Sunday, August 29, 2010

Nachtblindheit


Die lange asphaltierte Straße zog sich träge in die Nacht hinein wie eine breite schwarze, weiß schraffierte Zunge. Es war kalt. Die Sonne war, nachdem sie die Erde in rotes Licht getaucht hatte, längst hinter den fernen Hügeln verschwunden und ließ eine zitternde Wolke von Gespenstern und Klängen zurück, die als raunende Schatten zwischen dem Moos auftauchten und wieder entwichen.
Ich, ein Ergründer des Wesentlichen ohne Phiole, lief am Rande des Weges, mein Gepäck auf den Schultern. Das künstliche Licht am Horizont trennte jenen Landstrich von der Dunkelheit, bis es zu ganz kleinen Punkten wurde, die sich in der Ferne verloren. Es war fast, als bestünde die Welt nur aus winzigen honigfarbenen Lichtkörnchen, die mit dem Dunkel der Nacht verschmolzen wie das weiche Wachs einer Kerze.
Wie ich so meines Weges ging, kam ich an eine Biegung und sah dort oben, wo der Asphalt endete und eine Wiese begann, ein Holzhaus mit schräg abfallendem Schieferdach. Ein Schornstein malte hellgraue Linien in den Himmel und aus erleuchteten Fenstern, die leichte Gardinen aus buntem Stoff zierten, wurden den Umherziehenden zwinkernde Lichtblitze zugeworfen. Ich hielt an und setzte mich auf die wenigen Gepäckstücke, die mich auf meiner Reise begleiteten. Ich beobachtete jenes Haus und das Leben, das mir durch den magischen Schein der Fenster zu sehen vergönnt war. Männer und Frauen in Feststimmung lachten, scherzten miteinander und beschenkten sich, doch wirklich niemand wagte es, einen Blick nach draußen zu werfen – aus Angst, dass die große Stille der Finsternis ihre Lippen streifen und das erstarrte Lächeln darauf zum Erlöschen bringen könnte.
Das ferne Glockenläuten eines Kirchturmes drang an mein Ohr und es begann zu schneien, während ich draußen blieb, eingehüllt in den Mantel aus Frost und Traurigkeit, der meine Gedanken umgab, und die Traurigkeit sich wie der Geruch sehr alter Gegenstände in mir ausbreitete.
Gierig nach Leben, betrachtete ich weiter jenes weit entfernte Universum, aus dem ich ausgeschlossen war, und die glücklichen Opfer dieser verzauberten Welt. Ich hätte den Kiesweg hinaufgehen mögen, der zu dieser Welt führte, um an jene Holztür zu klopfen, hinter der eine schöne Frau ihr langes Haar kämmte, und um Einlass zu bitten, aber so viele scharfe Klingen hatten an dieser Schwelle bereits meine Fäuste durchbohrt. Zu viele Male habe ich, blutend und geschlagen, hinter einer Tür ohne Riegel um jene Schöne geweint, die ich nie würde küssen können. Wenn deine Träume sich, gleich dem Wind, nicht wegschließen lassen, nicht einmal in einen goldenen Käfig, bist du anders als sie und sie werden dich draußen lassen, bei den Krähen und dem Duft von Erika.
Ich hob meine Augen und Hände gen Himmel und schrie mit der Kraft der letzten Tränen: „Habt Mitleid mit einem Mann, der allein in der Kälte der Nacht steht“, aber der Schnee fuhr fort, weiße Pirouetten in der eisigen Luft zu bilden, und auch der Asphalt schwieg.
Wir glauben, das, was geschieht, beeinflussen, den Ereignissen befehlen zu können, doch sind wir nichts als Marionetten, die zur Melodie des Schicksals tanzen, während das Leben dahinfließt wie Wasser in einer Dachrinne an einem Regentag.
Ich blieb sitzen und eine weiße Schneedecke legte sich auf mein Haupt, so dass am Rand der Straße nur ein Eisklotz zurückblieb, der einem Menschen ähnlich sah. Alles hat seine Bedeutung im unbekannten Räderwerk dieser dunklen Nacht, in der das Gold zu Eisen wird und Sklaven auf Fuchsjagd gehen, als wären sie Könige.

