È strabiliante notare come, a livello
della opinion publique, non si sia o
non si voglia cogliere, la natura profondamente contemporanea delle dittature
dello scorso secolo e di quanto quei principi ideologici deumanizzanti, mutatis mutandis, continuino ad avere un
ruolo sempre maggiore e più pernicioso nelle società attuali. Si pretende di relegare
gli eventi del fascismo, franchismo, nazismo o stalinismo al rango di anomalie
ormai tramontate, spettri seppelliti nel cimitero della storia, e non si vuol invece
vedere quanto la radice di quelle categorie contorte, attraverso una mutazione estemporanea
che è più un adattamento ai tempi, serpeggi ancora in vari gradi nel mondo
contemporaneo.
Molte sono
oggi le strategie escogitate per non fare i conti con un passato tanto tetro
quanto vicino. La gente che per la gran parte s’incontra in giro per il mondo
non si pone quasi più domande sul passato e, nei casi comuni e sintomatici, non
si pone neppure domande che vadano appena un po’ oltre l’immediato presente. L’homo occidentalis contemporaneo si è a
tal punto rimpicciolito da interessarsi unicamente a quale scuola andare per
ottenere il diplomino migliore per sistemarsi da qualche parte, gli interessa
il viaggetto, la macchinetta, la miscela per il caffè e il tappetino della
doccia, ma non ha alcun interesse per il passato o il futuro, perché questi non
lo includono né rientrano in quest’orizzonte artato e immediato che si è
costruito. I posteri sono ormai tramontati e ad essi non viene oggi più demandata
alcuna ardua sentenza. Tutto ciò che
questo bizzarro uomo nuovo intende è quanto
il destino curioso gli ha posto davanti l’uscio di casa e il futuro non è certo
parte di quest’orizzonte. Quest’atteggiamento di pericolosa indifferenza è anche
l’ennesimo sottoprodotto della smisurata condizione narcisista nella quale vive
l’individuo contemporaneo (esiste del resto un curioso rapporto tra piccolezza
d’animo e narcisismo). Nel
mondo del cosiddetto benessere gli uomini sono troppo presi da un’immensa
follia di sé che li affanna e affaccenda. Stanno tutto il tempo a dire e
pensare: “io, io, io”, avvinti in quel personalissimo microcosmo che il grande
Pascal aveva già liquidato con la sola frase Le moi est haïssable. L’io è
odioso. La ragione calcolante basata sull’io che si presenta come una ratio,
il calcolo dell’interesse personale o del 2+2, quella che Dostojevskij chiamava
la ragione “Euclidea, terrestre”, se guardata con maggior attenzione, svela il
volto di una follia che, in realtà, non è più in grado di guardare al mondo
secondo l’ottica dell’umanità, dell’etica o dell’equilibrio, elementi centrali
per una ragione che voglia dirsi autentica. I Greci avevano del resto già ben compreso
che ogni disproporzione è una frattura attraverso cui la follia e la barbarie
accedono nel mondo, anche per questo l’oracolo delfico insegnava quale
principio fondamentale la regola della misura: μηδὲν ἄγαν. Altri hanno poi anche
voluto vedere nel Minotauro la rappresentazione dell’irrazionale all’interno
del labirinto della ragione e Teseo come l’incarnazione della ragione buona,
quella che conosce il senso della misura e segue il filo di Arianna, non la
forza brutale che tutto sfascia solo perché può farlo, ossia solo perché
detiene i mezzi per la determinazione dei fini.
