Saturday, December 1, 2012

Primo Levi e la ferita della Shoah


              Una nota oscura e grave accomuna i sopravvissuti ai campi di sterminio ossia la memoria di orrori indicibili perpetrati dall’uomo sull’uomo. Primo Levi, Bruno Bettelheim o Paul Celan erano tre grandi intellettuali che sopravvissero fortuitamente ai lager, ma non riuscirono a sopravvivere al ricordo delle mostruosità alle quali erano stati fatalmente esposti laggiù poiché anche il ricordo è capace di uccidere. Forse, dopo aver attraversato la Shoah, persino nel mondo cosiddetto libero, negli occhietti cattivi di certa gente, le loro anime sensibili continuavano a scorgere il disumano ghigno del carnefice. Il grande poeta Paul Celan, mentre si trovava imprigionato e affamato nel ghetto, respingeva la barbarie degli eventi traducendo i Sonetti di Shakespeare, quasi a dimostrare che la poesia è la più solida barriera contro la brutalità del mondo, ma egli stesso non riuscì poi a scampare al mondo cosiddetto “normale”, finendo annegato nella Senna neppure un trentennio dopo. Bruno Bettelheim si soffocò con un sacchetto di plastica e Primo Levi pare si sia lasciato cadere dalle scale di casa, un gesto lieve ma dalle conseguenze terribili. Questo significa che il peso della Shoah si propaga avanti e indietro nella storia e chiunque creda che la Shoah sia qualcosa che riguarda solo il popolo ebraico non ne ha davvero inteso la portata né il significato. Nel rapporto tra la Shoah e il mondo c’è il peso e l’ambiguità degli interrogativi irrisolti che la parte evoluta della nostra specie si pone da millenni: Si Deus est, unde malum? Et si non est, unde bonum? (Boezio) La Torah racconta che Caino venne condannato ad essere “vagabondo e fuggiasco sulla terra” e chi sa leggere le Scritture oltre la scrittura comprende che nell’universo concentrazionario è tornata a manifestarsi la contorta anima vagante di Caino contro l’innocenza della vittima: laggiù Abele il giusto (Matteo 23:35) è stato ucciso ancora e questa volta non si è trattato di un atto rabbioso e brutale consumato, sul momento, da un uomo contro un altro, ma il prodotto di una complessa macchina dell’odio che mostra i denti aguzzi della tecnica e della modernità. Se c’è un marchingegno che inaugura e forse caratterizza l’inizio dell’epoca moderna questo è, più di altri, la ghigliottina da cui si diparte quella tenebra che inizia ad «illuminare la terra di trionfale sventura» (Adorno e Horkheimer, 1944). Alcuni credono e ripetono che i campi di sterminio furono il prodotto di una barbarie antica, mentre quello che sembra mostrino è il volto della rinnovata barbarie della tecnica e della modernità. La Shoah non è un Pogrom, ma un genocidio scientemente pianificato e questa è una differenza non da poco, né da considerare con leggerezza.

            Primo Levi, Bruno Bettelheim o Paul Celan non avevano la tempra di Caino ma il cuore d’Abele e per questo, molto dopo averne superato torture e sopraffazioni, sono ancora stati uccisi dai campi. Sono riusciti a sfuggire all’aguzzino, ma non alla ferita che questi aveva impresso nei loro cuori. Al mondo l’anima dolce e buona sembra soccomba sempre contro quella brutale e selvaggia. Almeno così sembra.

            Per quanti sforzi si possano fare, per quanto si legga e si studi, è per noi impossibile riuscire davvero a “comprendere” l’esperienza dei campi di sterminio, anche se possiamo estrapolare il comportamento degli uomini dalle situazioni ordinarie a quelle straordinarie – difficile, poi, dire se i campi rientrino nell’esperienza straordinaria o in quella dell’assolutamente altro. Quando si pensa al comportamento degli uomini ed a quello che sono quotidianamente disposti a fare anche per delle minuzie, a come sono facilmente pronti e proni ad adeguarsi e sottostare a qualunque ordine maligno delle cose, si può provare ad immaginare i livelli aborrenti raggiungibili in una situazione mostruosa e spaventosa come quella dei campi di sterminio. Se già in una scuola, una caserma o un semplice posto di lavoro in una cosiddetta società libera ci sono cani e caini pronti a tutto per un nonnulla, cosa sarebbe capace di fare questa stessa gente in un luogo dove l’orrore è la sola regola da cui dipende davvero la sopravvivenza? Domanda pesante quest’ultima, perché interroga sulla stessa costituzione ultima dell’umana natura, chiedendosi se l’uomo sia una creatura fondamentalmente benigna o maligna. Una creatura che, a dispetto dei tanti giochi e orpelli tecnologici di cui oggi dispone, sembra non sia ancora uscita dalla foresta, utilizzando una tecnologia dell’era atomica come se fosse ancora la solita vecchia clava.