Eine Elster, die meinen Ruf vernommen hatte, ließ sich auf einem Zweig nieder und eine Schneeflocke fiel herab.

(Sergio Caldarella, Cade ancora neve, Oros Edizioni, Siracusa 1996, s. 15)

Saturday, August 28, 2010

Writing


Writing is a beast attacking at night... it's a tiger sleeping at your side... it’s a need without a need; it’s a series of words rolling like pearls from the heart to the pen or from the soul to the blowing wind. It’s a nothing that feels like everything, it’s something you cannot explain, even if it has always been there, like a sweet torn, like a castle only your eye can see. Writing is not a proof of something, is a proof of nothing, probably of the nothingness of existence or of its being full of something beyond existence. Some people say the writer is an egotist because they just don’t know, they just cannot understand, they’ll never understand. The writer is not even there, his words are not even “his”. His words come from somewhere else and they go somewhere else. The writer does not care of judgment and he is not afraid of the darkness of night. The authentic writer is just a hand and a soul at a service of a higher service, that’s all. In contemporary society we are used to the “big ego authors”, those who fill pages over pages only with the little croaks of their ego and their words resonate all with that same echo of emptiness.
There are writers writing because of the impossibility of writing, like Paul Celan (“The poem is still only capable of speaking because it exposes itself to the impossibility of its speaking”), and writers like Fernando Pessoa who pretends to feel the pain they feel. There are writers writing even against their own will and writers just looking for a way out of writing, and if you ask them what it means to write, they will give you the most human answer of all: “I don’t know”.

(Dr. Divago)

Sunday, August 22, 2010

Stig Dagerman: Il nostro bisogno di consolazione.

Una breve riflessione dedicata a Stig Dagerman, uno tra i più profondi scrittori svedesi suicida a soli 31 anni. Autore, tra l’altro, di un breve quanto intenso saggio dal titolo Vårt behov av tröst (Il nostro bisogno di consolazione, trad. it. Iperborea).
«Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà» (Stig Dagerman).

A Stig:
Uno scrittore viaggia per le strade del mondo con il continuo bisogno di raccontare storie, come un viandante che si lascia accompagnare dalle parole o accompagna le parole per le strade dei loro viaggi, mentre queste ultime, questi strani segni sonori come lame, cercano di spiegare quelle luci opache che abitano al di là di esse stesse e così da storie tronche, abbandonate, lasciate a respirare l’aria di vicoli ameni, erompono, a volte, luci ed ombre storte senza le quali il mondo sarebbe ben altro, non più lo stesso, magari non più neppure mondo. Queste parole capaci di sopravvivere al tempo, proprio per questo loro essere “sopravvissute”, ci consolano, ci permettono di ascoltare il timbro di una voce amica e vicina in mezzo ai chioccolii nei quali non riconosciamo alcuna forma. Esplorando le radici della scrittura, Stig Dagerman ci ha narrato de Il nostro bisogno di consolazione ed ha disteso, dietro i tasti metallici della sua macchina da scrivere e tra i fogli macchiati dalla penna multicolore, racconti decifrabili solo da occhi attenti; lingue d’inchiostro che parlano di nevi e notti scandinave e di quelle contorte ombre dell’anima che raggiungono qualunque latitudine. Dagerman è, come ogni grande, uno scrittore da ascoltare: bisogna poggiare l’orecchio sui suoi libri e, tendendo l’udito, avvertire il suono leggero di vite racchiuse nel germe di una parola fremente insieme allo sgusciare di elfi e gnomi che passano ed abitano in mezzo alle tremolanti oscurità del mondo che immaginiamo reale. A volte cerchiamo nella scrittura ciò che un infreddolito viandante tra le nevi cerca nel tepore di una stufa o di una coperta, quello che l’amato cerca in ogni riflesso dell’amata e nel pulsare di quel sentimento vivo e strano che riposa nel tremolio distante degli occhi di lei. Forse nelle parole non c’è nessun destino, ma se ci fosse, non potrebbe che tendere al nostro infinito quanto necessario bisogno di consolazione.
(Dr. Divago)

