Monday, December 1, 2014

Émile Cioran, ritratto di un pensatore

Émile Cioran, uno tra i più acuti pensatori dello scorso secolo, è uno su cui non si può scrivere nessuna biografia perché, durante la sua vita, ha fatto il possibile per allontanare da sé i biografi provando ad ingannarli nascondendosi, facendo finta di essere uno sfaccendato, un apolide, un uomo senza segni e senza segreti. Cioran diceva: «Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso», ben sapendo che non c’è altro modo di scrivere davvero se non questo. Come altri grandi autori della modernità, Émile Cioran faceva suo quel verso di William Congreve secondo cui «Esser nudi è il modo migliore per nascondersi» («No mask like open truth to cover lies, As to go naked is the best disguise», The Double Dealer, 1694). Gran parte dei paradossi formulati nelle poche interviste rilasciate da Cioran erano, in realtà, sottili prese in giro per quei pochi giornalisti che riuscivano a raccogliere le forze per salire le scale fino a quella soffitta al 21 di Rue de l’Odéon, nel Quartiere latino. In una di queste rare interviste arrivò a dichiarare a François Bondy: «La maggior parte del tempo non faccio niente. Sono l’uomo più sfaccendato di Parigi. Credo che in questo possa battermi soltanto una puttana senza clienti» (tema ripetuto anche nei Syllogismes de l’amertume: «Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi»). Nel dir questo, e riecheggiando il suo caro Oblomov, Cioran si schierava contro la follia reattiva del mondo contemporaneo che pretende di interpretare ogni cosa come il prodotto di una qualche azione ponendosi dalla parte di coloro che comprendono la mutua e radicale esclusione tra lavoro e libertà – volendo magari indicare che era proprio il suo essere “sfaccendato” a renderlo libero, mentre il mito del lavoro, creato per garantire la pigrizia dei pochi, in un modo o nell’altro, rende gli uomini schiavi micidiali (è stata già fatta osservare da altri l’ossessione per il “lavoro ben fatto” che dominava e dirigeva larga parte della mostruosa attività dei criminali nazisti e non solo). Non a caso, nel Précis de décomposition, il pensatore rumeno arrivava a scrivere proprio di un principio satanico della dignità del lavoro in cui, tradendo la vocazione dello spirito, l’uomo si consegna alla produzione e viene asservito ad una mansione professionale qualunque, finendo per rendersi irriconoscibile anche a se stesso. La tesi che Horkheimer e Adorno, con un rigore accademico d’altri tempi, avevano anticipato già dal 1947: “L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime” (Dialettica dell’Illuminismo), trova espressione in Cioran attraverso frammenti di pensiero che rifuggono l’articolazione strutturata che ne ingabbierebbe la forza e l’estro trasformando una serie di dichiarazioni filosofiche in una risposta politica. Charles Bukowsky, forse l’altro antieroe d’oltreoceano più vicino a Cioran, dichiarerà fulmineo in una delle sue poesie: «Fools create their own paradise. Gli scemi riescono a crearsi un paradiso tutto loro» (Days like razors, nights full of rats) e parlava di quella che gli economisti definiscono enfaticamente come “popolazione attiva”, come di una popolazione di “scarecrows”, “spaventapasseri”, cui anch’egli raccontava di aver partecipato per decenni: «you get caught in the structure of what you’re supposed to be (...) so for 50 years I was a scarecrow and now I am supposed to be a writer, si viene catturati nella struttura di ciò che si suppone di essere (...) così per 50 anni sono stato uno spaventapasseri omologato e ora dovrei essere invece uno scrittore» (Bukowsky in un’intervista sull’individualità).
Con il suo stile di vita e di scrittura, senza però coinvolgersi nel linguaggio politico di una parte o dell’altra, Cioran esorcizzava la religione del capitale che diviene il compimento di quella scempiaggine universale che vuol sempre trasformare l’uomo in cosa ed ha ridotto il mondo intero in un’immensa quanto tetra officina in cui, nell’asservimento universale prodotto da questo meccanismo satanico, pochi si rendono ancora conto della schiavitù e del giogo universale che incombe su ognuno percependone, al massimo, differenze di grado, ossia le differenze tra le posizioni nel gioco/giogo sociale creato e gestito dai pochi sempre e solo allo scopo di mantenere i loro miserrimi privilegi a discapito d’altri. Leggendolo con attenzione si sente, in Cioran, una certa eco del Contrat Social: «L’homme est né libre, et partout il est dans les fers. L’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene», ma egli è un Rousseau senza una causa o una volontà politica. Anzi, l’antipolitica di Cioran è sia “anticapitalista” sia “anticomunista” e demitizza la mitologia del lavoro tanto cara al sistema capitalista tanto quanto a quello dei Soviet – sul mito del lavoro basterebbe ricordare gli attacchi di Lenin nel suo discorso contro Oblomov del 1922, in cui ha certamente qualcosa di sospetto che un leader politico arrivi a prenderserla con un personaggio immaginario sol perché questi pratica l’arte dell’ozio! Con un originalissimo gambetto Cioran disvela, dunque, l’unitarietà del mitologema del lavoro dietro le quinte di ideologie apparentemente diverse come quella capitalista o dei Soviet! Cioran, rigettando completamente l’antica ideologia dell’ozio quale pater vitiorum – tenendo però lontana la sua presunta funzione apologeticamente creativa, come aveva invece provato a fare Bertrand Russell nel suo Elogio dell’ozio (In Praise of Idleness and Other Essays, 1935) – ma ponendolo come una tra le più elevate virtù dello spirito umano, smaschera e polverizza, con un sol colpo, le ideologie che sostituiscono l’Assoluto con l’assoluto minore del capitale o dei processi di produzione e il lavoro quale pietra angolare della realtà (Wirklichkeit) caro sia alla Praxisphilosophie sia all’ideologia capitalista in cui il lavoro viene propagandato come la rappresentazione sociale del diritto ad esistere. Nel Novecento, nessuno ha mostrato in maniera più radicale e in sottovoce, la singolare coincidenza tra marxismo e capitalismo con la sagacia di cui è stato capace Cioran. È allora evidente come alcuni vogliano presentarlo come un pensatore di destra, una categoria, come quella di pensatore di sinistra, tanto vuota quanto antiquata: destra e sinistra hanno senso solo nel contesto di una comune volontà di dominio in cui fazioni diverse, ma con fini comuni, si contrappongono nell’agone sociale utilizzando l’uno o l’altro discours, o terminologia, per condurre le masse sotto i loro vessilli e bandiere.

