Sunday, July 14, 2013

I NUOVI FASCISMI DAL FACCINO SORRIDENTE


È strabiliante notare come, a livello della opinion publique, non si sia o non si voglia cogliere, la natura profondamente contemporanea delle dittature dello scorso secolo e di quanto quei principi ideologici deumanizzanti, mutatis mutandis, continuino ad avere un ruolo sempre maggiore e più pernicioso nelle società attuali. Si pretende di relegare gli eventi del fascismo, franchismo, nazismo o stalinismo al rango di anomalie ormai tramontate, spettri seppelliti nel cimitero della storia, e non si vuol invece vedere quanto la radice di quelle categorie contorte, attraverso una mutazione estemporanea che è più un adattamento ai tempi, serpeggi ancora in vari gradi nel mondo contemporaneo.

            Molte sono oggi le strategie escogitate per non fare i conti con un passato tanto tetro quanto vicino. La gente che per la gran parte s’incontra in giro per il mondo non si pone quasi più domande sul passato e, nei casi comuni e sintomatici, non si pone neppure domande che vadano appena un po’ oltre l’immediato presente. L’homo occidentalis contemporaneo si è a tal punto rimpicciolito da interessarsi unicamente a quale scuola andare per ottenere il diplomino migliore per sistemarsi da qualche parte, gli interessa il viaggetto, la macchinetta, la miscela per il caffè e il tappetino della doccia, ma non ha alcun interesse per il passato o il futuro, perché questi non lo includono né rientrano in quest’orizzonte artato e immediato che si è costruito. I posteri sono ormai tramontati e ad essi non viene oggi più demandata alcuna ardua sentenza. Tutto ciò che questo bizzarro uomo nuovo intende è quanto il destino curioso gli ha posto davanti l’uscio di casa e il futuro non è certo parte di quest’orizzonte. Quest’atteggiamento di pericolosa indifferenza è anche l’ennesimo sottoprodotto della smisurata condizione narcisista nella quale vive l’individuo contemporaneo (esiste del resto un curioso rapporto tra piccolezza d’animo e narcisismo). Nel mondo del cosiddetto benessere gli uomini sono troppo presi da un’immensa follia di sé che li affanna e affaccenda. Stanno tutto il tempo a dire e pensare: “io, io, io”, avvinti in quel personalissimo microcosmo che il grande Pascal aveva già liquidato con la sola frase Le moi est haïssable. L’io è odioso. La ragione calcolante basata sull’io che si presenta come una ratio, il calcolo dell’interesse personale o del 2+2, quella che Dostojevskij chiamava la ragione “Euclidea, terrestre”, se guardata con maggior attenzione, svela il volto di una follia che, in realtà, non è più in grado di guardare al mondo secondo l’ottica dell’umanità, dell’etica o dell’equilibrio, elementi centrali per una ragione che voglia dirsi autentica. I Greci avevano del resto già ben compreso che ogni disproporzione è una frattura attraverso cui la follia e la barbarie accedono nel mondo, anche per questo l’oracolo delfico insegnava quale principio fondamentale la regola della misura: μηδὲν ἄγαν. Altri hanno poi anche voluto vedere nel Minotauro la rappresentazione dell’irrazionale all’interno del labirinto della ragione e Teseo come l’incarnazione della ragione buona, quella che conosce il senso della misura e segue il filo di Arianna, non la forza brutale che tutto sfascia solo perché può farlo, ossia solo perché detiene i mezzi per la determinazione dei fini.