            A meno di non essere ideologicamente motivati è arduo riuscire a pensare la modernità prescindendo da Auschwitz ma, fatto ancora più inquietante, è anche impossibile pensare Auschwitz prescindendo dalla modernità. Questa è una pericolosissima equivalenza che conduce all’assunto secondo cui i campi di concentramento rappresentano una misura della modernità, tanto quanto la modernità è una misura dei campi di concentramento. I lager non soltanto mostrano il dispiegarsi di un apparato tecnico dell’incubo, ma anche la sospensione di qualunque pensabilità e questa sospensione è ben più radicale di quanto appaia, ponendo gravi interrogativi sulla natura stessa dell’umano e mettendo radicalmente in discussione l’assunto di Terenzio secondo cui Homo sum, et nihil humanum a me alienum puto, In quanto uomo non posso reputare a me estraneo nulla di ciò che è umano. Anche essendo fratelli, Caino e Abele sono eternamente estranei. Il malvagio, del resto, assume sempre la prospettiva di Caino secondo cui il mondo è cattivo e si meraviglierebbe del contrario, mentre per Abele la malvagità è sempre fonte di supremo stupore. Abele è Isacco per il suo stupore, Isacco è Abele per la sua rassegnazione.

            In una tra le tante orribili storie della seconda guerra mondiale si racconta di un gruppo di ebrei rinchiuso in un granaio a cui i soldati nazisti si apprestavano a dar fuoco. Quando un sottufficiale tedesco entrò nel fienile con una torcia pronto ad appiccare il fuoco, un vecchietto terrorizzato gli pose una sola domanda: “perché?”. Il soldato allora lo guardò e rispose con un ghigno: “Hier gibt es kein warum! Qui non c’è nessun perché!”.

            È singolare come sia proprio la rozza risposta della soldataglia senza cuore a rendere l’intima natura di quello che stava accadendo: “qui non c’è nessun perché”, risponde conclusivamente il soldato senza onore. Se la ricerca delle ragioni determina la qualità intrinseca della vita autenticamente umana, l’assoluta inumanità dello sterminio non poteva che escludere qualunque richiesta di senso. Laggiù non poteva esservi nessun perché, né alcuna risposta e anche da qui la radicale impensabilità della Shoah. Isacco, davanti al coltello d’Abramo, non pone alcuna domanda.

            Comprendere e amare, le due indissolubili forme più elevate dell’esistenza, vengono sottratte all’uomo dal male. La teologia accoglierà la sfida di questa deprivazione in tanti modi dagli gnostici che vedono persino un contrasto tra il D-o buono e il Demiurgo, al male come privatio boni in cui si prova a negare radicalmente il malum, indicando la sua irrealtà e insostanzialità, fino all’estrema fondazione di un mysterium iniquitatis tra le trame del male e del bene (II Tess. 2:9). La privatio boni – e vi si potrebbe ben aggiungere la privazione del vero e del bello – apre quel varco esistenziale in cui s’insinua la perniciosità della brutalità e del male. Quando “non c’è nessun perché” la vita si spalanca sui panorami della solitudine e del nulla con conseguenze sempre fatali per il corpo, lo spirito e il mondo.

            Durante la guerra, nei giorni dell’abiezione, quando l’umanità andava incontro ad una frattura nel tempo che la storia non aveva prima conosciuto, l’orrore era diventato la norma della comunitas. Per questo, tra le tante cose, Auschwitz contiene purtroppo un’unicità che costringe a ripensare la storia e persino il rapporto con il divino.

            In un saggio teologico breve e fondamentale Hans Jonas (Le concept de Dieu après Auschwitz, Il concetto di Dio dopo Auschwitz) coglie quest’aspetto cruciale proprio mettendo in discussione la pensabilità del divino dopo Auschwitz e mettendo in guardia dal rischio ontologico posto da questa frattura nel tempo in cui l’agire umano determina quel tragico punto ove persino l’Eterno potrebbe rimpiangere di aver lasciato divenire il mondo, puisse regretter d’avoir laissé devenir le monde. Una tra le molte lezioni della storia è che nell’uomo c’è l’angelo tanto quanto il demone, ma quando il demone diventa il signore incontrastato del mondo, allora l’Eterno non volge lo sguardo dalla Sua creazione ma vi torna per salire i gradini del patibolo o del Golgota, per venire lapidato, torturato, gasato, arso sui roghi o bruciato nei forni crematori. L’Eterno, dunque, muore ovunque venga commesso il male e risorge dovunque avvenga il bene.