Prestando la dovuta attenzione a quello che le parole, pur negando, affermano (“O voi ch’avete gl’intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto queste coperte alte e profonde” (Inf. IX 61)), si palesa non una presunta pigrizia di Cioran, un autore che ha scritto, fin da giovane, opere d’immensa profondità teoretica, ma il suo sottile rigetto, teorico e pratico, di una società che, attraverso i suoi giochi e meccanismi contorti, vuol costantemente rendere l’uomo irriconoscibile anche a se stesso – come se lo scopo intrinseco della socialità contemporanea fosse quello di far rifuggire l’uomo dall’uomo, configurandosi, così, come il più pernicioso antiumanesimo mai generato dalla storia. Cioran intuisce immediatamente, già da giovanissimo, che non esiste una soluzione politica ai problemi dell’uomo della modernità e respinge, da subito, i giochi di questo mondo artato, nascondendo questo suo rigetto sotto i panni di un’apparente rinuncia alla vita – ecco il maestro che parla proprio attraverso quel che non dice – perché Cioran, con acume da artista e da poeta, ha amato la vita con un fervore che ne coglieva la grandezza in ogni istante vissuto. Una volta confidò a Costantin Noica: «Ascolta, non parlarne a nessuno, ma io amo molto la vita»; quale risposta sarebbe del resto possibile ad una società del contrario se non quella di mascherare l’amore per la vita proprio con il suo contrario? L’amore profondo che Cioran manifesta per la vita non è certo indirizzato a quel trascorrere di giorni schiacciati dal gioco determinato dai pochi che è proprio l’oggetto fondamentale delle sue invettive, ma all’esistenza libera e vera, la vita nell’essere in cui la cosa non coincide più con il valore e il valore di ognuno non è mai in ciò che fa, ma in ciò che egli autenticamente è: non per nulla i suoi personaggi preferiti, ed i suoi maestri, erano gente ai margini che non aveva mai scritto nulla, ubriachi, becchini o individui bislacchi e considerati folli, gente che faceva dell’essere l’esistere – due tra coloro che ebbero maggior influenza su di lui da ragazzo erano proprio il becchino e l’ubriaco di Răşinari, sua città natale. Cioran ebbe anche a dire che da una persona in un bar o da una portinaia che abbia pensato a lungo e intensamente sui grandi problemi della vita c’è infinitamente più da imparare che da un intellettuale infatuato di sé – c’è, anche in questo, una singolare comunanza tra Cioran e il già ricordato Charles Bukowsky. Cioran non veste nessuna livrea e non tira fuori soluzioni dal cilindro dell’intellettuale, non si oppone ai Signori del grande gioco, li lascia perdere e basta, limitandosi a vivere al margine della società degli affaccendati, ma al centro del suo universo di problemi e pensieri.
È singolare che, mentre questo pensatore di una grandezza ancora da indagare passava le proprie giornate e le notti a tessere rime di pensieri nei suoi quaderni, nessuno, tra i tanti minuscoli ciambellani delle tante accademie parigine abbia pensato di offrirgli, a suo tempo, la possibilità di condividere questo suo pensare in un’aula (ammesso che si fosse riusciti a convincerlo), mentre appena pochi decenni addietro Bertrand Russell e altri suoi colleghi si umiliavano (letteralmente) di fronte a Ludwig Wittgenstein per convincerlo a lasciare una baita norvegese in cui si era rintanato ed averlo a Cambridge. Lo sconcertante atteggiamento degli accademici contemporanei, oltre ad essere avvilente e ripugnante, rende anche impossibile rappresentare davvero la colpevolezza di questi ignobili ciambellani di fronte alle generazioni presenti e future per tutto quello che hanno sottratto e sottraggono alla cultura autentica che, sola, avrebbe ancora la possibilità di redimere la follia del mondo e salvare la nostra specie dall’autodistruzione. All’annientamento della cultura operato da questi stipendiati parrucconi Cioran risponde, invece, con lo sfoggio di una finta indolenza e attraverso l’uso del più esagerato paradosso: alla moglie di Ernst Jünger, che gli chiedeva da dove traesse il suo sostentamento, rispondeva di essersi abituato a vivere da manutengolo, mentre questi accademici dalle facce di palta che, con il loro blaterare bavoso arrivano a far stancare anche della parola, i veri papponi, le mezzetacche bardate di tocco e toga complici del meccanismo di dominio, quelli che si calano le braghe per un tozzo di pane muffito e legittimano, con i loro timbri sbavati, cerimonie da postribolo e pergamene, la barbarie e l’immane idiozia del nostro tempo, passavano per affaccendati! Quali inerrarabili paradossi impone la modernità! Come dovrebbe allora rispondere a questi riprorevoli paradossi un pensatore del calibro di Cioran se non con altri paradossi? Come si potrebbe altrimenti argomentare contro un’epoca che sembra abbia smarrito quel lento procedere di pensieri che accompagna l’argomentazione e si sbraca così facilmente in sofismi, paralogismi, propaganda e deliri di parole cieche? Al nostro tragico tempo, in cui nei cervelli c’è un allegro fiorire di gramigne, cosa potrebbe mai opporgli chi pensa se non la reclusione e l’esilio volontari? Ed è questo ciò che, infatti, avviene sotto gli occhi di tutti se proprio i più grandi e importanti nomi della cultura, a partire dall’Ottocento, sono degli esclusi dal mondo in cui vivono: Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Kafka, Pessoa, Chestov, Fondane, Caraco, Cioran, per limitarsi solo ad alcuni. Alla canaglia oggi arroccata nei dipartimenti universitari, nelle case editrici e nelle biblioteche, tutto questo non importa nulla, alle loro orecchie corrotte queste non sono neppure argomentazioni, a loro sta bene così e basta. Il futuro che questi abietti bravacci, questi sofisti da retrobottega, stanno costruendo – ed hanno già in larga parte realizzato – è quello di un mondo deprivato di qualunque contenuto spiritualmente autentico e profondo, una realtà depravata, dove solo l’ignoranza più volgare e la dimenticanza di sé possono avere spazio e parola. Le vite di pensatori autentici e fieri come Cioran, lontani e allontanati dalle aule e dall’accademia, sono una tra le prove più evidenti della corruzione cui hanno condotto la cultura contemporanea, rigettando i maestri e occupando le case del sapere trasformate in postriboli per i loro vizi, vezzi e mecenati. È proprio in questo lugubre scenario della cultura contemporanea che, nel 1977, Émile Cioran rifiutò il premio Roger-Nimier conferitogli per la sua opera, ed i 10.000 franchi associati al riconoscimento, questo anche per via del disgusto che gli provocava, come ebbe a dichiarare molti anni dopo, vedere come i vari intellettuali parigini fossero tutti impegnati in una squallida competizione per ottenere premi e conferimenti vari. Questo è uno dei tanti punti in cui Cioran mostra, con esemplare chiarezza, come il suo rifiuto del mondo sia di natura principalmente estetica – poiché, come già mostra Kant nella sua estetica, il disgusto può ben dirsi categoria profondamente estetica. Cioran arrivava anche a dire di provare una sensazione di “vomito” quando definiva il suo lavoro intellettuale come “opera”, ma questo non perché i suoi lavori non rappresentino una maestosa opera profondamente culturale, quanto a causa dell’abuso che si fa di termini come “opera” nella landa della pseudocultura dei parvenu che oggi passa per la cultura ufficiale. Cioran accettò solo il primo premio che gli venne conferito, il Rivarol nel 1949, solo poiché la levità di questo grande pensatore gli faceva ritenere un’impudenza, da parte di un autore sconosciuto, rifiutare un premio letterario e solo dopo aver meglio inteso i meccanismi della vita letteraria francese del tempo, che sono poi anche i meccanismi della cultura ufficiale contemporanea, aveva capito che accettare un Premio letterario di qualunque tipo rappresentava uno sgradevole atto di compromissione intellettuale. Molti notevoli esempi possono essere tratti dalla millenaria storia della cultura da Diogene di Sinope al filosofo cinese Wang Chong (ca. 27–100) o al poeta Tao Yuanming (365–427) il quale, disgustato dagli intrighi cui assistette, rifiutò di compromettersi per un tozzo di pane con le parole “rifiuto di inchinarmi come un servo in cambio di cinque misure di grano”. Lascia un sapore amaro osservare come oggi molti tra i commentatori di Cioran partecipino proprio di quell’ufficialità culturale che egli rigettava e disprezzava.

