Sunday, May 26, 2019

Mark Fisher: dal postmodernismo cyberpunk al postcapitalismo

Mark Fisher è stato un teorico della cultura di massa (culture theorist) morto suicida il 13 gennaio del 2017, all’età di 48 anni:[1] tra le sue pubblicazioni figurano testi sulla depressione, il post-punk ed altri temi contemporanei, fino ad arrivare al libro Capitalist Realism,[2] il suo lavoro più noto in cui analizza i modi attraverso cui l’ideologia dominante contemporanea pretende di condensare ed appiattire il senso e le varie forme del reale su un discourse unicamente economico. L’essere umano ad una dimensione, già teorizzato da Herbert Marcuse (1964), è sostanzialmente l’homo oeconomicus per il quale non esiste – né può esistere – altra dimensione da quella economica, un soggetto sociale il quale, dopo essersi arrampicato sul teatro della storia globale, vuol adesso imporre la propria visione economica monocola come la sola possibile alla quale non è ammessa alternativa alcuna. È partendo dal presunto «realismo» di questa visione unidimensionale che viene rivolta la critica alla modernità proposta da Fisher la quale, muovendo dall’analisi di determinati modelli culturali del postmoderno, giunge al capitalismo neoliberista che egli indica con il termine, ripreso altrove, di «realismo capitalista». Nell’ambito discusso da Fisher, la definizione di realismo capitalista è indirettamente ispirata alla celebre dichiarazione di Margaret Thatcher secondo cui «non c’è nessuna alternativa» al sistema economico-politico della globalizzazione postbellica: there is no alternative, dirà esplicitamente, ed a più riprese, l’ex Primo ministro del Regno Unito. Questa dichiarazione della premier britannica, variamente utilizzata dai diversi partiti conservatori, poi passata anche ad altri partiti, è il perno su cui ruota il credo omogeneamente diffuso della politica neoliberista nell’epoca del giro di vite contemporaneo, basato su accumulazione e concentrazione, che i poteri forti stanno manifestamente imponendo attraverso la globalizzazione della loro visione economicista[3] fin nel più remoto angolo terraqueo. È in proposito nota anche la sorprendente ripresa della dichiarazione della Thatcher da parte dell’ex cancelliere socialdemocratico (SPD) tedesco Gerhard Schröder il quale ripetè, praticamente traslitterando la frase originaria dall’inglese al tedesco: «Es gibt keine Alternativen...». Su questo punto viene già da chiedersi: perché il cancelliere socialdemocratico della Repubblica Federale ripeta, pari pari, una terminologia utilizzata da un primo ministro conservatore britannico? Che parallelismo è mai questo? Com’è possibile che vi sia un discorso profondamente e radicalmente politico com’è quello sull’indirizzo di una società che viene, però, utilizzato indifferentemente da partiti conservatori e socialdemocratici, come se questo fosse, invece, un tema neutrale? Non è già questo un elemento di una considerevole stranezza? Così come sono anche ben sospette le politiche di privatizzazione dei beni e servizi pubblici iniziate in un punto del mondo e poi passate agli altri Paesi utilizzando un modello di dismembramento del pubblico e di appropriazione privata pressoché eguali.[4] Non sono quantomeno curiose queste sincronie politiche tra partiti e schieramenti i quali, in apparenza, non dichiarano molto in comune, ma agiscono, poi, come se danzassero al ritmo di una stessa orchestra? È un fatto su cui bisognerebbe vi fosse quantomeno un concreto dibattito pubblico che non c’è ed è in particolare su quest’assenza che si basano la forza e le strategie oligocratiche contemporanee.

Nel termine di realismo capitalista, utilizzato da Fisher, si sente anche l’eco e l’inversione del vecchio e tristemente noto motto di «realismo socialista», formulato da Maksim Gor’kij nel ’34, ossia all’inizio del terrore stalinista che divenne, poi, l’imperativo in tutte le arti nel blocco sovietico, trasformandosi in uno slogan alla base di un costrutto ideologico che operava tramite l’imposizione di modelli estetici ben specifici e politicamente eterodiretti. L’affinità tra «realismo socialista» e «realismo capitalista» non consiste unicamente nel nome, in quanto il realismo capitalista pratica, in molti campi, operazioni affini all’intenzione originaria del realismo socialista, arrivando ad utilizzare persino l’arte come forma pubblicitaria e la pubblicità come se questa fosse arte. Dal lato apparentemente opposto al mondo socialista, infatti, le litografie di lattine di conserve alimentari, oppure le immagini grafiche di Topolino realizzate da Andrew Warhola – meglio noto come Andy Wharol – sono tra le più note rappresentazioni autocelebrative del realismo artistico capitalista che, proprio in virtù di questa rispondenza ideologica al modello dominante, resero il loro autore una delle figure più apprezzate dalle case d’aste d’America e dal pubblico dei Paesi satelliti degli Stati Uniti. Se, da una parte, abbiamo gli artisti e gli intellettuali del realismo socialista, dall’altra abbiamo quelli del realismo capitalista: cambiano i termini e l’applicazione, ma non il risultato. È anzi singolare osservare come, su molti termini chiave e concetti fondamentali, la simmetria tra comunismo dei Soviet e capitalismo sia fortemente impressionante, rafforzando quella distinzione tra capitalismo di Stato ed economia capitalista privata controllata dallo Stato borghese già indicata da Friedrich Engels nel suo scritto: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880).[5]

