Tuesday, March 30, 2010

Idiocrazie globali


Nell’epoca delle idiocrazie globali si può parlare di tutto, ma non di idiozia: sarebbe come parlare di corda in casa dell’impiccato.
S. C.

Saturday, March 6, 2010

Pasolini è morto


Il nostro è un tempo che ama invaghirsi di classifiche e categorie con le quali si pretende di narrare e stabilire, come nello sport e negli spettacoli, chi arriva primo e chi ultimo, riducendo la corsa degli uomini nella vita ad una volgare metafora fatta di guardalinee e punteggi, come se tra le preziosità o le abiezioni dell’esistenza umana vi fossero davvero arbitri che fischiano falli e rigori. Pasolini, dunque, non possiamo metterlo in nessuna classifica: non era di destra e non era neppure di sinistra, non era solo un poeta né solo un autore o un regista, ma era di sicuro uno tra gli intellettuali più sensibili alla società che lo circondava, stava tra quelli che, nel suo tempo, scrivevano con il cuore. Per questo suo “essere un intellettuale a tutto tondo”, ossia un acuto osservatore del mondo che lo circondava, Pasolini è morto, ucciso nel fango con il cranio e le ossa fracassate. Intorno a lui i potenti del suo tempo hanno costruito una storiella, un bel raccontino fatto ad arte, uno di quelli che chi comanda sa bene come imporre ai suoi sudditi. Il tempo, però, sta lentamente svestendo la trama di questo racconto per ridarci il senso di una profonda verità che, all’epoca (1975), nessuno voleva comprendere; lo stesso era già avvenuto, anni prima, con l’assassinio di Enrico Mattei (1962), dopo con Giorgio Ambrosoli (1979) e di molti altri a seguire.
Pasolini è stato ucciso, un grande uomo è morto, ucciso dai piccoli uomini ai quali la sua voce dava fastidio. Per lui hanno escogitato nomi e nomignoli, i pochi ne hanno detto bene, i molti non potevano che dirne male. Quello che di lui resta, il suo più grande dono, è la sua scrittura, i suoi film, le sue interviste e le sue poesie cesellate con la minuziosa cura che solo un maestro sa imprimere alle sue opere. Ovviamente oggi conviene a pochi ricordare Pasolini, tanto quanto conveniva poco ricordarlo quando era ancora in vita. Parlare di Pasolini, parlarne in un certo modo, significa, ancor’oggi, mettersi da una parte ben precisa, significa dire: io non sto con voi, non faccio parte del vostro ballo. Se proprio vogliamo capire l‘Italia di oggi non abbiamo che da leggere i suoi scritti, non abbiamo che da ascoltare le sue interviste, ma lui, già a suo tempo, ci aveva avvertiti che nel mondo del futuro il conformismo e l’omogolazione sarebbero state confuse con l’indipendenza e la libertà, il diritto avrebbe continuato ad essere nelle mani del più forte e la nuova tirannide sarebbe stata ben più sottile di tutte quelle conosciute prima. Pasolini è morto e Pasolini doveva morire, perché quello che scriveva non erano le parole di un cantore d’accademia o di un giullare, ma lame capaci di far capire a chi poteva capire. Nessun potere, soprattutto il potere dell’Italia d’allora, avrebbe potuto tollerare un poeta che gridava la loro nudità nelle pagine dei suoi libri, un uomo che sapeva sì stare al mondo, ma non era ancora disposto a mettere da parte la sua umanità per un tozzo di pane. Per questo, più di ogni altra cosa – non perché volesse fare i nomi dei mandanti delle stragi – lo hanno lasciato esangue in mezzo al fango, quale curiosa allegoria per un poeta, finire in quella materia grigia e maleodorante da cui, secondo altri miti, invece, ha proprio avuto inizio l’uomo.

(© Sergio Caldarella, 2010)