Sunday, August 15, 2010

La storia sconosciuta dell'antico codice De Necromantica Siracusana


Qualunque bibliofilo amante di libri rarissimi che si trovi a New York per le vacanze, farebbe bene a prendere il treno con destinazione Princeton, dove si trova una tra le più conosciute università private degli Stati Uniti. Giunti in questa cittadina, tra le tante cose anche ultima residenza di Albert Einstein e Kurt Gödel, è possibile recarsi alla Princeton University Library (circa quattro milioni di volumi parte dei quali situati nella Nassau Hall, uno degli edifici più antichi degli Stati Uniti), dove potrete provare un’emozione unica richiedendo in lettura il De Necromantica Siracusana, un codice scritto in gran parte in greco bizantino, ma anche in latino, ebraico, persiano ed altre lingue in caratteri strani ancora non decifrati (l’unico inconveniente è che bisogna consultare il volume davanti ad un bibliotecario dallo sguardo vigile, poiché – fatto strano – il volume non è disponibile né su microfilm, né in Internet). Il testo del De Necromantica Siracusana – in realtà una raccolta di scritti diversi su un unico tema, sulla cui copertina appare solo la scritta nékyia, – è attribuito dal catalogatore ad un certo Athanis da Siracusa (o il Siracusano), un autore del quale si hanno pochissime notizie, perlopiù riportate nei Fragmente der Griechischen Historiker di Felix Jacoby (III B 562). Secondo quanto riportato nel De Necromantica Siracusana, Athanis da Siracusa avrebbe trovato un libro scritto direttamente da Dioniso, non il figlio di Zeus e Semele, ma Dioniso Zagreo, figlio di Zeus e Persefone dea degli inferi, anche se in almeno due punti del libro è possibile trovare un riferimento a Dioniso Melemigis, una particolare variante della divinità adorata ad Eleuteria che, tradotto, vuol dire “dalla pelle di capro nero”. Il libro comincia raccontando la nascita di Dioniso in una grotta in prossimità della sorgente del fiume Ciane, un evento già citato in un tardo racconto greco (nonny dionisiaca) che, però, nella versione del De Necromantica Siracusana, aggiunge particolari fino ad oggi ignoti come, ad esempio, l’invenzione da parte di Dioniso di un “alfabeto siracusano”, diverso da quello descritto da Margherita Guarducci (Annali della Scuola Archeologica di Atene), dotato di particolarità magico-evocative connesse con il culto di Cernunnos che, secondo alcuni, risalirebbe quantomeno al Neolitico – tra le tante cose il libro stabilisce anche un rapporto diretto tra questa divinità siracusana ed un culto litolatra legato a raffigurazioni grottesche. Secondo quanto raccontato nel De Necromantica Siracusana, questo alfabeto, definito con la curiosa formula greca amanthraspentos, contrario ad ogni esorcismo, venne seppellito dal condottiero Corinta Timoleonte durante la sua opera di ricostruzione di Siracusa, e in effetti il Prof. Westlake in un libro pubblicato nel 1969 (Essays on the Greek Historians and Greek History) cita un’epigrafe ritrovata nel corso di scavi intorno alle Mura Dionigiane nella quale viene narrato un “empio seppellimento” del quale Timoleonte cercò di cancellare ogni traccia. Il prof. Westlake, ipotizzando un legame tra questo alfabeto evocatorio siracusano e il dio Moloch, ritiene che il tentativo, iniziato da Timoleonte, di eliminare qualunque traccia dei riti sviluppatisi a Siracusa in connessione con questa divinità, abbia condotto Agatocle, in precedenza soldato al comando di Timoleonte, ad assediare la città di Cartagine i cui abitanti erano adoratori di Moloch-Saturno. La storia narra che, durante l’assedio di Agatocle, gli abitanti di Cartagine, onde propiziarsi l’empia divinità, sacrificarono più di cinquecento vittime, tra le quali moltissimi bambini. Secondo il prof. Westlake le urla delle vittime scossero a tal punto l’esercito Siracusano da condurlo alla tragica sconfitta del colle Ecnomo, nei pressi del fiume Imera (310 a.E.V.).