La vicenda del libro di Mark Fisher sul realismo capitalista, ma potremmo anche dire la sua biografia politica, ha inizio durante quella fase postbellica della controriforma del capitalismo portata avanti anche con l’insediamento della baronessa Margaret Thatcher[6] e dell’attore hollywoodiano Ronald Reagan,[7] la governante ed il maggiordomo dei «poteri superiori»,[8] sostenuti dal grande capitale e coadiuvati dal possente strumento di manipolazione sociale rappresentato dall’ideologia del neoliberismo,[9] i quali sono stati esecutori di una svolta politica la cui portata storica non è stata ancora valutata adeguatamente. La Thatcher e Reagan impongono, apertamente, una riduzione delle libertà e dei diritti individuali della maggioranza dei cittadini a favore delle oligarchie dominanti. La Thatcher e Reagan erano la donna e l’uomo giusti per portare avanti un progetto di società con cui si propone, sotto mentite spoglie, la diseguaglianza socioeconomica come necessaria, poiché basata sulla presunta, quanto naturale, «inevitabilità» del modello economico capitalista, cioè su una trasposizione di darwinismo sociale e realismo borghese secondo cui la differenza tra ricchi e poveri è un fatto «naturale» e, in certi casi, persino «divino» – il tutto presentato, ovviamente, come se venisse perpetrato nel nome dei popoli e del loro interesse e benessere. Max Horkheimer, in un saggio del 1936 su Autorità e famiglia,[10] scriveva già di «sofferenze causate dalla realtà che sotto il segno dell’autorità borghese opprime l’esistenza».
La dislocazione del potere verso il reame dell’astratto lo rende ancora più forte in quanto, non potendolo più identificare in maniera precisa, questo viene trasformato in un’astrazione la quale assume, concettualmente, gli stessi caratteri genericamente attribuibili alla necessità naturale, ossia i caratteri di una forza inevitabile, irresistibile e irraggiungibile determinando, così, da una serie di convenzioni e regole socioeconomiche, una necessitas ordinis naturalis. Questa è la rappresentazione ideologica della necessità o dell’inevitabilità capitalista o neoliberista. Contro un tale potere non incarnato, nessuna resistenza appare più possibile giacché non vi è un soggetto concreto contro cui resistere. Questa è proprio quell’irraggiungibilità del Castello indicata da Kafka attraverso metafora.
Esser posti nella condizione di non avere alternative ha, inoltre, anche un effetto retroattivo e significa dover accettare come «naturali» tutte quelle premesse che hanno condotto alla situazione sociopolitica attuale: una sorta di serpente che si morde la coda.

Macabri retori del potere come la Thatcher, Ronald Reagan oppure, oggi, Trump o la cancelliera Merkel – non vanno certo a raccontare di rappresentare gli interessi di una ristretta classe privilegiata o di se stessi, ma dichiarano, con pompa magna, di avere a cuore gli interessi di tutti, soprattutto dei piccoli che sanno come manipolare abilmente a loro piacimento. Su questo punto, oggi come ieri, i più esposti alla violenza ideologica dell’apparato della modernità sono ancora gli stessi alla base della piramide sociale, ossia coloro culturalmente indifesi di fronte ai modelli ideologici e persuasivi con i quali l’individuo viene modellato in una massa docile agli ammaestramenti di coloro che detengono i mezzi.[11] L’uomo-massa (hombre-masa) è chi si propone, quale unico progetto di vita, autoconservazione e riproduzione e l’atomizzazione dell’essere umano che lo rende un mero soggetto materiale (homo consumens) è, in sé, propedeutica alla sua trasformazione nell’uomo-massa il quale vive, opina ed agisce secondo modalità omologate ed eterodirette che egli, però, ritiene illusoriamente autonome.