Il
trapasso dalle dittature dal grugno duro e quelle dalla faccina sorridente e dell’omologazione
è egregiamente riassunto in due racconti capaci di sintetizzare la realtà
attraverso la fantasia: 1984 di
George Orwell e Brave New World di
Aldous Huxley, nell’uno si parla della dittatura forte, quella dura e poliziesca,
nell’altro di quella soft, per noi
ben più attuale, in cui gli esseri umani vengono subdolamente persuasi delle
ragioni di chi li controlla. Entrambe i romanzi hanno in comune la
dissociazione della parola dal significato che caratterizza i due modelli di
controllo sociale solo apparentemente diversi. Anche a dispetto della
magniloquente propaganda della società attuale, i segni del dominio dei pochi
sui molti sono del resto lapalissiani per chi non abbia abdicato alla facoltà
di vedere e Rousseau, già nel 1762, riassumeva questo sentire con la celeberrima
frase: “L’homme est né libre, et partout il est dans les fers, L’uomo è nato libero
e dappertutto è in catene”. Oltre due secoli dopo, non si riesce ancora neppure
ad uscire dal dilemma secondo cui l’attività di governo significa ancora complicità
con lo status quo. I fascisti,
secondini sociali in camicia nera, urlavano con le loro vocine stridule:
“credere, obbedire, combattere”, mentre oggi abbiamo lasciato cadere il
“combattere” (non sempre), ma bisogna continuare a “credere” e, soprattutto,
“obbedire” e la camicia è appena passata dal nero ad un bianco pallido e
costoso. È significativo che, nel motto fascista, il credere preceda già l’obbedire
perché, per andar dietro ai dettami di una società
del contrario, bisogna proprio smettere di guardare o di provare a capire e, dunque, abbandonarsi all’indifeso
“credere”. Provare a capire è difendersi, ma di fronte alla muraglia del non-pensiero
si dissipa anche il pensiero e tutto diventa materia di sola opinione, la sola
cosa di cui si possa ancora chiocciare. È per questo che il “credere ciecamente”
diventa proprio una funzione dell’accecamento di chi vuol imporre a se stesso o
agli altri il non vedere come fiore
all’occhiello per partecipare alla grand
danse di cecità e stultitia del
mondo contemporaneo. In tal
modo l’uomo d’oggi viene scientemente paralizzato nel suo sentire, reso monco
nei suoi pensieri e colpito nel profondo da dardi invisibili che lasciano
ferite oscure. Le conseguenze e le implicazioni ideologiche ulteriori di tale
impostazione sono vaste e molteplici: la vita interpretata come violenza, il
mondo visto come un luogo ostile in cui difendersi legittimando un’aggressività
conseguente verso altri uomini e verso la natura stessa e una visione dell’uomo
come di un essere che ha bisogno di giustificarsi economicamente (o che trova
la sua giustificazione in ragioni di ordine economico) dimenticando che l’uomo,
in quanto uomo, ha già naturalmente in sé la propria giustificazione. Quel che
fa davvero crescere una società non è l’economia quanto la giustizia autentica
che non è la sola amministrazione della forza. È evidente come tale manipolazione
sociale generi anche un concetto predatorio dell’intelligenza ed un clima d’immenso
vuoto culturale e intellettuale. Non è un caso che, a partire dall’Ottocento, avvengano
anche fatti culturali mai avvenuti prima e pare che nessuno se ne accorga o ne
valuti la grave portata. Un esempio lampante è il caso Pessoa: com’è potuto accadere
che uno tra i poeti più importanti del XX secolo, indubbiamente il più grande
poeta portoghese del Novecento, sia passato completamente inosservato al suo
tempo? Oppure pensiamo a Kafka che, quand’era in vita, era noto ad appena un
gruppetto di intellettuali e costretto tra le scrivanie di una compagnia di
assicurazioni (per limitarsi a due esempi tra i più sconcertanti e avvilenti
nell’epoca dei telefoni, delle ferrovie, del “veemente dio d’una razza d’acciaio”
(Marinetti) e della magnifica comunicazione)! Nel mondo precedente
all’Ottocento intellettuali di tale magnitudine avrebbero potuto sì finir male,
in esilio, al rogo e molto altro, ma non sarebbero mai stati ignorati, anzi il
poeta interloquiva in ogni tempo dalla stessa altezza del sovrano. Antoine de
Saint-Exupéry scriveva: “Poco importa che il cero sia grosso. Solo la fiamma mi
dà la misura della sua qualità”. Dall’Ottocento, invece, Kierkegaard,
Schopenhauer o Nietzsche divengono esempi lampanti di solitudine culturale! Prima
di questa svolta Epitteto era stato uno schiavo e Spinoza faceva il pulitore di
lenti, ma le menti illuminate della loro epoca ne intuivano bene la portata
intellettuale! Una società che rigetta i maestri di conoscenza è una società
che scende, come avrebbe detto Vico, nell’epoca della “barbarie seconda”, ossia
quel regresso che caratterizza le fasi di ricorso storico. Una società di questo tipo non può andare da nessun’altra
parte che non sia la direzione del tracollo. Basta, del resto, guardare quelli
che controllano questo mondo per capire quanto siano corrotti sotto ogni
aspetto, anche quelli inimmaginabili. Gente minuscola, sempre pronta ad
eseguire dettami e mansionari, individui piccoli e storti che sanno soltanto
come fare per raccogliere prebende e sedersi a capo di qualunque sedia, grandi
ciambellani che sono a malapena funzionari del vuoto e dell’oscurità. E questo
anche in virtù di quella nullificazione dell’individualità alla quale sono
stati esposti già con il latte materno. Quando a Theodor Adorno venne chiesto
se fosse possibile riassumere in una breve dichiarazione l’essenza del regime
nazionalsocialista egli rispose con una frase che, genericamente tradotta,
significa: “inchinarsi verso l’alto e dare calci verso il basso” ossia
arroganza e servilismo, spirito gregario e sadismo che, anche in questo caso,
sono aspetti diversi di uno stesso fenomeno o disturbo dello sviluppo
psicologico. L’uomo contemporaneo ha poi lasciato che proprio questi
caudatari in pannicelli caldi lo trasformassero in una statistica nelle mani di
quelli che detengono il saldo controllo delle leve di comando.