In Cioran si colgono le tracce di quei pensatori da lui amati quali Schopenhauer, Leopardi, Nietzsche o Spengler (vedi anche il recente volume L’agonia dell’Occidente, dal titolo giustamente spengleriano, che raccoglie le lettere tra Cioran e Wolfgang Kraus). Cioran intende la storia partendo dall’antistoria e così i popoli più fortunati, i popoli autenticamente eletti, sarebbero per lui proprio quelli che, come nel vecchio detto, non hanno storia, quelli che sono stati capaci di tenersi lontani dalla follia della storia. Similmente alla sua vita, in cui l’orrore di un mondo in mano alla malvagità ed alla mediocrità lo portò al ritiro da questo, Cioran propone una versione traslata di questo ritiro anche per la storia dei popoli: poiché la storia è il luogo della brutalità e della miseria degli uomini più miserevoli allora dirsi “fortunati” è dirsi ad essa estranei. È comprensibile la disillusione verso la storia o, per meglio dire, verso la specie umana che fa la storia, da parte di un pensatore post-nietzschiano e post-spengleriano passato attraverso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale: “Istoria universală nu e altceva decât o repetare de catastrofe în aşteptarea unei catastrofe finale, La storia mondiale non è altro che il ripetersi di catastrofi in attesa di una catastrofe finale”. La disillusione di Cioran verso l’uomo e la storia – tratto tipico di molti grandi pensatori – non nasce dalla sua spietata critica alla società contemporanea, ma dalla sua incapacità di comprendere il senso dell’andare degli uomini trasformati in spaventapasseri, in esecutori e manichini di un grande gioco di cui non vedono né la mano artefice né il senso e confondono il fare con l’agire o il sopraffare con la vittoria.
Nonostante la profondità del suo pensiero, quando Cioran osservava di aver scritto quindici libri sempre e solo su un unico tema, ossia la sua ossessione verso la futilità e la morte e che tutti gli altri problemi non hanno nessuna importanza – riecheggiando qui il Camus del Mythe de Sisyphe – egli indulgeva, in questo punto centrale del suo pensiero, in una dichiarazione che contiene quell’antica vanità dell’uomo la quale considera importante ciò che lo riguarda di più e, poiché la morte sembra riguardarlo più di ogni altra cosa, allora la vanità umana vorrebbe che questa fosse il problema più importante tra tutti. Anche in Cioran, a dispetto della sua teoresi, il principio secondo cui il problema della morte viene affrontato è quello dell’esorcismo secondo cui: “tutto ciò che è formulabile, diviene più tollerabile”, che è anche una terminologia dalla forte connotazione freudiana – Cioran ha dichiarato spesso che la formulazione scritta dei suoi pensieri ha avuto un’efficacia enorme contro la depressione che, a suo dire, lo ha afflitto per tutta la vita, anche qui nuovamente un topos fortemente freudiano. La ragione, attraverso i suoi dialoghi e confutazioni, cerca di rispondere alla morte, ma la morte non ha risposta alcuna perché non è un interlocutore e allora l’uomo di pensiero gli si erge di fronte e prova a sviscerare un mantra che allevi la sua pena verso la morte. All’età di ventuno anni Cioran già si definiva come un esperto sulla morte perché questo era un tema che lo toccava sin dalla giovanissima età quando, come raccontava, intorno agli otto anni giocava a pallone con dei teschi che gli venivano regalati dal suo amico, il becchino di Răşinari, una scena certamente macabra, ma dal contenuto già precocemente filosofico.