Non è certo casuale che Margaret Thatcher, oltre ad aver variamente ripetuto che non vi è alternativa al modello sociopolitico di cui ella era la benemerita rappresentante, abbia anche dichiarato, durante il terzo mandato da Primo ministro, nel 1987, il proprio credo secondo cui «There is no such thing as society, Non esiste una cosa come la società».[12] Forse qualcuno all’epoca avrebbe dovuto far notare da subito alla signora Thatcher che la storia conosce già l’assenza del concetto di società: la selva e lo stato brado non sono sociali, così come possono dirsi, per estensione, sostanzialmente antisociali le tirannidi, in quanto piegano e modellano la socialità ai vari capricci ed alla volontà di uno o di pochi. L’assenza di società non è libertà ma soggezione alla natura, oppure tirannide. Si può legittimamente dichiarare che la società, quantomeno nella sua concezione ideale, sia anche un tentativo di minimizzare o eliminare la brutalità e l’arbitrio tra i propri membri e, dunque, di ricondurre la regola del più forte alla regola del giusto. In tal senso, il darwinismo sociale o il capitalismo rappresentano i sintomi di una chiara regressione che si esprime, ideologicamente, nel ritiro concettuale con cui si propone che siano la forza o la massimizzazione illimitata del profitto e non l’aspirazione a libertà, giustizia e uguaglianza le regole «naturali» che determinano le condizioni fondamentali dell’esistenza umana. Vi è, inoltre, qualcosa di profondamente inumano in chi sa sempre e soltanto pensare unicamente a se stesso, intendendo la socialità unicamente come un luogo da cui prendere, senza avere altro orizzonte; chi vive solo per se stesso, in realtà non sta vivendo per nessuno: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà».[13] Dichiarare senza difficoltà che non c’è una società, come proclamava bellamente la signora Thatcher, ossia affermare che ognuno deve sempre e solo pensare unicamente a se stesso è, dunque, un principio radicalmente disumano.[14]
Queste asserzioni combinate secondo cui non vi è né un modello di vita alternativo e neppure una società esprimono, senza mezzi termini, il nucleo radicalmente antisociale ed anti-umanista dell’ideologia capital-liberista secondo cui non vi è alcuna società, poiché l’essere umano è gettato nel mondo come una cosa tra le cose in un ordinamento che lo sovrasta e dal quale non può più sottrarsi. L’essere umano che arriva a trasformare se stesso in una cosa per farsi valere sul mercato delle cose, quello che Marx definiva, nei Manoscritti, come «il dominio della materia morta sull’umanità», è colui il quale «deve diventare egli stesso una merce (commodity) in modo da poter esistere come soggetto fisico».[15] A questa terrificante riduzione della persona ad un oggetto o ad una statistica si pretende non vi sia alternativa, né scampo: «Ciò che prima, nella fondazione dell’ordinamento statale che si compiva in piena armonia con l’ideale di libertà, serviva a proteggere la libertà individuale, in séguito diventa un impedimento di questa stessa libertà, se all’ordinamento non ci si può più sottrarre»[16]  

Rivolgimenti moderni

Dennoch zeigt die ganze Geschichte der modernen Industrie, daß das Kapital, wenn ihm nicht Einhalt geboten wird, ohne Gnade und Barmherzigkeit darauf aus ist, die ganze Arbeiterklasse in diesen Zustand äußerster Degradation zu stürzen.[17]
Karl Marx
  
È proprio grazie a figuri imbellettati come Margaret Thatcher o Roland Reagan che, dopo l’interregnum seguito alle due grandi guerre mondiali, lo Stato viene progressivamente riconsegnato alle plutocrazie, rendendo impraticabile e, in molti casi, persino impossibile, l’esercizio di una libertà autentica per i cittadini a fronte di libertà formali garantite nominalmente. Baruch Spinoza, il quale era anche un fine teorico politico, aveva osservato, nel Tractatus Theologico-Politicus, che l’autentico compito dello Stato è di garantire la libertà, ma lo Stato cui fa riferimento il filosofo di Amsterdam non è certo quello che hanno come progetto la governante ed il maggiordomo dei grandi poteri ed i loro accoliti e mandanti. I ciambellani ed i retori del potere del nostro tempo fanno poi sì che personaggi come la signora Thatcher, Ronald Reagan, Milton Friedman, Henry Kissinger e tutta una sconvolgentemente lunga sfilza di esecutori dei dettami delle oligarchie e nemici della socialità vengano celebrati, a dispetto di qualunque evidenza, tanto quanto un tempo si glorificano e si facevano santi certi monarchi o armigeri che avevano adeguatamente servito, con cappa e spada, il papa o l’imperatore.

La subdola trasformazione contemporanea delle democrazie in sistemi politici a conduzione oligarchica è in molti modi congenita all’imporsi del capitalismo poiché, in una situazione in cui il capitalismo prevale come dottrina globale, non può esserci posto per entrambe i poteri ed il plutocrate inghiottirà fatalmente qualunque democrazia, trasmutandola in una mera democrazia economica (Wirtschaftsdemokratie),[18] ossia in un’econocrazia che serve, pedissequamente, i fini dei pochi.
I sistemi politici moderni e contemporanei non possono esser sinceramente detti oligarchie pure, quanto sistemi oligarchici mediati da democrazie formali (econocrazie), ossia svuotati di quasi ogni autentico contenuto democratico, tranne quello dell’episodico conteggio numerico dei voti. Qualunque sistema di potere mira, inoltre, a determinare sempre la visione del mondo di coloro che vi sottostanno [19] e, per ottenere tale risultato, necessita di un apparato che sia tanto materiale quanto ideologico, poiché senza la concomitanza di questi due elementi non può darsi un controllo sociale efficiente ed effettivo. Da questo punto di vista i sistemi oligarchici contemporanei utilizzano efficientemente la mediazione – e giustificazione – offerta dalle democrazie formali grazie alle quali è possibile motivare, efficacemente, l’apparato sociale e, al tempo stesso, nullificare eventuali resistenze interne offrendo, per l’appunto, una parvenza di legittimità democratica convenzionale: quella che viene qui definita come econocrazia. Ogni quattro o cinque anni si ripete il rito dell’urna elettorale e, in virtù di questa convocazione, chi carpisce il consenso[20] si proclama legittimato ad imporre qualunque norma ed ogni decisione presa dalla maggioranza partitica viene così investita dal crisma della sacralità democratica. Inoltre, come hanno evidenziato raffinati teorici del calibro di Hans Kelsen, anche se il meccanismo democratico non fosse gestito dall’alto, siano questi partiti e gruppi d’interesse ad essi correlati, «nel momento in cui la democrazia fa progredire l’ordinamentosorto secondo l’idea di libertà (in via ipotetica) per contratto e quindi per unanimità – con deliberazione di maggioranza, essa si accontenta di una semplice approssimazione all’idea originaria».[21]