            Per parte sua Primo Levi, nelle sue opere, non descrive il rischio ontoteologico della creazione né accenna all’abbandono dell’Eterno, la sua è una narrazione che appare semplice, uno scrivere che è come un percorso in cui l’autore vuol far ripercorrere al lettore le fasi del cammino a cui il destino lo ha infaustamente sottoposto. Primo Levi conduce il lettore quasi fin dentro il campo di sterminio e prova a cogliere l’inesprimibile narrandolo, partendo ossia da dentro l’esperienza, svuotandosi di tutte le legittimazioni del mondo e raschiando il barile del dolore alla ricerca del nucleo delle verità umane che hanno sempre un rapporto molto prossimo con la dignità dell’uomo. Se volessimo trovare una parola da cui iniziare a leggere tutta l’opera di Primo Levi, questa parola sarebbe racchiusa nell’assordante interrogativo della poesia: Se questo è un uomo con cui si apre il romanzo. «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno». Primo Levi non pone una domanda, perché sa bene che Auschwitz è il luogo dove muoiono tutte le domande, Levi chiede soltanto di “considerare”. Considerare se quest’essere affamato, spaventato e infreddolito che può morire per un sì o per un no dettato dall’arbitrio è ancora un uomo significa anche: provate a pensarci se ne siete capaci e provate a darmi una risposta e magari riuscirete a capire che quanto è accaduto laggiù non è neppure pensabile. Se quello che avvenne nei giorni della Shoah è oltre l’umano è, dunque, anche oltre la pensabilità. Levi infatti continua la poesia con un’esortazione, anzi un comando profondamente ebraico, in cui esorta all’obbligo della memoria (Zakhor), l’unica resistenza possibile, l’unica benedizione lasciata in un mondo dove non c’è più né alto né basso: «Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi, alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi». Nella seconda parte del poema Levi è dunque perentorio, una perentorietà per lui inusitata: “Meditate che questo è stato”, ossia provate, se ci riuscite, a capire quello che non può davvero esser capito, ma che ugualmente è avvenuto sotto il cielo! Anche se qualcosa sembra impossibile, questo non basta ancora ad evitare che questa avvenga. Sembra quasi l’inverso della frase ebraica che si ricava dal dreidel, la trottola di Hanukkah  dalle cui lettere נ (Nun), ג (Gimel), ה (Hei), ש (Shin), emerge la parola “נס גדול היה שם (Nes Gadol Hayah Sham), Un grande miracolo avvenne laggiù”, mentre la storia raccontata dai sopravvissuti di un mondo al contrario parla di “un’immensa sciagura che avvenne laggiù”, in un luogo che non bisogna però dimenticare, anche se già il ricordo è dolore e paradosso. E chi si rifiuta di ricordare fa già parte di quel mondo degli indifferenti che potrebbe, in qualunque momento, tornare ad impugnare lo stiletto essendo ancora parte attiva e consenziente di quel mondo che fa sempre paura. Chi sta con Caino sta ineluttabilmente e sempre contro Abele.