            Il trapasso dalle dittature dal grugno duro e quelle dalla faccina sorridente e dell’omologazione è egregiamente riassunto in due racconti capaci di sintetizzare la realtà attraverso la fantasia: 1984 di George Orwell e Brave New World di Aldous Huxley, nell’uno si parla della dittatura forte, quella dura e poliziesca, nell’altro di quella soft, per noi ben più attuale, in cui gli esseri umani vengono subdolamente persuasi delle ragioni di chi li controlla. Entrambe i romanzi hanno in comune la dissociazione della parola dal significato che caratterizza i due modelli di controllo sociale solo apparentemente diversi. Anche a dispetto della magniloquente propaganda della società attuale, i segni del dominio dei pochi sui molti sono del resto lapalissiani per chi non abbia abdicato alla facoltà di vedere e Rousseau, già nel 1762, riassumeva questo sentire con la celeberrima frase: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers, L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene”. Oltre due secoli dopo, non si riesce ancora neppure ad uscire dal dilemma secondo cui l’attività di governo significa ancora complicità con lo status quo. I fascisti, secondini sociali in camicia nera, urlavano con le loro vocine stridule: “credere, obbedire, combattere”, mentre oggi abbiamo lasciato cadere il “combattere” (non sempre), ma bisogna continuare a “credere” e, soprattutto, “obbedire” e la camicia è appena passata dal nero ad un bianco pallido e costoso. È significativo che, nel motto fascista, il credere preceda già l’obbedire perché, per andar dietro ai dettami di una società del contrario, bisogna proprio smettere di guardare o di provare a capire e, dunque, abbandonarsi all’indifeso “credere”. Provare a capire è difendersi, ma di fronte alla muraglia del non-pensiero si dissipa anche il pensiero e tutto diventa materia di sola opinione, la sola cosa di cui si possa ancora chiocciare. È per questo che il “credere ciecamente” diventa proprio una funzione dell’accecamento di chi vuol imporre a se stesso o agli altri il non vedere come fiore all’occhiello per partecipare alla grand danse di cecità e stultitia del mondo contemporaneo. In tal modo l’uomo d’oggi viene scientemente paralizzato nel suo sentire, reso monco nei suoi pensieri e colpito nel profondo da dardi invisibili che lasciano ferite oscure. Le conseguenze e le implicazioni ideologiche ulteriori di tale impostazione sono vaste e molteplici: la vita interpretata come violenza, il mondo visto come un luogo ostile in cui difendersi legittimando un’aggressività conseguente verso altri uomini e verso la natura stessa e una visione dell’uomo come di un essere che ha bisogno di giustificarsi economicamente (o che trova la sua giustificazione in ragioni di ordine economico) dimenticando che l’uomo, in quanto uomo, ha già naturalmente in sé la propria giustificazione. Quel che fa davvero crescere una società non è l’economia quanto la giustizia autentica che non è la sola amministrazione della forza. È evidente come tale manipolazione sociale generi anche un concetto predatorio dell’intelligenza ed un clima d’immenso vuoto culturale e intellettuale. Non è un caso che, a partire dall’Ottocento, avvengano anche fatti culturali mai avvenuti prima e pare che nessuno se ne accorga o ne valuti la grave portata. Un esempio lampante è il caso Pessoa: com’è potuto accadere che uno tra i poeti più importanti del XX secolo, indubbiamente il più grande poeta portoghese del Novecento, sia passato completamente inosservato al suo tempo? Oppure pensiamo a Kafka che, quand’era in vita, era noto ad appena un gruppetto di intellettuali e costretto tra le scrivanie di una compagnia di assicurazioni (per limitarsi a due esempi tra i più sconcertanti e avvilenti nell’epoca dei telefoni, delle ferrovie, del “veemente dio d’una razza d’acciaio” (Marinetti) e della magnifica comunicazione)! Nel mondo precedente all’Ottocento intellettuali di tale magnitudine avrebbero potuto sì finir male, in esilio, al rogo e molto altro, ma non sarebbero mai stati ignorati, anzi il poeta interloquiva in ogni tempo dalla stessa altezza del sovrano. Antoine de Saint-Exupéry scriveva: “Poco importa che il cero sia grosso. Solo la fiamma mi dà la misura della sua qualità”. Dall’Ottocento, invece, Kierkegaard, Schopenhauer o Nietzsche divengono esempi lampanti di solitudine culturale! Prima di questa svolta Epitteto era stato uno schiavo e Spinoza faceva il pulitore di lenti, ma le menti illuminate della loro epoca ne intuivano bene la portata intellettuale! Una società che rigetta i maestri di conoscenza è una società che scende, come avrebbe detto Vico, nell’epoca della “barbarie seconda”, ossia quel regresso che caratterizza le fasi di ricorso storico. Una società di questo tipo non può andare da nessun’altra parte che non sia la direzione del tracollo. Basta, del resto, guardare quelli che controllano questo mondo per capire quanto siano corrotti sotto ogni aspetto, anche quelli inimmaginabili. Gente minuscola, sempre pronta ad eseguire dettami e mansionari, individui piccoli e storti che sanno soltanto come fare per raccogliere prebende e sedersi a capo di qualunque sedia, grandi ciambellani che sono a malapena funzionari del vuoto e dell’oscurità. E questo anche in virtù di quella nullificazione dell’individualità alla quale sono stati esposti già con il latte materno. Quando a Theodor Adorno venne chiesto se fosse possibile riassumere in una breve dichiarazione l’essenza del regime nazionalsocialista egli rispose con una frase che, genericamente tradotta, significa: “inchinarsi verso l’alto e dare calci verso il basso” ossia arroganza e servilismo, spirito gregario e sadismo che, anche in questo caso, sono aspetti diversi di uno stesso fenomeno o disturbo dello sviluppo psicologico. L’uomo contemporaneo ha poi lasciato che proprio questi caudatari in pannicelli caldi lo trasformassero in una statistica nelle mani di quelli che detengono il saldo controllo delle leve di comando.
            Ibsen nella commedia Peer Gynt, descrive un uomo che non aveva mai saputo esser nulla e persino il diavolo (l’uomo magro), non sa che farsene di costui che non ha mai avuto abbastanza personalità neppure per finire all’inferno! Ma Peer Gynt l’inferno lo aveva già vissuto dentro la vita e se ne era reso conto solo dopo, quando aveva perso le sue illusorie certezze e si era accorto dell’annientamento della vita dentro la vita. Anni dopo capitò a Sigmund Freud di dover rifiutare l’analisi ad una paziente perché non dotata di sufficiente intelletto e capacità introspettiva per essere analizzata: il mondo aveva tolto a quella sventurata lo specchio di sè. Chissà che direbbe il maestro viennese davanti al magro spettacolo della società odierna che confeziona oggi esseri umani come se fossero caramelle...