Le ragioni per le quali il blocco sovietico crolla non sono, come vorrebbero far credere gli strilloni ed i menestrelli dell’ideologia dominante, unicamente economiche, ma sono legate più al fatto secondo cui al tipo di società dei Paesi del Patto di Varsavia si contrapponeva sì un modello sociopolitico in grado di offrire, in quel particolare momento storico, un benessere materiale non comparabile, ma aveva anche, alle spalle, un apparato ideologicamente più sottile e pervasivo – basti pensare all’enorme influenza che il cinema hollywoodiano ha avuto e continua ad avere sull’immaginario collettivo dei cittadini nei Paesi allineati alle politiche degli Stati Uniti d’America. Le società del credito e delle merci, contrapposte al blocco sovietico, avevano a disposizione un modello di realtà ben costruito cui i residenti dell’Est potevano far riferimento per mostrare ai loro carcerieri che un altro tipo di mondo era possibile tanto negli assiomi quanto nei fatti. La guerra fredda ha rappresentato un progressivo irrigidimento delle posizioni politiche di ognuno dei due blocchi in cui si è manifestata l’impossibilità di convivenza di due visioni del mondo formalmente divergenti: in questo conflitto tra ideologie, ognuno dei contendenti lottava per la sopravvivenza, ossia per il prevalere del proprio modello di realtà, ma questo significa anche indirettamente – e contrariamente al diktat della Thatcher – che altri modelli di società sono possibili ed il fatto che il modello mercantile-capitalista sia prevalso su quello leninista-sovietico non significa che da questa vittoria dipenda, necessariamente, ogni universo possibile,[22] ma soltanto che ha trionfato un economicismo più sottile ed efficiente.
Per molti versi, il benessere economico dei cittadini nel blocco occidentale dipendeva dal malessere dei cittadini dei Paesi del blocco comunista in quanto, vista la minaccia dall’altro lato, non era efficiente, per le oligarchie occidentali, inasprire la disuguaglianza e irrigidire le condizioni sociali a favore di una totale massimizzazione del profitto, poiché questo giro di vite prematuro avrebbe potuto generare delle svolte politiche indesiderabili per coloro al potere. Il lato grottesco e drammatico di questa vicenda è che, nel momento in cui i cittadini occidentali hanno celebrato la caduta del muro di Berlino come un evento che avrebbe favorito una maggior libertà per tutti, stavano, in realtà, celebrando un momento da cui le oligarchie dominanti d’Occidente avrebbero lentamente iniziato a limitare e restringere nuovamente le libertà di tutti. Per molti versi si può anche dire che, a partire dagli eventi del 1989, è ripreso quel processo di soggiogamento delle società che aveva visto un rallentamento e, in alcuni casi, una pausa seguita al 1918 ed alle varie rivoluzioni e rivolgimenti dell’epoca, dalla rivoluzione russa a quella tedesca con cui si giunse alla deposizione dello Zar e della monarchia degli Hohenzollern, il 9 novembre 1918, e lo stato tedesco divenne una repubblica parlamentare. La caduta del muro di Berlino si è allora rivelata non come un punto di svolta nella direzione di una libertà maggiore per tutti, quanto come il punto d’avvio verso la direzione contraria, ossia la data in cui, dagli artigli delle oligarchie occidentali, sono stati rimossi i legami di rivalità con altri sistemi concorrenti.
Nei Quaderni, Simone Weil aveva già avuto modo di osservare: «I poteri non faranno nulla per diminuire se stessi: anche se lo volessero, non lo potrebbero, a causa della rivalità»;[23] cascata però la rivalità, nulla può più porre freno alla follia efficiente che si è impossessata del metodo.
Nel novembre del 1989, i bravi cittadini d’Europa pensavano di celebrare, a Berlino, la fine del totalitarismo duro della Germania dell’Est e del blocco comunista mentre stavano, invece, concelebrando l’inizio della lenta fine delle loro libertà e del loro mondo.

Non avrai altro Dio all’infuori di me.