            La dignità è la prima virtù sottratta agli uomini resi schiavi dalla violenza ed i lager, in quanto misura estrema dell’orrore, sono anche la misura estrema della schiavitù e della crudeltà che la cecità degli uomini sa imporre ad altri uomini. Non a caso Levi si chiede disperatamente “se questo è un uomo”, ma la sua è una domanda alla quale egli si rifiuta di dare risposta affermativa. Il pensare di Levi è quello che proviene dalle radici più profonde dell’ebraismo, quel pensiero apofatico che nella sapienza biblica non afferma ma nega e, poi, proprio sulla negazione costruisce una domanda: “tu non farai, non commetterai, non ucciderai...” e dopo – molto dopo – edifica un’etica su radici che partono da ciò che non si deve. Una teologia che comanda senza ordinare, un pensare che lascia spazio alla responsabilità dell’uomo di porre in atto, di eseguire ed essere dunque co-artefice del “comandamento” e, dunque, della creazione (il Rambam raccoglierà 613 di queste מִצְווֹת mitzvot, non tutte apofatiche, che il Talmud suddivide in 365 negative e 248 positive). Altre dottrine più autoritarie preferiscono invece l’imposizione di un ordine a quella di un comandamento, ma seguendo le teologia biblica è implicito che l’Eterno, avendo reso l’uomo libero, non vuole imporgli cosa fare, indicando invece la via etica del non fare. Ne I Doveri del Cuore, Ibn Paquda cercherà persino di costruire un razionalismo trascendentale nel tentativo di giustificare le “vie dell’Eterno” attraverso “prove e spiegazioni infallibili delle verità della Torah e della fede ebraica”. Un programma maestoso che ha anch’esso radici antiche nella cultura ebraica ove Adamo è il primo rabbi e, dunque, il primo ermeneuta del mondo. Rav Adamo, che alcuni definiscono come il primo nomoteta – poiché l’Eterno non nomina nulla nel mondo e si limita a crearlo e il Genesi riporta che questa creazione viene dichiarata טוב, “buona”. Dunque, in quanto ermenuta primordiale Adamo non si limita a nominare le cose, ma ne riconosce il nome vero, egli chiama le cose del mondo. Una rimembranza di questa facoltà la si riconosce nel sentimento d’Amore in cui unicamente la persona amata è in grado di riconoscere il nome vero dell’altro e persino colui che di quello stesso nome è portatore da una vita intera, quando questo emerge dalle labbra dell’amata, scopre di sentirlo pronunciare davvero per la prima volta. Il nome pubblico che tutti conoscono è allora anche il nome che nessuno conosce fino a quando non viene pronunciato dalle rosse labbra dell’amore: amor est magna essentia.

            Rabbi Adamo conosce le “spiegazioni infallibili” che manifestano la vera radice delle cose e nella lingua adamitica non c’è ancora confusione ermeneutica perché il mondo ha il nome che Adamo gli ha dato, non c’è ancora separazione né dissonanza e, dunque, nessuna frattura tra uomo e mondo. Non a caso la Septuaginta tradurrà lo Śhaṭan (הַשָּׂטָן) veterotestamentario con il termine greco diábolos (Διάβολος), colui che divide, in cui è proprio contenuta la radice δυάς, due. Da qui l’Uno/Unità come numero del divino e della perfezione e il due come numero della divisione e, dunque, del male.

            Se in poco più di un anno di campo di sterminio Primo Levi ha visto e vissuto più di quanto un’anima sensibile sia capace di sopportare, per Franz Stangl, comandante di Sobibor e Treblinka, il lager era solo un mondo possibile e neppure tanto illeggitimo, uno tra i tanti mondi che una mente degenerata è sempre capace di ammettere e partorire. I lager purtroppo insegnano una mostruosa lezione sull’uomo moderno che non soltanto non bisogna dimenticare, ma sulla quale bisogna ancora riflettere a fondo, senza però credere di poterne venire a capo non mettendo in discussione i fondamenti che rendono la società vulnerabile all’orrore. L’uomo che perde la misura dell’essere diviene preda del non-essere e non c’è, nel creato, fiera più pericolosa di quella che ha perduto il senso dell’orizzonte. Costoro sono uomini pericolosissimi perché saldamente aggrappati a deliri materiali lontani e irraggiungibili dal buono, dal vero e dal bello. In Manzoni l’Innominato si converte, viene ossia raggiunto dal bene, ma si tratta di un racconto, mentre tra i “cocci aguzzi del mondo” l’Innominato non si pente mai, non viene mai raggiunto dalla grazia. Quando a Franz Stangl, intervistato in prigione, venne chiesto cosa provasse per quello che aveva fatto egli rispose, come Eichmann ed altri, di non sapere cosa dire, che “eseguiva degli ordini”. Stangl, anche molto dopo gli eventi di cui si è reso mostruosamente colpevole, non prova nulla, non riesce a provare alcunché perché la sua anima non può più esser raggiunta dalla grazia. All’assassino non interessa di esser tale, non lo colpisce, non gli fa alcun effetto, perché non conosce o comprende un altro modo d’essere. Nell’album fotografico di un carnefice rinvenuto molti anni dopo la guerra venne persino trovata la scritta autografa: “Schöne Zeiten,  Bei tempi”, proprio sotto le foto in uniforme scattate nei campi di sterminio! Schöne Zeiten! Il mostro, del resto, non sa sollevare lo sguardo dalla sua mostruosità, anzi sa solo come distorglielo. Nell’abissale dissociazione in cui vive l’uomo malvagio egli, purché il dolore non lo tocchi direttamente, coglie anche il male assoluto come profittevole: è la spaventosa dilatazione dell’antico mors tua vita mea.