Ibsen nella commedia Peer Gynt, descrive un uomo che non
aveva mai saputo esser nulla e persino il diavolo (l’uomo magro), non sa che
farsene di costui che non ha mai avuto abbastanza personalità neppure per
finire all’inferno! Ma Peer Gynt l’inferno lo aveva già vissuto dentro la vita e
se ne era reso conto solo dopo, quando aveva perso le sue illusorie certezze e si
era accorto dell’annientamento della vita dentro la vita. Anni dopo capitò a
Sigmund Freud di dover rifiutare l’analisi ad una paziente perché non dotata di
sufficiente intelletto e capacità introspettiva per essere analizzata: il mondo
aveva tolto a quella sventurata lo specchio di sè. Chissà che direbbe il
maestro viennese davanti al magro spettacolo della società odierna che confeziona
oggi esseri umani come se fossero caramelle...
Erich
Fromm vedeva nella rinuncia alla libertà una paura inconscia dell’uomo verso la
responsabilità implicita nella libertà stessa e fece di quest’argomento il tema
di un libro centrale nel suo pensiero: Escape
from Freedom, pubblicato negli Stati Uniti nella significativa data del
1941. In tutta la sua opera Fromm ha continuato a denunciare la contemporanea
trasformazione dell’essere umano in automaton,
ossia in colui che ha interamente abdicato non solo alla libertà, ma anche alla
propria individualità, sostituendola con un’umiliante parvenza fatta di
convenzioni e giochi sociali. L’abilità dei sistemi dello Spätkapitalismus sta anche nel proporre un modello di vita
preconfezionato che abbia però sgargiante parvenza d’individualità. Sempre
Fromm osservava che il diritto alla libertà d’opinione non serve a nulla quando
non si hanno più idee da esprimere! La legge potrà anche mantenere il diritto
alla libertà d’espressione, ma se l’ambiente sociale non la incoraggia e la
preclude attraverso raffinati costrutti socio-economici, la legge non serve né
significa alcunché: “Nelle mani di un ingiusto anche la giustizia serve gli
scopi dell’ingiustizia” (L’Algebra degli
Scacchi, Zambon 2008, [5]). Non è che l’automa non senta un bisogno minimo
di libertà, è che la interpreta solo come un mettersi ogni tanto un po’ d’olio sulle
giunture!
Mentre
l’uomo di latta ne Il mago di Oz aveva
per unico desiderio quello di ottenere un cuore, tanto quanto Pinocchio voleva diventare
un bambino vero, l’automaton del
mondo nuovo vuole appena una grossa macchina o un paio di scarpe lucide e
nuove. Si torna qui alla differenza tra le due facce di uno stesso sistema:
quella dura che impedisce con la forza di dire qualcosa oppure quella sottile e
persuasiva che ti toglie le cose da dire anche dalla testa riempiendola, al
contempo, di affaccendamenti vacui ed inutili. Per questo i pensatori della
Scuola di Francoforte ritenevano le dittature “dure” spiritualmente meno
pericolose di quelle soft perché le
prime lasciano ancora spazi di libertà entro cui è ancora possibile resistere,
mentre le dittature del secondo tipo eliminano ogni resistenza ed ogni
pensiero, creando un uomo nuovo che
non si rende neppure più conto del suo asservimento. Quello che un tempo si
sarebbe definito come lo schiavo perfetto: colui che ama la propria catena e la
sente come sola misura di libertà. Fromm lo chiamava homo consumens, altri lo definiranno l’uomo della reificazione o
l’uomo che trasforma se stesso in un meccanismo, con tutte le implicazioni
derivanti, non ultima la visione contemporanea che spadroneggia in medicina o
in biologia che, coerentemente con l’ideologia dominante, interpreta l’uomo
appena come una sorta di meccanismo biologico che è, poi, l‘homme-machine di Descartes. Ben altra
domanda è poi chiedersi se l’uomo alienato sia davvero funzionale o non sia,
invece, l’architetto e artefice di immani distruzioni future.