Once unquestioning obedience, once fully enslaved, / Once fully enslaved, no nation, state, city of this earth, ever / afterward resumes its liberty.
Walt Whitman 

Quando Margaret Thatcher, dall’alto della sua carica istituzionale, dichiarava che non poteva darsi altra alternativa al modello sociale da lei patrocinato, ossia quando affermava proditoriamente che il modello di mondo cui essa apparteneva si era imposto come dominante, nessuno dei minatori britannici in protesta (1984-1985) che le si trovavano di fronte potè replicare altrimenti. Similmente, nessuno degli 11.345 controllori di volo licenziati in blocco da Reagan, nel 1981, e banditi a vita da qualunque altra attività lavorativa con implicazioni federali per aver osato scioperare nel Paese della libertà condizionata, aveva potuto opporre alcunché al latrato del fantoccio imbrillantinato delle oligarchie a stelle e strisce. Il cosiddetto realismo capitalista che si palesa in questi eventi e discorsi è ancora il vecchio paradigma di quella collaudata logica di sferza, bastone e pugnale con la quale, tranne rarissime eccezioni, vengono dominati gli esseri umani dagli inizi delle società storiche. È ovvio che, dopo millenni di vicissitudini e, si potrebbe dire, anche di resistenza, questa logica antica deve proporsi con abiti nuovi e sgargianti, ma basta prestare un po’ di attenzione per capire che c’è troppo di vecchio in questo nuovo fiammante.

Ignacio Ramonet, autore, tra l’altro, dei libri La Tyrannie de la communication (1998) e Propagandes silencieuses (2000), aveva già definito, in un celebre articolo apparso su Le Monde diplomatique del gennaio 1995, l’assioma neoliberista secondo cui l’unica alternativa è l’assenza di alternativa come «pensiero unico» (pensée unique), ossia «la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale».[24] Nell’articolo in questione, Ramonet denunciava l’ideologia espressa nell’iperbole formulata all’epoca da Alain Minc secondo cui «il capitalismo non può crollare, poiché è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è». Ventitré anni dopo questa rocambolesca dichiarazione, lo stesso Alain Minc, in un’intervista su Libération, aggiungerà: «Il capitalismo è il sistema più efficace e più inegualitario».[25] Associando qui, con chiarezza, efficienza ed ineguaglianza!
Nel celebre articolo su Le Monde diplomatique, Ignacio Ramonet definiva la paccottiglia ideologica con cui si stordiscono le masse contemporanee come un «nuovo oscurantismo», perseguito con la complicità di un apparato di «docenti di economia, giornalisti, saggisti, uomini politici [i quali] si richiamano ai principali comandamenti di queste nuove tavole della legge e, attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa, li ripetono a sazietà, ben sapendo che, nelle nostre società mediatizzate, la ripetizione equivale alla dimostrazione».[26] Anche qui, ossia nell’idea secondo cui ripetere molte volte uno slogan equivalga già a «dimostrarne» la tesi, ritorna un vecchio topos del solito Machiavelli: come dicevamo, c’è troppo di vecchio e stantio in questo «nuovo» fiammante con cui vengono indirizzate, manipolate e costantemente soggiogate le comunità umane.
Una società soggiogata non possiede più una dimensione politica autentica: contrariamente al concetto greco di essere umano come animale politico, ζον πολιτικόν, al soggetto contemporaneo non si può davvero chiedere di possedere una dimensione politica. Per la gran parte, l’essere umano integrato contemporaneo è ormai un essere soggiogato da norme sociali determinate da una precisa oligarchia economico/politica della quale egli accetta il diritto divino o temporale al dominio. Questo è uno dei chiari punti in cui si dimostra il nostro esser tornati indietro socialmente, culturalmente e, dunque, umanamente.
Nel particolarissimo periodo storico contemporaneo, l’opera di Mark Fisher ha una sua rilevanza in quanto egli è stato una tra quelle poche recenti figure intellettuali del mondo anglosassone nel quale predomina, invece, una finta resistenza culturale ben inquadrata, ben pagata e riparata tra i torrioni del sistema di potere contemporaneo. Aver ripreso e rielaborato i temi della critica sociologica al capitalismo contestualizzandoli al discorso sociale e culturale attuale in cui si tende, invece, alla sistematica rimozione di tali argomenti, rende la critica di Mark Fisher ancor più rilevante poiché rende accessibili, al mondo di lingua inglese, temi che, in particolare in tali Paesi, vengono accuratamente espunti dal discorso culturale. L’opera di Mark Fisher offre un argomento valido a coloro i quali, tra le tante semplificazioni proposte nel mondo di cultura anglosassone, proclamano che esiste un solo modo per guardare al reale, ossia la visuale favorevole alle oligarchie capitaliste che la determinano. È del resto impossibile per l’autorità entrare in conflitto con il «reale» poiché il potere, proprio in quanto tale, detiene i mezzi per indirizzare le moltitudini su cos’è reale e cosa non lo è e questa capacità di manipolare l’immaginazione collettiva rappresenta la forza più grande di coloro i quali mantengono il controllo sulle società umane. Il fatto che si pretenda poi, o venga imposto, l’adattamento ad una sola visione del mondo la quale conduce ad un solo modello di realtà è già, in sé, una richiesta totalitaria. Un sistema come quello capitalista il quale si pone, intenzionalmente, come dimensione totalizzante rappresenta, al contempo, una visione del mondo nullificante e può, dunque, ben essere presentato anche come una forma di nichilismo.[27]