I primi due capitoli del De Necromantica Siracusana, composti in gran parte in greco bizantino, si dilungano in minuziose spiegazioni sui “miracoli” di Dioniso Melemigis, evidenziando una netta predilezione per macabre descrizioni come, ad esempio, la narrazione spaventosamente esatta, degli stadi di putrefazione dei cadaveri dai quali Dioniso ricavava polveri capaci di provocare o guarire persino la lebbra. Questa interpretazione di Dioniso sembra essere molto antica, poiché già la sua variante romana, Bacco, non possedeva più alcune caratteristiche ctonie che invece erano fortemente presenti nel culto dionisiaco a Delfi, dove quest’ultimo veniva rappresentato con il simbolo del terribile “Sole Nero”.
Il De Necromantica Siracusana presenta, poi, alcune altre figure legate alla negromanzia e cita molti nomi in gran parte sconosciuti come tal Theodorus Philatelas Siracusanus, insieme a quelli noti di Atenagora Siracusano, citato in Tucidide, Antioco Siracusano, Iceta Siracusano, Eurifamo ed Ecfanto di Siracusa, due filosofi pitagorici; quest’ultimo, tra l’altro, riteneva che la genesi del cosmo dipendesse da una presenza spirituale al di sotto della realtà sensibile e, secondo quanto aggiunge alla nostra attuale conoscenza il De Necromantica Siracusana, la presenza spirituale cui faceva riferimento Ecfanto non doveva avere una caratterizzazione propriamente positiva. Perfettamente consona con il tono dell’opera è, infatti, un’invocazione ad Ecate «O compagna della notte, tu che gioisci all’abbaiare dei cani e al sangue versato, che vaghi in mezzo alle ombre tra le tombe, che aneli al sangue e rechi terrore ai mortali, luna dalle mille facce, guarda con favore ai nostri sacrifici!» – in realtà una semplice variante di un noto passo delle Argonautiche di Apollonio.
Il tema di mondi orribili, che abitano la realtà solo apparentemente innocua, è presente in ogni pagina – comprensibile – del volume attribuito ad Athanis. La stessa grafia del codice è piuttosto strana, innanzitutto perché è una raccolta di testi spesso diversi tra loro inframmezzati da strane citazioni in caratteri sconosciuti (forse copia del citato alfabeto siracusano?), ma anche perché spesso vi figurano simboli appartenenti a culture diverse tra loro come quella sciamanica, associata, in una pagina, a rappresentazioni della farfalla minoica, simbolo della dea madre, insieme ad un costante guazzabuglio di alfabeti e lingue che ne rendono ardua la lettura ma anche uno strabiliante esempio di sincretismo magico dell’epoca classica. Anche gli inchiostri hanno colori strani e se alcune parti sono in nero vivido, altre vanno dal verde al rosso mentre alcune pagine sono ritagliate con cura formando dei curiosi simboli o lettere di strani alfabeti. In effetti lo stile e la tipologia del manoscritto concorda con quello degli antichi grimori di cui, ad esempio, sono interamente composte le collezioni Sloane o la Harleian alla British Library.
Un arabista ha tradotto parti del testo persiano in caratteri cufici, inframmezzato da brevi citazioni in Urdu e Duriaco, del De Necromantica Siracusana, in cui si racconta, in forma un po’ diversa, la leggenda della torre di Babele, la porta del cielo ormai distrutta alla quale, però, corrisponde una “porta della terra” ancora aperta. E’ merito di James Krote, della York University di Toronto, aver segnalato un manoscritto rinascimentale, Bab al-Gharb, La porta d’Occidente, opera di un certo Abib al Fa’hrani, in cui si narra della vicenda dantesca narrata nella Divina Commedia e dei suoi precedenti islamici, come del resoconto di un viaggio dentro la voragine dell’altra porta opposta alla torre di Babele. James Krote, servendosi del De Necromantica Siracusana, ha poi collegato questi elementi alle varie teorie sulla “terra cava”, arrivando ad inserire, nel suo discorso, anche il Viaggio al centro della terra di Jules Verne e la Thule-Gesellschaft.