Cioran è uno che vuol vincere contro la vita stessa, scaraventare la morte fuori dalla vita attraverso un atteggiamento sprezzante e irriconciliabile con i tanti e vari artifizi del mondo. Questo non significa che egli abbia vinto la sua battaglia, Cioran sapeva benissimo che la sua era una tenzone che ammetteva solo la sconfitta. In età avanzata, poi, crollò di fronte all’inganno degli occhi mielosi di un’insegnante di filosofia di Colonia che, attraverso baci e abbracci, gli fece scoprire quella potenza primordiale e assoluta in cui si inseguono e abbracciano vita e morte o, come avrebbe detto proprio il grande viennese: eros e thanatos. L’inizio della fine e la fine dell’inizio. Come altri prima di lui anche Cioran viene apparentemente sconfitto dall’aver creduto a degli occhi belli, la dea primordiale e crudele di nome Amore lo pugnala per mano di una donna molto più giovane, ma il suo pensiero rimane e, come ogni grande pensiero, ergendosi ben oltre la penna che lo ha vergato, non contiene traccia della sua ultima sconfitta se non nel fatto che questa contribuì a dare il colpo finale al suo grido intellettuale, conducendolo alla rinuncia alla scrittura che egli motivava dicendo di essersi stancato di calunniare l’universo. Come ogni grande pensatore, l’ultimo schiaffo che Cioran ha dato alla morte è proprio quello di esserle passato attraverso.