Mark Fisher definiva le sue ricerche sul Realismo Capitalista come «un progetto di negatività opposto al pessimismo» e questo poiché «il pessimismo spesso si riduce a vedere cose cattive dove non ce ne sono, mentre la negatività consiste, per altro verso, nell’esplicitazione di strutture, atteggiamenti e convinzioni che sono già presenti, ma che tendono ad essere tra-sparenti o addirittura misconosciute».[28] La rivelazione dell’aspetto macabro di una communitas eterodiretta da una minoranza che, detenendo i mezzi, modella la socialità a proprio favore, rappresenta, nella teoresi di Fisher, un «progetto di negatività opposto al pessimismo».

Mark Fisher, da teorico della cultura di massa, si occupava molto dell’influenza di fenomeni specifici dell’epoca contemporanea come i cosiddetti «social media», di elementi di costume diversi, dalla depressione quale elemento endemico alla società contemporanea e persino dell’effetto dell’uso dei telefonini sulla psiche, ma anche delle esperienze psichedeliche come modi per accedere a realtà alternative[29] e di molto altro ancora. Nello sviluppo delle sue analisi, Fisher è stato influenzato, in particolare, da autori recenti come Gilles Deleuze e Félix Guattari,[30] dal testo di Frederic Jameson, Postmodernism or the cultural logic of Late Capitalism,[31] così come dai romanzi cyberpunk di William Gibson e da parecchia filmografia. Oltre al tema centrale del realismo capitalista, nel pensiero di Fisher emergono altri concetti chiave come quello della «produttività simulata» (“the appearance of work is ‘new work’”), con la quale si «crea una simulazione burocratica della produttività (simulated productivity)», un tema sul quale pochissima attenzione è stata dedicata dai vari istituti ed istituzioni che si occupano del tema dell’economia. La produttività simulata è una tra le molte affezioni della società contemporanea costretta costantemente a mentire creando continue simulazioni per giustificare il proprio procedere e mantenere lo status quo.
È importante che Mark Fisher abbia reiterato, a fronte dell’apologetica proposta dai mezzi di comunicazione dominanti, il concetto secondo cui: «i veri parassiti della nostra società sono la classe dirigente»,[32] la quale determina la simulazione burocratica della produttività, determinando simulazioni di realtà proprio a partire dal mondo del lavoro passando, così, dalla produzione alla simulazione di questa, diventata ormai parte di qualunque processo produttivo burocratico, una conseguenza di cui i correnti epigoni del taylorismo e del postfordismo non si avvedono. Mark Fisher fa anche osservare, insieme ad altri studiosi, la connivenza della scuola, ed il tradimento dell’istruzione, in un sistema capitalista dove gli studenti «vengono modellati per un posto di lavoro».[33] Un tema/problema che emergeva già dagli scritti di Wilhelm von Humboldt ed è espresso anche nelle preoccupazioni di molti intellettuali e pensatori della modernità, ma che viene, al tempo stesso, escluso quasi per intero dal dibattito culturale ufficiale,[34] mostrando come vi sia una chiara direzione politica intesa a non disturbare il manovratore che ci porta allo sfacelo.


La malattia mentale come problema collettivo.

In dem Augenblick, in dem ein Mensch den Sinn und den Wert des Lebens bezweifelt, ist er krank.[35]
Sigmund Freud

Ponendosi, anche sotto quest’aspetto, nell’alveo di una consolidata tradizione culturale la quale ha antecedenti eminenti in pensatori del calibro di Freud o Fromm, in Capitalist Realism, Mark Fisher identifica la malattia mentale come problema collettivo: «la pandemia dell’angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere adeguatamente compresa, o guarita, se considerata come un problema privato sofferto da individui traumatizzati».[36] Questa è una visione generale della società moderna e degli individui in essa che si trova già in Sigmund Freud, Erich Fromm, Paul Goodman,[37] o R. D. Laing, un discorso che, anche in questo caso, svanisce lentamente dalla letteratura sociologica ufficiale della nostra epoca. Erich Fromm scriveva: «Parlare di una società intera come psichicamente ammalata comporta, implicitamente, l’accettazione di un’ipotesi controversa e contraria alle posizioni del relativismo sociologico condivise dalla maggior parte dei sociologi contemporanei. Essi presuppongono che ogni società possa esser detta “normale” giacché funziona, e che la patologia possa esser definita soltanto nei termini di un mancato adattamento individuale al tipo di vita proprio di tale società».[38] Se, del resto, la sociologia viene determinata nelle aule dei dipartimenti universitari, ossia sotto il controllo dello Stato o di privati e non attraverso un dibattito culturale ed intellettuale generalizzato, come si può ritenere che coloro i quali si trovano all’origine del problema dell’assenza di un dibattito culturale possano, poi, analizzarlo propriamente e indirizzare verso delle soluzioni? Sarebbe come pretendere che un virus studi la propria cura: «al processo della gallina, la volpe non dovrebbe far parte della giuria», avrebbe magari aggiunto lo storico Thomas Fuller.