            È strabiliante notare la propensione con cui certuni accettano il male purché non li tocchi direttamente, almeno così essi credono. Costoro non sanno di nulla, ma non nel senso che non hanno informazioni, intelligenza o capacità pratiche, di queste ne hanno anche troppe, quello che non sanno è della vita vera, ossia l’esistenza che non bada solo alla sopravvivenza ed a tutti i suoi piccoli espedienti ed artifizi. Questa gente che crede di essere totalmente attaccata alla vita ne è invece lontana anni luce perché non sa nulla di ciò che la rende vera. Ed è impossibile raccontarglielo perché credono solo a ciò che parla la loro lingua, ossia una lingua di cose morte. Anche se milioni e milioni di praktikoi, i mercanti dell’esistenza, credono che la vita sia solo una forma ristretta dell’esistere, Socrate ha provato ad insegnare che una vita inconsapevole e senza pensiero non è neppure degna di esser vissuta, che non ne vale semplicemente la pena. Vivere solo in funzione di ciò che si crede materialmente vantaggioso ha inoltre un costo esistenziale immenso per sé e per gli altri, poiché uomini cresciuti da lupi sapranno solo agire come tali. Il malvagio, però, ritiene sempre di sapere da che parte stare perché la malvagità è per lui semplice, è una ferita tra uomo e uomo e così non c’è niente da capire o da decidere. Il bene è complesso e richiede partecipazione, bisogna capire, aspirare, sforzarsi, lottare con se stessi e si possono commettere errori, mentre al malvagio l’errore non interessa in quanto è già compreso nella malvagità. Il malvagio non comprende che la sua astuzia attrae molte sventure contro cui Matteo avverte categoricamente: «tutti quelli che prendon la spada, periscono per la spada» (26:52).

            Quando una società, agitando davanti agli occhi della gente sogni di benessere materiale – sono sogni perché bisogna proprio essere addormentati per crederci –, riduce la vitalità dell’esistenza al presunto profitto, vuol soltanto creare un mondo di automi alienati e senza cuore con quattro furboni in alto che credono di poterla sempre far franca. Di fronte al malvagio il mondo si svuota di senso e sembra quasi crollare ogni spiegazione possibile, perché la sua stessa vita non accetta spiegazioni, “non c’è nessun perché”, vive come se fosse agito da forze spettrali e il suo presunto attaccamento alla vita è, in realtà, solo un curioso desiderio di morte – come spiegò grandiosamente, il 12 ottobre 1936, il filosofo Miguel de Unamuno ai Falangisti spagnoli a Salamanca.

            Alla domanda se si possa ottenere l’annullamento dell’umanità nell’uomo Primo Levi risponde: “purtroppo sì” e acutamente aggiunge che questa perdita avviene non soltanto nella vittima, ma anche nel carnefice e questo sembra quasi un ritorno a Tommaso Campanella quando avvisava che l’ingiustizia non avvilisce solo chi la subisce ma deprava anche chi la commette.

            In uno dei verbali degli interrogatori precedenti al processo di Gerusalemme, Eichmann ebbe a dichiarare: “appartengo a quella categoria di persone che non si formano opinioni proprie” e, ad orecchie attente, questa risposta racconta più di quanto non sembri. L’automa non ha coscienza né esistenza, cosicché una società malvagia mira a diminuire il livello dell’esistenza individuale, perché a colui che non esiste non puoi chiedere alcuna responsabilità etica o morale e diventa, dunque, un perfetto strumento nelle mani dei pochi vili. È una caratteristica del malvagio quella di lasciarsi convincere solo dalla malvagità poiché, nella distanza dall’essere in cui ha posto il suo cuore, questa è la sola cosa che lo raggiunge e su questo attecchiscono i molti mali del mondo: «l’animuccia di coloro che sono detti malvagi, ma che sono intelligenti, vede in modo penetrante e distingue acutamente le cose alle quali si rivolge, in quanto ha la vista non cattiva, bensì asservita alla malvagità, di guisa che quanto più acutamente vede, tanto maggiori mali produce» (Politeia, 519 a). Primo Levi notava che nell’epoca della barbarie “era difficile dire chi era nazista e chi non lo era: tutti dicevano di sì”. Allora, rispondere ancora “no” è forse una tra le virtù più umane che ci siano oggi rimaste e raramente concesse.

            (Sergio Caldarella, Primo Levi e la ferita della Shoah, in «QOL» 154/155, Nov. 2012).