(Sergio Caldarella, Émile Cioran, ritratto di un pensatore, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 190, Firenze 2014).

Wednesday, November 5, 2014

Q&A with High School students in NJ regarding a “State of the Economy project‏”.

Question: How has your education impacted your career and economic situation?
Answer: I tend to disregard any possible connection between career, economic situation and education. I believe this connection to be a very dangerous aspect of the political ideology of our time. The arbitrary connection between education, career and personal economic situation has created, nowadays, a long series of issues that have led our society to disregard the real value and content of knowledge, turning education into some sort of business and not into the most important goal that a society can set. When education serves only the meager purpose of getting a “better job” it is not real education anymore, but a mere professional training. Nowadays there is the extremely dangerous tendency to quantify how much more money a person with a degree will make compared to someone that has none – there are TV commercials about that and some US universities are even listed on the Stock Exchange! This approach of considering education as a mere introduction to the professional world, making knowledge a maidservant of the industry, is so fundamentally wrong from the ethical and social side and has led to some sort of “blind society” where real resources such as knowledge, cooperation, understanding, and social cohesion are neglected in exchange for egotistic and narcissistic ideologies pushing forward only one side of the multifaceted nature of human life. In such a climate only brutal and unscrupulous individuals are promoted to the higher levels of control of the society, driving our world to lower and lower levels of humanity and, consequently, to a very dangerous brutality for all. This situation of decline is variously described and the author Paul Auster, in “The Brooklyn Follies”, wrote: “Con men and tricksters run the world. Rascals rule. And do you know why? (…) Because they’re hungrier than we are. Because they know what they want. Because they believe in life more than we do”. In reality it’s just the opposite of what this book character utters: the ruling class of tricksters and con men do not believe in life or, in Socratic terms, they do not really know what they are doing. Personally I tried to depict this situation and the need to act against it in “La società del contrario” (“The Upside down-society”), a book published in Italian in 2005. Similar books can be found in the US, in particular Richard Weaver’s, “Ideas Have Consequences” (1949), Ferdinand Lundberg’s, :” The Rich and the Super-Rich” (1969) or “The Natural Depravity of Mankind” (1994) and Allan Bloom’s “The Closing of the American Mind” (1997).

Question: How is the economic system in America different from those in other countries you've lived in?
Answer: The main difference I can see is that in the US the economic system is more pervasive and this is mainly the product of a specific political ideology that insist on turning all aspects of life into the monocratic aspect of “the economy” – real culture, real education should be capable to produce resistance to ideology, because reading real books makes people have real thoughts and if someone thinks, he or she cannot be easily tricked by sophistries or brutal quantifications, that’s why it has been necessary to reduce education to mere training (Reading Alexis De Tocqueville’s “Democracy in America” - especially Chapter XV, 2nd edition, could eventually help to better clarify this point).