Quello sulla «malattia della cultura» è un tema che sorge proprio dall’istituzionalizzazione di questa,[39] giunge fino a Spengler (1918) o all’ultimo Freud de Il Disagio della civiltà (1930)[40] e continua nel Fromm della Fuga dalla Libertà (1941) e della Psicoanalisi della società contemporanea (1955),[41] ma si affievolisce fino a svanire dal dibattito culturale ufficiale dell’epoca contemporanea in cui non soltanto «there is no alternative», per tornare a Fisher, ma quest’assenza di alternativa, secondo i suoi apologeti, è anche buona, giusta e indiscutibile. Fisher non intende però l’assenza di alternative in maniera rigida, ma come visione di una «realtà che è infinitamente plastica, capace di riconfigurare se stessa in qualunque momento»[42] e questo è uno dei sintomi di una società che si è separata dal reale e, essendo in grado di sposare qualunque finzione, interpreta la realtà come infinitamente plastica.
La fatale presa che le ideologie hanno sulla società contemporanea e la morsa sull’individuo e sulla sua psiche che queste determinano, deriva primariamente non dall’astuta veste con cui vengono imposte, ma dall’assenza di un solido retroterra culturale capace di spiegare e denunciare la costruzione di questi apparati ideologici fornendovi un antidoto culturale cui far riferimento per rispondere alla sfacciataggine ed alla mediocrità dei retori della modernità.
Gli studi di autori come Mark Fisher hanno un valore culturale e sociale particolare poiché introducono una lettura alternativa al discorso dominante sul capitale proprio nel mondo anglosassone dove esiste un sottile apparato propagandistico mai visto prima nella storia documentata della nostra specie e teso interamente alla creazione dell’incoscienza ed al soggiogamento della dissidenza culturale. Quando Mark ha deciso di sbattere la porta, togliendosi la vita, il mondo di lingua inglese in particolare ha perso uno dei suoi rari grilli parlanti.
(© Sergio Caldarella, Mark Fisher: dal postmodernismo cyberpunk al postcapitalismo, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 211, maggio 2019).



