normali». Il mondo intero, lasciato al dominio della medietà, sembra sia così precipitato nel griogiore di una spaventosa pseudo-normalità che vuole tutto uguale a se stessa: «Masa es todo aquel que no se valora a sí mismo – en bien o en mal – por razones especiales, sino que se siente “como todo el mundo”, y, sin embargo, no se angustia, se siente a salvo al saberse idéntico a los demás. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso – né in bene né in male – mediante ragioni speciali, ma si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri» (La rebelión de las masas). L’hombre-masa è anche un relativista assoluto e così non si astiene dal male, ma vi è indifferente (così come al bene), la sola cosa che sembra intenda è ciò che ritiene utile a sé e per questa ragione è pronto e capace a tutto.

Nell’ambito della desperatio della società contemporanea l’uomo ha sconfinato nei territori del nulla e tutto ciò che sa d’umano lentamente scompare: sembra conti unicamente il minimo comun denominatore; svaniscono allora il vero amore, l’empatia, la solidarietà o l’amicizia autentica e tutto viene omologato e fatto in serie, si tratti di sentimenti o pensieri. Tutto ciò che c’è ancora di umano svanisce dunque sotto gli strali del sole nero dell’omologazione e resta solo la somiglianza primordiale agli atteggiamenti dominanti del branco che trasforma gli uomini in ambigue copie di carta carbone gli uni degli altri. In un decennio particolarmente significativo riguardo al trionfo delle masse Emile Cioran, poco più che ventenne, scrisse un trattato memorabile sulla disperazione: «Gli uomini in perfetta salute, normali e mediocri, non hanno né esperienza dell’agonia né il sentimento della morte. Vivono come se la loro vita avesse un carattere definitivo» (Al culmine della disperazione, 1934, trad it. p. 34). Proprio nella stessa epoca in cui Cioran approfondiva la tragedia dell’uomo moderno, l’attrice e regista di regime Leni Riefenstahl invocava invece l’altisonante Triumph des Willens, il Trionfo della volontà, associando, implicitamente, quantomeno nell’intento del suo filmetto propagandistico, una sorta di gioioso asservimento collettivo alla presunta volontà delle masse. Eppure, già a suo tempo, il grande Socrate parlava sempre ad un uomo solo e l’arguto Cicerone insegnava a diffidare della presunta volontà collettiva Senatores probi viri, Senatus autem bestia che, reinterpretato, diventa: un uomo solo è buono e onesto, ma una massa è una mala bestia.

Il “gamma” non può né sa più riconoscere in sé nulla che sappia ancora di umano, anzi, per colui che vive nell’alienazione più profonda, ogni parola autentica gli sembrerà una parola d’orrore. Per questo sono subito pronti e proni a trasformarsi in volenterosi funzionari volontari dell’apparato (cfr. il libro di Daniel Goldhagen, Hitler’s Willing Executioners‎, 1996, trad it. I volenterosi carnefici di Hitler, 1998), per discriminare e uccidere con tanto zelo i diversi, oppure per vilificare e trasformare in merci anche le parole dei sapienti.

Mai, come nella nostra epoca, le domande fondamentali degli esseri umani sono state taciute fino a questo punto, oppure vi si sono date risposte ad altezza della banalità del tempo. Negli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, basta guardare pochi minuti di un canale dove sbraitano dei telepredicatori (cor exercitatum avaritiae habentes maledictionis filii, II Pietro 2:14) e ci si accorge con chiarezza come un messaggio complesso e strutturato come quello biblico venga vilipeso e ridotto a brandelli da gettare ad una folla ormai resa cieca da quella luce che fa risplendere la terra di trionfale sventura (Adorno). La sintesi concettuale che emerge dall’annientamento delle Scritture proposto da questi nuovi barbari è che l’Eterno, l’universo, l’esistenza intera sono per le misere concupiscenze dei piccoli uomini. Del resto, chi ignora il significato svuota tutto di significato (sull’argomento televangelisti suggerirei la lettura dello splendido articolo di John MacArthur, A Colossal Fraud, Una frode colossale, http://www.gty.org/Blog/B091207).

In quanto società, gli uomini agiscono sempre secondo sistemi di credenze, ma per coloro che vivono in quel particolare sistema questo appare come naturale e non come il prodotto di un contratto sociale, anzi appare come il solo mondo possibile. Quando in Campo de’ Fiori bruciavano Giordano Bruno c’era una folla festante e urlante che non aveva neppure lontanamente idea di chi fosse quell’uomo che portavano al patibolo o cosa significasse il suo pensiero, ma aveva il solo gusto di veder ardere sul rogo uno che non gli assomigliava. Questa è la stessa folla, massa, gamma o perduta gente che, da sempre, accompagna i dettami del non-essere. Non sono mai cambiati, hanno appena svestito una veste per indossarne un’altra.

Se c’è un personaggio astorico questo è proprio l’hombre-masa: oltre duemila anni fa urlava Barabba mentre oggi vota nel chiuso di una cabina elettorale di compensato, ma la sua bava non cambia. L’ hombre-masa è talmente impegnato da se stesso, dai suoi follicoli ed escrementi, da non avere tempo né passione per null’altro e per questo gli piacciono tanto questi poveri ricchi del nostro tempo, una minoranza di piccoli incoscienti senza fantasia né senso di alcunché ma con uno spropositato senso di se stessi. Gli piacciono così tanto da metterli a capo della tribù globale. La scomparsa delle capitali culturali è, poi, solo l’ennesimo segno di un’epoca che ha abdicato all’avere ciò che invece spetta all’essere.

Tutto ciò che la medietà intende, e attraverso cui definisce se stessa, è la sola sopravvivenza materiale e questo è tutto il suo povero mondo senza orizzonte, questa è la sola realtà con cui si confronta. Oggi, poi, è l’epoca trionfale delle masse e della medietà incontrastata e incontrastabile! L’omologazione sembra abbia raggiunto ogni vetta anche in virtù del fatto che pochi furbettini con le tasche piene, controllando con cura i mezzi di condizionamento di massa, propongono una lunga schiera di minus habens quali modelli da emulare. L’hombre-masa pare abbia così conquistato ogni rocca trovando facce uguali alla sua in ogni luogo: capi di Stato e premi Nobel gli assomigliano e forse anche per questo l’arte non riesce più ad esprimere neppure i volti, non riuscendo a mettere una faccia su una tela o su una statua, trovandosi così costretta a ripiegare e rifugiarsi nell’informe, su ciò che non assomiglia al volto di quell’opprimente mediocrità che scruta da ogni dove. E guai a non assomigliare a quella faccia piatta che appare ovunque, poiché se l’uomo dello Spätkapitalismus è profondamente patetico è, allo stesso tempo, anche estremamente pericoloso: We’re not too stupid, we’re not too bright, to be a Gamma is to be just right.

(Dr. Divago)