Sarebbe lungo citare le altre parti del De Necromantica Siracusana, in cui si parla di gerarchie divine e demoniche alla base di antichissime concezioni come quella del nume: Deus cum fecisset mundum, singulis quibusque creaturis principes statuit, ipsis quoque arboribus montibusque et fontibus (…) Statuit ergo angelis angelum principem et spiritibus spiritum, sideribus sidus, daemonibus daemonem, Dopo aver fatto il mondo, Dio stabilì gli arconti per ogni creatura, senza tralasciare gli alberi, le montagne e i fiumi (…) Stabilì dunque un angelo come arconte per gli angeli, uno spirito per gli spiriti, un astro per gli astri, un demonio per i demoni, oppure di come sia possibile fare dei “sogni turchesi” (c’è infatti nel libro un’affascinante suddivisione della qualità dei sogni attraverso i colori), avendo la possibilità di dormire in particolari periodo dell’anno “in rispondenza al turchese acquoso del grande porto siracusano”.
Il libro termina poi con trentasette pagine, aggiunte quasi certamente in epoca medievale, scritte in ebraico da un certo rabbi Isaia ben Ioseph, in cui si narra della definitiva scomparsa delle “cose terribili”, che l’alchimista arabo Jabir ibn Hayyan, grazie “all’empia lettura” del Sirr al-khaliqa, il Libro segreto della Creazione e del libro yemenita (sic) De Necromantica Siracusana, era riuscito ad evocare «sacrileghe forme maligne che la terra dovrà dimenticare per tutti i secoli del mondo» e passa, poi, a raccontare una complessa storia ripresa, probabilmente, da tradizioni remote in cui si descrivono terribili invocazioni e della lotta che un gruppo di rabbini siracusani, coadiuvati da altri rabbini spagnoli “profondi conoscitori dello Zohar e dei dormienti senza nome”, avrebbero condotto contro coloro i quali utilizzavano, cum maxima voluptate, i poteri del De Necromantica (qualcuno, sicuramente in epoca moderna, ha annotato a margine del resoconto ebraico queste parole a matita: The One Who Does Not Manifest, Colui che non si manifesta).
Le ultime due pagine rappresentano una sorta di monito contro ogni lettura: la data scritta sulla prima pagina è quella del “21 gennaio Anno Domini 1693” e il testo è stilato in gran parte in italiano antico vergato con una atipica grafia minuscola. L’autore, tal padre Ambrogio da Melilli, mette duramente in guardia dalla lettura del libro con varie minacce culminanti nella dichiarazione secondo cui le blasfemie in esso contenute sarebbero già costate la vita al suo giovane e caro confratello padre Diego, trovato tra le macerie del convento di Augusta con una copia del De Necromantica stretta in grembo; l’autore aggiunge ancora che, al momento in cui gli venne consegnato il volume, una voce che sembrava uscire dalle mura disse: “O sacerdos Christi, tu scis me esse diabolum. Cur me derogas?” (“O sacerdote di Cristo, tu sai che io sono il diavolo. Perché continui a infastidirmi?”). Padre Ambrogio termina il suo avvertimento con la speranza che «Iddio ni liberi di più di tal horibile castigo. Christus ab omni male nos defendat. Procedamus in pace».
Ci si chiede come mai questo sacerdote non abbia distrutto la copia del libro in suo possesso visto anche lo spaventoso evento connesso alla consegna del volume e questa mancata distruzione ci fa ipotizzare che queste poche pagine servissero da avvertimento o fossero una specie di rapporto ecclesiastico diretto a qualcuno gerarchicamente più in alto di lui preposto a custodire il volume in luogo sicuro.
In queste poche righe padre Ambrogio, seguendo la mentalità religiosa del tempo, sembra accennare a delle responsabilità umane connesse al sisma siciliano del 1693, avvenuto circa dieci giorni prima della stesura della lettera e, spingendosi oltre ogni razionalità, include il De Necromantica, e l’uso che alcuni erano intenzionati a farne, tra le cause del disastro. Invettive particolarmente veementi sono indirizzate da padre Ambrogio ad un certo Pierre Vallin, che avrebbe riportato alla luce il De Necromantica intorno alla metà del XIV secolo, in alcuni passi cita anche alcuni avvertimenti contro la negromanzia tratti dagli appunti di un tal Johann Nider, autore, nel 1435, di un trattato sulla stregoneria intitolato Fornicarius e da un altro libro il cui titolo è Errores Gazariorum.