[1] Il 7 gennaio del 2019, a non appena un mese dalla scomparsa, un curioso riconoscimento della sua scomparsa è apparso persino sul Financial Times che gli ha dedicato l’articolo K-Punk — in recognition of Mark Fisher’s lasting influence a firma di Murray Withers.
[2] Trad. it. Realismo Capitalista, Nero, Roma, 2009.
[3] K. Polanyi ha osservato in merito: «Sintetizzare l’illusione fondamentale di un’età in termini di un errore logico raramente si rivela un modo di procedere adeguato; eppure dal punto di vista concettuale è per forza di cose impossibile descrivere altrimenti l’illusione economicistica». (La sussistenza dell’uomo, trad. it. Einaudi, Torino, 1983). Cfr. anche K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, trad. it. Einaudi, Torino 1979 e AA.VV., Il sofisma economicista. Intorno a Karl Polanyi, trad. it. Jaca Book, 2011.
[4] Un caso per tutti è quello riguardante la privatizzazione delle acque potabili portato avanti pressappoco seguendo lo stesso modello politico/commerciale dall’America Latina agli Stati Uniti fino all’Europa o all’Africa.
[5] Inizialmente pubblicato, nella traduzione di Paul Lafargue, con il titolo di Socialisme utopique et socialisme scientifique (1880) e seguito dall’edizione tedesca: Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft (1883). L’edizione italiana venne tradotta dalla quarta edizione rivista da Engels nel 1891.
[6] In carica dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990.
[7] In carica dal 20 gennaio 1981 al 20 gennaio 1989.
[8] Quelli che, in inglese, vengono sussurrati nei corridoi come «The powers that be».
[9] Cfr., in proposito, anche, D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, 2007.
[10] Max Horkheimer, Studien über Autorität und Familie. Forschungsberichte aus dem Institut für Sozialforschung, Librairie Félix Alcan, Parigi 1936.
[11] Tra le recenti pubblicazioni in merito cfr., R. Mausfeld, Warum schweigen die Lämmer?: Wie Elitendemokratie und Neoliberalismus unsere Gesellschaft und unsere Lebensgrundlagen zerstören, Westend Verlag, Frankfurt am Main 2018.
[12] «I think we have gone through a period when too many children and people have been given to understand “I have a problem, it is the Government's job to cope with it!” or “I have a problem, I will go and get a grant to cope with it!” “I am homeless, the Government must house me!” and so they are casting their problems on society and who is society? There is no such thing! There are individual men and women and there are families and no government can do anything except through people and people look to themselves first. It is our duty to look after ourselves and then also to help look after our neighbor and life is a reciprocal business and people have got the entitlements too much in mind without the obligations.» (Margaret Thatcher)
«There is no such thing as society. There is living tapestry of men and women and people and the beauty of that tapestry and the quality of our lives will depend upon how much each of us is prepared to take responsibility for ourselves and each of us prepared to turn round and help by our own efforts those who are unfortunate.» (Margaret Thatcher).
[13] Matteo, 10:39.
[14] Questo per quanto riguarda i modi in cui l’umanità prodotta dalle società storiche ha imparato a pensare se stessa fino in tempi recenti: la modernità sta, invece, procedendo ad una radicale trasformazione dell’essere umano in quello che è ormai possibile definire come un homo novus. Cfr. anche S. Caldarella, L’Ultima dea d’Occidente. Saggio sulla razionalità inesorabile, Edizioni Illo Tempore, 2008.
[15] H. Marcuse, Neue Quellen zur Grundlegung des Historischen Materialismus in Die Gesellschaft, 1932, trad. ingl. The Foundation of Historical Materialism in Studies in Critical Philosophy, Beacon Press, Boston, 1972.
[16] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, trad. it. G. Giappichelli Editore, Torino 2004, p. 10.
[17] «Tutta la storia dell'industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia nella più profonda degradazione.» (K. Marx, Lohn, Preis und Profit, §13 (1865)).
[18] Quella che oggi alcuni chiamano anche: dollarocrazia. Cfr. Robert W. McChesney, John Nichols, Dollarocracy: How the Money and Media Election Complex is Destroying America, Nation Books, New York 2012.
[19] Il rapporto tra cultura e società è, sostanzialmente, una visione del mondo.
[20] Karl-Otto Apel dirà che l’assenso non è ancora consenso.
[21] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, trad. it. G. Giappichelli Editore, Torino 2004, p. 9.
[22] Questa considerazione deve anche basarsi sul fatto, ormai evidente a molti, secondo cui il modello socioeconomico corrente sta conducendo l’ecosistema del pianeta al collasso. Se un tempo erano unicamente le nostre città ad esser rese invivibili dal meccanismo sociale capitalista il quale, per le sue ragioni di massimizzazione del profitto, concentrava in queste la produzione richiamando la popolazione rurale per trasformarla in una popolazione operaia creando, in tal modo, sovrappopolazione, smog, crimine, incremento della divisione sociale, etc., adesso questo processo di distruzione della vivibilità si è esteso all’intero pianeta in quanto risultato della produzione tecnica e delle modalità del consumo.
[23] S. Weil, Quaderni (I), Adelphi, Milano 1982, p113.
[24] I. Ramonet, La pensée unique, «Le Monde diplomatique», gennaio 1995.
[25] «Le capitalisme est le système le plus efficace et le plus inégalitaire» Laurent Joffrin, Alain Minc: «L’inégalité est trop forte, nous risquons une insurrection», «Libération», 8 luglio 2018.
[26] I. Ramonet, Ibid.
[27] La definizione di capitalismo che, personalmente, trovo più appropriata è quella di una follia efficiente che si è impadronita del metodo.
[28] «For whereas pessimism often comes down to seeing bad things where there are none, negativity, on the other hand, is about explicating structures, attitudes and beliefs that already are present but that tend to be trans-parent or even disavowed.» (Jon Lindblom, Mark Fisher in Memoriam, Part 1. Capitalist Realism and Beyond Modernism, Unbound, 2018).
[29] Un tema che era già in Aldous Huxley ed il suo libro Porte della percezione (The Doors of Perception, 1954) in cui egli esperimentava in prima persona con la mescalina ed il cui scritto divenne uno dei classici della generazione del Sessantotto insieme a Tolkien, Huxley e Marcuse.
[30] In particolare il loro Capitalisme et schizophrénie, ossia L'Anti-Edipo (1972) e Millepiani (1980).
[31] Originariamente un saggio pubblicato sulla «Left Review», nel 1984, e poi in volume presso Verso nel 1991.
[32] «The real parasite of our society are the managerial».
[33] «being fitted for a workplace».
[34] Cfr. anche: S. Caldarella, La Società del Contrario. Uno scritto sulla cultura di massa e i suoi intellettuali, Zambon, Verona 2005; The Empty Campus. Education and Miseducation in the New Global Age, Edizioni Illo Tempore, Princeton 2016.
[35] «Nel momento in cui un individuo dubita del significato e del valore della vita, egli è malato».
[36] «The pandemic of mental anguish that afflicts our time cannot be properly understood, or healed, if viewed as a private problem suffered by damaged individuals».
[37] Paul Goodman, La gioventù assurda, trad. it. Einaudi, Torino 1971.
[38] E. Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano, 1964.
[39] Cfr. anche le Considerazioni inattuali (Unzeitgemässe Betrachtungen, 1873-76) di F. Nietzsche.
[40] S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, 1930.
[41] E. Fromm, The Sane Society, 1955.
[42] «reality that is infinitively plastic, capable of reconfiguring itself at any moment» (M. Fisher, Capitalist Realism, Zero Books, Alresford p. 54).