It is noticeable how the ideology of the “economy über alles” changes the way through which people look at reality, pushing them into the delusion of considering every aspect of existence as an “economical factor” and not as a human factor. The ideology of competition can be a good example of this ideological twisting of reality: one of the main elements of social life is cooperation and not competition and history proves that successful societies are those where people cooperates, but in our time we are constantly bombarded by a propaganda that expect people to compete on every aspect of life instead of cooperating – there is also a tendency to twist Darwinism into an ideology to justify this kind of social competition. In itself, social competition (which is basically a merchant concept, i.e. if my merchandise cost less than yours than I am going to sell more than you), is applied to the generals of social life also with the scope to avoid people to become conscious of the social issues surrounding us and unite against it: when people are constantly struggling in a man made competition they don’t have the time and opportunity to get together and start analyzing the common issues, enemies and problems affecting their lives. The contemporary man, what I call “homo novus”, “the new man”, actually lives in the paradoxical situation where people cannot even tolerate to talk about their chains for fear of being reminded of their slavery that they are trying to forget in all possible ways using amusements and trivia (see Neil Postman’s “Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business” (1985)). Unavoidably, this mentality produces many damages on the social and the individual level that are too vast to be discussed in short (I would suggest as further reading “The Eclipse of Reason” by Max Horkheimer and most of Erich Fromm’s works).
I would also like to add, although the common opinion believes America to be somehow different from other countries, that this “difference” is, in fact, almost non-existent, being the contemporary crisis a global crisis rooted in a specific mentality that, since millennia, sees the world and other people as objects and subjects or mere means to an end (see Kant’s Ethics). This mentality of dominance and brutality is the most radical issue faced by our time and the only cure to this destructive mentality is a shift to real knowledge – as Plato already pointed out at the beginnings of Western philosophical thinking.
The huge technical apparatus and the ideological propaganda that our oligarchies controls, have made possible to manipulate societies to a point at which the standardization and homogenisation of human beings makes them incapable to follow an argument that has not already been made familiar to them in one form or another i.e. the impossibility to follow an argumentation only on the basis of the logical elements or consequences of it – major and more vulgar examples in the US are the absurd debates between “creationism and evolutionism” or, more recently, the “climate change debate”. This is, by the way, similar to what happened already in other historical periods from the time when Kepler or Galilei were offering a different view from the official version of the universe and many creators of new ideas ended paying with incarceration, torture and in some cases with their lives for the dissonance between their ideas and the common opinion – see, for example, the case of Giordano Bruno. Nevertheless, the huge difference between our time and other epochs is that new ideas, even when rejected and opposed, in the past still managed to create some resonance and effect in those societies, because culture was alive and not in the firm hands of the powerful, while in our age standardization seems to be the norm and there are no new ideas that create a reaction in society (except for the products of the technical apparatus). Socrates was killed because of the dissonance of his ideas with the society of his time, but also because those ideas where capable to represent some danger for the establishment, while nowadays ideas have no more space to emerge and become challenging to the status quo (see also “The Dialectic of Enlightenment” by Theodor Adorno and Max Horkheimer). One more example of the power of ideas in the past, among the many, could be the story of the great poet and writer Osip Mandelstam: in 1933 Mandelstam wrote a poem against Joseph Stalin, one of the cruelest and most horrible individuals of the last century, and read his critical poem only to very few people, but for that he was arrested and sent to a Gulag where he died after five long years of imprisonment. Those people under the Soviet dictator had no “freedom of speech” and yet their speech, even a solitary poem read to selected people, was so powerful that a terrible dictator like Stalin was worried about those few lines recited in a private home! The enormous efforts that tyrannies made in the past to make publication impossible were a clear indication of how much they feared real knowledge. This was the power of culture in the past.
Today we apparently have “freedom of speech” (but this “freedom”, apparently guaranteed by the First Amendment, does not apply in large parts of the life of Americans: for example, in a Corporation or any other commercial endeavor the First Amendment is suspended “by law”) and you can certainly stand on Central Park or on some street intersection and talk out loud (considering that we do have our unspeakable taboo’s as well), but your speech would not produce any result apart for looking silly among the crowd of passerby’s. If instead your “discourse” is preaching to the choir, in that case you won’t need to talk in isolation and you might be rewarded with University tenure and enter the official circle of some well known literati. All of this to point out the fact that ours is a very dangerous moment in history and when people have no influence over the society they live in, they also have no real control over their lives (as further reading I would suggest two novels: Aldous Huxley’s “Brave New World” and Ray Bradbury’s “Fahrenheit 451”).

Question: What are some of the US economy’s biggest problems today, in your opinion?
Answer: First of all the real problem in the US is the view of economy as a dominant category of life, an ideology that wants to turn every aspect of social existence into a matter of give and take. This brutal reduction of existence to arbitrary quantifications has also facilitated the shift to the dominance of finance over economy.
Another of the many issues is the lack of vision by the small oligarchies in control, which is, by the way, something that oligarchies always lacked since the beginning of history. The peculiarity of the Founding Fathers was to be cultivated individuals with a precise vision for the country they were going to create and this vision is still visible in the language of the Declaration of Independence and in the conceptual structure of the US Constitution. Unfortunately, many things have happen since July 4th 1776 and the contemporary ruling class have no commonality whatsoever to that of the XVIII century.
President J. F. Kennedy, a statesman still inspired by the ideals at the core of the foundation of the United States – and therefore brutally killed (see above) – during a Dinner at the White House Honoring Nobel Prize Winners of the Western Hemisphere, on April 29, 1962, in his speech remarked “I think this is the most extraordinary collection of talent, of human knowledge, that has ever been gathered together at the White House, with the possible exception of when Thomas Jefferson dined alone.” In some ways, this remark, that at first might seem just a funny opening for a speech, contains a deep message of what our time has been turned into.