Come tantissime opere antiche il De Necromantica Siracusana è certamente un’opera tipicamente pseudoepigrafica, attribuita ossia ad Athanis di Siracusa ma, in realtà, si tratta di un testo elaborato da più mani o, comunque, da un autore meno noto che, attribuendolo ad un autore conosciuto, tendeva a dare maggior credibilità al proprio lavoro; lo stesso è avvenuto ad esempio per molti libri della Bibbia, come i Proverbi di Salomone e i Vangeli, così come per alcune opere di Platone, Aristotele e persino per alcuni testi omerici. Il professor Arthur Staggs, della Miskatonic University, in un saggio pubblicato nel 1908, Some aspects of pre-islamic demonology, cita il De Necromantica Siracusana e suggerisce come probabile autore Abu Aflah da Siracusa (ca. XIV sec.), al quale sono anche attribuiti dei libri di alchimia e mistica ebraica (cfr. anche G. Scholem, Il libro di Tamar di “Abu Aflah di Siracusa”, in ebraico, in «Kiriath Sepher», 1926). Il professor Staggs, nel saggio citato, accenna ad un culto ormai scomparso, sorto nella zona di Siracusa, nell’epoca precedente la colonizzazione greca (cfr. anche E. Manni, La Sicile a la veille de la colonisation grecque, «Revue des Études Anciennes», 1969), i cui ultimi seguaci vennero bruciati sul rogo nel XVI secolo per attività stregonesche affinché la loro pena fosse «terruri de omni malefactutu». Da questo saggio di Staggs, il professor Brown, del King’s College, ha ipotizzato che gli appartenenti a questa setta, detta degli alkaesti (dall’alkaest, un solvente non ben definito alla base delle ricerche iatrochimiche nel XIV e XVI secolo), ma definita dall’inquisizione come setta degli hatchichims, ossia successori di Caino, portatori delle “Scritture diaboliche” siano riusciti, prima del loro annientamento, a lasciare su alcuni palazzi dell’isola di Ortigia dei segni particolari, grazie ai quali è ancora oggi possibile ritrovare elementi tangibili della loro antica presenza. Sulla setta degli hatchichims Éliphas Lévi arriva a scrivere: «in presenza di alcune persone [di questo tipo] e dopo una serie di atti inebrianti, avviene una perturbazione nell’atmosfera, i rivestimenti in legno scricchiolano, le porte tremano e gemono. Sembra che segni strani e qualche volta sanguinolenti appaiano su pergamene vergini o su biancheria». Il professor Brown con la sua teoria secondo cui la setta degli hatchichims sarebbe riuscita a lasciare tracce nascoste anche se ben visibili si ispira, principalmente, alle scoperte del musicologo Marius Schneider il quale, grazie ai suoi studi, è riuscito a scoprire una relazione tra architettura medievale e musica, scoprendo veri e propri spartiti scolpiti nei capitelli medievali di alcune chiese. Riferendosi anche agli studi di Schneider, il professor Brown ritiene che alcune maschere grottesche ed altri simboli che, ancor oggi, si possono individuare tra i vicoli d’Ortigia, se riportate come punti su su una mappa, seguendo un certo codice, possono indicare il luogo dove questa setta compiva i propri rituali e dove, oggi, sempre secondo Brown, sarebbero seppellite delle importanti testimonianze dei loro riti. Il professor Brown indica almeno tre luoghi che si prestano alle indicazioni che le pietre rimaste forniscono: è proprio vero che, a volte, la storia affonda con gioia le proprie avide mani nel ricco greto dove scorre il fiume della leggenda e della fantasia.