Emile Cioran, nel Sommario di decomposizione, scoprendosi improvvisamente più
platonico di quanto abbia mai voluto ammettere nei suoi scritti, situerà
l’origine del “credere” indubitabile nell’annus
infaustus della chiusura del più grande tempio della conoscenza, ossia la
data nella quale Giustiniano chiude l’Accademia Platonica o quel che ne era
rimasto: “Et si je cherche la date la plus mortifiante pour l’orgueil de l’esprit,
si je parcours l'inventaire des intolérances, je ne trouve rien de comparable à
cette année 529, où, à la suite de l’ordonnance de Justinien, l’école d’Athènes
fut fermée. Le droit à la décadence officiellement supprimé, croire devint une
obligation, Se cerco la data più mortificante per l’orgoglio dello spirito, se
scorro l’inventario delle intolleranze, non trovo niente di paragonabile a
quell’anno 529 in cui, per ordine di Giustiniano, fu chiusa la Scuola di Atene.
Soppresso ufficialmente il diritto alla decadenza, credere diventa un obbligo”
(Cioran, Précis de décomposition, p.
165). L’editto terribilis
di Giustiniano ha comunque radici ben più antiche ed un corrispettivo
nell’ordine d’esilio dei filosofi ordinato da Vespasiano nel 71 o il bando dei
filosofi dell’85-90 d.C., ad opera di Domiziano, anche se a questi due
Imperatori succedettero Adriano e Marco Aurelio che in un certo modo ovviarono,
anche se non per molto, alla barbarie dei loro predecessori. Vespasiano,
l’Imperatore che ebbe anche a pronunciare il celebre: pecunia non olet è sotto molti aspetti, non ultimo la sua
indifferenza o avversione verso la cultura, una figura politica assolutamente
contemporanea.
La
guerra contro il sapere ha del resto conosciuto non pochi alti e bassi nella
storia, ma non aveva mai raggiunto il livello di sfacciataggine e
mistificazione contemporanei in cui i nemici della conoscenza si piccano di
esserne i rappresentanti ufficiali (cfr. La
Società del Contrario, Zambon, 2005). Da questa pericolosissima svolta proviene
non solo la contemporanea indifferenza verso la cultura autentica e la
sostituzione di questa con banalità, superficialità e chiacchericci alla moda,
ma anche con l’incapacità per la cultura di fornire soluzioni ai molteplici
problemi che affliggono la società contemporanea.
***
Quelli
che si credono astuti nel ridurre la vita ai soli bisogni pare non intendano
che si tratta, invece, di una misera ritirata dalla vita ridotta al suo minimo
comun denominatore di sopravvivenza e paura e in un individualismo che non ha
proprio nulla d’individuale. L’uomo contemporaneo si trascina ormai in una
situazione tanto disastrosa quanto spaventevole perché, come già in altre
epoche, ha abdicato la libertà al bisogno. Si rinuncia al buono, al vero ed al
bello chiamando tutto questo con il magniloquente termine di “realtà”, come se questa
famigerata realtà dovesse necessariamente coincidere con la deprivazione di sé
e non con il compimento umano. È proprio attraverso l’imposizione
dell’esistente che è stata sottratta realtà all’esistere, trasformando il mondo
intero in un luogo di terribile desolazione: Terribilis
est locus iste.
Se
nel Ventennio bisognava credere nella patria, nel manganello e nel moschetto,
oggi bisogna magari “credere” nell’economia del capitale e nel diritto dei
pochi di dominare i molti. Le parole di adesso sono sicuramente più suadenti,
ma la loro volgarità resta invariata: “seguite i dettami di chi comanda e state
zitti”, anche se il mondo della vita vera grida altrimenti. Tapparsi occhi e
orecchie diventa allora il primo dovere di chi vuol continuare a “credere e
obbedire”. Il risultato che quest’apparato produce sugli esseri umani è di trasformarli
nell’ombra di ciò che potrebbero davvero essere finendo così, come avevano già
ammonito pensatori di un tempo ormai andato, nel perdere, per il vivere,
proprio le ragioni del vivere. E, come notava Leopardi, tolto l’umano dal
mondo, non resta che la barbarie.
(Sergio Caldarella, I nuovi fascismi
dal faccino sorridente, in «Littera morta», nr. 12, 2013, pp. 45-53).