Question: What reforms/ policies could the U.S. implement to fix these problems?
Answer: Real knowledge could be the only basis to steer society away from future catastrophes, but real culture cannot be created so easily, especially after the last 50 years of constant destruction of real knowledge. It would be necessary to build a new approach to knowledge and understanding, but this is not an easy task, nor is a task requested by the oligarchies or the people controlled by them – it’s like a sick patient that doesn’t know to be sick because he feels so great and a villainous doctor reinforce his belief telling him that he’s absolutely fine and well and not to believe anyone who tells him otherwise. Real knowledge is based on a disinterested approach to learning and in the current situation of our society this disinterested approach is a desperate need felt only by very few.
In every civilization the crossroad is always at the point when technical development goes alone without any philosophical/epistemological understanding and this is exactly the point where we are currently. We need a way of thinking the world and us in it that is not anymore the brutal materialistic way of power and domination, but a way to cooperation between people and a better understanding of the real realities of life. Life is infinitely more than what the villainous doctor wants us to trick into believe.

Thursday, October 16, 2014

The Dormants and the Atomic Bomb






From an epistemological standpoint, the modern man is not too far from certain primitive mythologies, because even in our age of “triumphant calamity”, we continue to peddle the little that we know for the totality of knowledge. It thus ends up ignoring, intentionally or not, that large part of our much-vaunted science is purely a mechanical imitation of Nature.
The hubris of the man who dominates electricity is not so different from that of the man who dominates the fields using a plow; it is only a hubris enhanced by the energy that powers our new mechanical tools and toys, and that’s all the difference. Of course, the hubris of a man who has peeked on the surface of the secrets of the microcosm gives his ego a disproportion that makes him feel the ruler of the universe – he already had that fancy long time ago when he barely used sword and spear to subdue others, let alone now that he has learned how to separate certain atomic nuclei.
In reality, what the manipulative knowledge of certain atomic mechanisms really gives to man is the power to blow up a thousand times his own planet; a knowledge that only serve the purpose of increasing the madness of the homo novus. Without fear of exaggeration, this situation could also be compared to that of a guy who comes into a room full of people with a grenade in his pocket and believe himself to be strong and powerful just because he has in its power the possibility, clear and effective, to blow up all people in the room. Who would not hesitate to declare such a person insane? Yet, if we extend this discussion to those who have control over the buttons to destroy the entire planet (and to those who provide and maintain these buttons) the majority of those to whom you would ask the question of whether to declare those people in power out of mind, would portray from such an assertion, mentioning a series of arguments which, as they have been educated to believe, legitimize and justify these mechanisms of power that serve to maintain the criminal and destructive potential of atomic weapons. It is perhaps the mechanism of double standards (i.e. killing is wrong, but killing in the name of the Fatherland is right, or it is wrong to lie, but to lie for the good political reasons of the country is right) to represent some sort of justification for the existence and maintenance of criminal weapons of mass destruction capable of bringing the whole of humanity to extinction? But if these instruments of death are capable to extinguish our species, what sense it makes, even in this case, to appeal to the old mechanism of double standards to justify the existence of weapons, which would clear all the contenders once for all? What perverse blindness prevents our species to see the danger – and the crossroad – in front of which is it faced by this weapons of mass destruction?
Simple arithmetic would suffice to figure out that this situation will eventually lead to a catastrophe with no return: in 1945 there was only one country in possession of the atomic weapon and, as soon as the first nuclear device was ready, it was immediately used on civilian targets – also to test the destructive potential of it (see also Aa.Vv., Hiroshima’s Shadow, The Pamphleteer’s Press, Stony Creek, Connecticut 1998). In 1949, just four years later, the countries holding this criminal weapon became two: a monocratic dictatorship and a plutocracy. After a little more than 60 years, at least 10 countries have their hands over these weapons of global destruction (not counting those in “nuclear sharing” or including other nonsenses such as chemical and biological weapons produced by the talent of our age of “triumphant calamity”). This arithmetic of terror and madness which, however, does not seem to have much influence on contemporary society, catastrophically busy with his games and fictions, makes you wonder about the deep state of hallucinogenic madness of the contemporary man. Who, if not someone in a deep state of numbness, could not care about the biggest danger looming over his head? Are this people awake or asleep? And what dreams do they have? The happy many dream of thoughtless happiness while others, building more and more powerful weapons of total annihilation, prepare for their final nightmare. Today, it is the first duty of every thinking individual to try, as much as he can, to wake up his fellows to the immense self-destructive trap that modern man has created for himself. There is no greater call in our time. Thank you.