            Erich Fromm vedeva nella rinuncia alla libertà una paura inconscia dell’uomo verso la responsabilità implicita nella libertà stessa e fece di quest’argomento il tema di un libro centrale nel suo pensiero: Escape from Freedom, pubblicato negli Stati Uniti nella significativa data del 1941. In tutta la sua opera Fromm ha continuato a denunciare la contemporanea trasformazione dell’essere umano in automaton, ossia in colui che ha interamente abdicato non solo alla libertà, ma anche alla propria individualità, sostituendola con un’umiliante parvenza fatta di convenzioni e giochi sociali. L’abilità dei sistemi dello Spätkapitalismus sta anche nel proporre un modello di vita preconfezionato che abbia però sgargiante parvenza d’individualità. Sempre Fromm osservava che il diritto alla libertà d’opinione non serve a nulla quando non si hanno più idee da esprimere! La legge potrà anche mantenere il diritto alla libertà d’espressione, ma se l’ambiente sociale non la incoraggia e la preclude attraverso raffinati costrutti socio-economici, la legge non serve né significa alcunché: “Nelle mani di un ingiusto anche la giustizia serve gli scopi dell’ingiustizia” (L’Algebra degli Scacchi, Zambon 2008, [5]). Non è che l’automa non senta un bisogno minimo di libertà, è che la interpreta solo come un mettersi ogni tanto un po’ d’olio sulle giunture!

            Mentre l’uomo di latta ne Il mago di Oz aveva per unico desiderio quello di ottenere un cuore, tanto quanto Pinocchio voleva diventare un bambino vero, l’automaton del mondo nuovo vuole appena una grossa macchina o un paio di scarpe lucide e nuove. Si torna qui alla differenza tra le due facce di uno stesso sistema: quella dura che impedisce con la forza di dire qualcosa oppure quella sottile e persuasiva che ti toglie le cose da dire anche dalla testa riempiendola, al contempo, di affaccendamenti vacui ed inutili. Per questo i pensatori della Scuola di Francoforte ritenevano le dittature “dure” spiritualmente meno pericolose di quelle soft perché le prime lasciano ancora spazi di libertà entro cui è ancora possibile resistere, mentre le dittature del secondo tipo eliminano ogni resistenza ed ogni pensiero, creando un uomo nuovo che non si rende neppure più conto del suo asservimento. Quello che un tempo si sarebbe definito come lo schiavo perfetto: colui che ama la propria catena e la sente come sola misura di libertà. Fromm lo chiamava homo consumens, altri lo definiranno l’uomo della reificazione o l’uomo che trasforma se stesso in un meccanismo, con tutte le implicazioni derivanti, non ultima la visione contemporanea che spadroneggia in medicina o in biologia che, coerentemente con l’ideologia dominante, interpreta l’uomo appena come una sorta di meccanismo biologico che è, poi, l‘homme-machine di Descartes. Ben altra domanda è poi chiedersi se l’uomo alienato sia davvero funzionale o non sia, invece, l’architetto e artefice di immani distruzioni future.