(© Sergio Caldarella).

Thursday, August 5, 2010

Julien Gracq: L'ecrivain et les sortileges


Sull’ultimo numero di «Le Magazine Litéraire» compare una foto di Julien Gracq («Je n’ai pas de méthode de travail») insieme alle foto di diversi autori contemporanei. Come spiccano in quella foto scattata da Cartier-Bresson gli occhi dello scrittore francese! La sua espressione seria, lo spessore del portamento, la profondità dello sguardo. Tutto il contrario delle foto di quei soddisfatti parvenu delle lettere contemporanei i quali sembrano solo dei turisti capitati da quelle parti per una visita di cortesia, tanto per farsi fare qualche foto e lanciare qualche sorrisino stralunato. Il contrasto sembra più imponente perché stanno tutti sullo stesso numero della rivista, anche se quegli altri abbronzati e impomatati dovrebbero stare altrove, ma non chiedetemi dove. Dove sono finiti i Gracq? Hanno lasciato il posto a questi menestrelli delle vendite? A quelli che sanno solo compiacere i lettori medi? A quelli capaci di utilizzare una lingua media, dei pensieri medi in racconti medi di vite medie? Si è davvero lasciato il posto a scritture che sembrano compiacere, ma in realtà non fanno altro se non togliere il respiro? Libri che fanno soffocare al solo pensiero che tutto ciò che descrivono esista davvero. All’idea che vi siano innumerevoli individui dai quali, tolti desideri e doveri, dopo non resta nulla, proprio niente. Neanche il silenzio. Dove sono gli autori che ci scuotono? Quelli che tagliavano il cuore per farne scrittura. Quelli che non ci rassicurano? Quelli che ci raccontano di terre inesplorate? Quelli che ci sussurrano che non tutto è come sembra, che l’imperatore pare si sia cambiato d’abito, ma in realtà continua ad essere nudo.
Tutto oggi pare debba esser preconfezionato: dai libri ai programmi culturali, dai viaggi organizzati in villaggi di cartapesta fino ai divertimenti dei bambini in parchi di polistirolo. Questi scrittorucoli dalla mezza penna sono proprio gli attendenti dell’artificiale che ha raggiunto il mondo dei libri. Per questo i Gracq, i Kafka, i Pessoa, i Salinger si stagliano, con imponenza, anche da una vecchia foto maltrattata, mentre questi nuovi arrivati non dicono proprio nulla, così come nei loro non-libri oppure, con la loro presenza leggera, raccontano semplicemente del nostro tempo assurdo e mediocre.
Sergio Caldarella