(Text of the speech The Dormants and the Atomic Bomb delivered on October 11, 2014 by Sergio Caldarella at The Group for Global Peace and Understanding in New York City).

 (Italian version)

I dormienti e la bomba atomica

Da un punto di vista epistemologico, l’uomo contemporaneo non è poi troppo lontano da certe mitologie primitive, in quanto, anche nella nostra epoca di “trionfante sventura”, si continua a spacciare quel poco che sappiamo per la totalità del sapere. Si finisce così per ignorare, deliberatamente o meno, che larga parte delle nostre tanto decantate scienze sono magre imitazioni meccaniche della natura.
La hybris dell’uomo che domina l’elettricità non è così lontana da quella dell’uomo che domina i campi con l’aratro: è soltanto una hybris potenziata dall’energia che alimenta il mezzo meccanico, tutto qui. Certo, la hybris di un uomo che ha sbirciato la superficie dei segreti del microcosmo conferisce al suo ego una sproporzione tale da farlo sentire il dominatore dell’universo – già si sentiva tale quando usava a malapena il gladio e la lancia per sottomettere altri, figuriamoci adesso che ha imparato come separare certi nuclei atomici. In realtà, quello che la conoscenza manipolativa di certi meccanismi atomici conferisce davvero a quest’uomo è il potere di far saltare mille volte per aria il pianeta che l’ha generato; una conoscenza che ad altro non serve se non ad aumentare la terrificante pazzia dell’homo novus. Senza timore di esagerazione, questa situazione potrebbe anche venir raffrontata a quella di un tizio che entri in una sala piena di gente, con una granata in tasca, e si creda forte e potente perché ha in suo potere la possibilità, evidente ed effettiva, di far saltare tutti per aria. Chi non esiterebbe a dichiarar folle un tale individuo? Eppure, se estendiamo questo discorso a quelli che detengono il controllo sui pulsanti e le leve per mandare per aria il pianeta intero (ed a coloro che gli forniscono e mantengono questi pulsanti), la gran parte di coloro ai quali si ponesse la domanda se dichiararli fuori di mente, esiterebbe di fronte ad una tale asserzione, adducendo tutta una serie di argomentazioni che, per come gli è stato spiegato, legittimano e giustificano questi meccanismi di potere che si servono di deterrenti distruttivi dalla potenzialità criminale. È forse il meccanismo della doppia morale (Quod licet Iovi, non licet bovi; uccidere è sbagliato, ma uccidere in nome della Patria è giusto, mentire è sbagliato, ma mentire per il bene del Paese è giusto) a rappresentare una sorta di giustificazione all’esistenza ed al mantenimento criminale di armi di distruzione di massa capaci di condurre all’estinzione l’umanità intera? Ma se tali strumenti di morte sono in grado di estinguere la nostra specie, che senso potrebbe mai avere, anche in questo caso, appellarsi al vecchio meccanismo della doppia morale per giustificare l’esistenza di armi che porterebbero all’azzeramento di tutti i contendenti? Quale perversa cecità impedisce alla nostra specie di vedere il pericolo – ed il bivio – di fronte al quale si trova ormai da tempo?
Basterebbe la semplice aritmetica per capire che questa situazione porterà ad una catastrofe senza ritorno: nel 1945 c’era un solo Paese a possedere l’atomica e, non appena l’ebbe, ne fece uso immediato su obiettivi civili anche per testarne il potenziale distruttivo (cfr. Aa.Vv., Hiroshima’s Shadow, The Pamphleteer’s Press, Stony Creek, Connecticut 1998). Nel 1949, appena quattro anni dopo, i Paesi in possesso di quest’arma criminale divennero due: una dittatura monocratica ed una plutocrazia. Dopo poco più di 60 anni, almeno 10 Paesi dispongono di questo strumento (senza considerare quelli in “condivisione nucleare”, né includendo altre mirabili assurdità quali armi chimiche e biologiche prodotte dall’ingegno dell’epoca di “trionfante sventura”): un’aritmetica del terrore e della follia che, però, sembra non abbia ormai quasi nessuna presa o riverbero sulla società contemporanea catastroficamente intenta nel suo andirivieni e nei suoi giochi. Viene da chiedersi: ma che gente è mai questa che non si cura del più grande pericolo che incombe sulle loro teste? Sono vegli o sonnambuli?


(© Sergio Caldarella, 2014)