            Emile Cioran, nel Sommario di decomposizione, scoprendosi improvvisamente più platonico di quanto abbia mai voluto ammettere nei suoi scritti, situerà l’origine del “credere” indubitabile nell’annus infaustus della chiusura del più grande tempio della conoscenza, ossia la data nella quale Giustiniano chiude l’Accademia Platonica o quel che ne era rimasto: “Et si je cherche la date la plus mortifiante pour l’orgueil de l’esprit, si je parcours l'inventaire des intolérances, je ne trouve rien de comparable à cette année 529, où, à la suite de l’ordonnance de Justinien, l’école d’Athènes fut fermée. Le droit à la décadence officiellement supprimé, croire devint une obligation, Se cerco la data più mortificante per l’orgoglio dello spirito, se scorro l’inventario delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a quell’anno 529 in cui, per ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene. Soppresso ufficialmente il diritto alla decadenza, credere diventa un obbligo” (Cioran, Précis de décomposition, p. 165). L’editto terribilis di Giustiniano ha comunque radici ben più antiche ed un corrispettivo nell’ordine d’esilio dei filosofi ordinato da Vespasiano nel 71 o il bando dei filosofi dell’85-90 d.C., ad opera di Domiziano, anche se a questi due Imperatori succedettero Adriano e Marco Aurelio che in un certo modo ovviarono, anche se non per molto, alla barbarie dei loro predecessori. Vespasiano, l’Imperatore che ebbe anche a pronunciare il celebre: pecunia non olet è sotto molti aspetti, non ultimo la sua indifferenza o avversione verso la cultura, una figura politica assolutamente contemporanea.

            La guerra contro il sapere ha del resto conosciuto non pochi alti e bassi nella storia, ma non aveva mai raggiunto il livello di sfacciataggine e mistificazione contemporanei in cui i nemici della conoscenza si piccano di esserne i rappresentanti ufficiali (cfr. La Società del Contrario, Zambon, 2005). Da questa pericolosissima svolta proviene non solo la contemporanea indifferenza verso la cultura autentica e la sostituzione di questa con banalità, superficialità e chiacchericci alla moda, ma anche con l’incapacità per la cultura di fornire soluzioni ai molteplici problemi che affliggono la società contemporanea.
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            Quelli che si credono astuti nel ridurre la vita ai soli bisogni pare non intendano che si tratta, invece, di una misera ritirata dalla vita ridotta al suo minimo comun denominatore di sopravvivenza e paura e in un individualismo che non ha proprio nulla d’individuale. L’uomo contemporaneo si trascina ormai in una situazione tanto disastrosa quanto spaventevole perché, come già in altre epoche, ha abdicato la libertà al bisogno. Si rinuncia al buono, al vero ed al bello chiamando tutto questo con il magniloquente termine di “realtà”, come se questa famigerata realtà dovesse necessariamente coincidere con la deprivazione di sé e non con il compimento umano. È proprio attraverso l’imposizione dell’esistente che è stata sottratta realtà all’esistere, trasformando il mondo intero in un luogo di terribile desolazione: Terribilis est locus iste.

            Se nel Ventennio bisognava credere nella patria, nel manganello e nel moschetto, oggi bisogna magari “credere” nell’economia del capitale e nel diritto dei pochi di dominare i molti. Le parole di adesso sono sicuramente più suadenti, ma la loro volgarità resta invariata: “seguite i dettami di chi comanda e state zitti”, anche se il mondo della vita vera grida altrimenti. Tapparsi occhi e orecchie diventa allora il primo dovere di chi vuol continuare a “credere e obbedire”. Il risultato che quest’apparato produce sugli esseri umani è di trasformarli nell’ombra di ciò che potrebbero davvero essere finendo così, come avevano già ammonito pensatori di un tempo ormai andato, nel perdere, per il vivere, proprio le ragioni del vivere. E, come notava Leopardi, tolto l’umano dal mondo, non resta che la barbarie.
(Sergio Caldarella, I nuovi fascismi dal faccino sorridente, in «Littera morta», nr. 12, 2013, pp. 45-53).