Monday, March 12, 2012

Recensione a L’occhio e l’ago di Abdelfattah Kilito

Abdelfattah Kilito, parco intellettuale marocchino, pubblica L’oeil et l’aiguille nel 1992, tradotto due anni dopo in italiano con il titolo di L’occhio e l’ago. Saggio sulle “Mille e una notte”, dalle meritorie edizioni Il Melangolo. Già scorrere l’indice di questo libriccino è una gioia superba per via degli affascinanti titoli dei capitoli: La Biblioteca di Shahrazàd; Il libro che uccide; Il libro affondato. E non si tratta di titoli ad effetto perché ogni capitoletto mantiene le sue promesse ermeneutiche. Con una scrittura leggera ma intensa, Abdelfattah Kilito mostra come le Mille e una notte siano uno di quei capolavori di fondazione in cui l’esperienza diviene un racconto e, attraverso la narrazione, svela i mille sentieri celati nelle parole.
Tra le sue tante virtù, la letteratura risponde al bisogno specificamente umano di leggere un significato tra le ordalie e gli eventi del mondo e, prima delle scomposizioni alle quali ci ha edotti il pensiero contemporaneo, capace di vedere solo frammenti, avevamo la poiesis che leggeva il cosmo, dagli animali alle piante e le stelle come il disegno di una sconfinata narrazione di senso in cui tutto aveva un ruolo e un posto incastonato nel divenire del mondo e della vita. La Bibbia, l’Iliade, la Bhagavad Gītā, Le mille e una notte e tutti i grandi racconti di fondazione associavano significati al mondo e alle cose ammiccando alle vie di finito e infinito. Interi universi di significati oggi in larga parte perduti. Per questo, ma non solo, nella lettura di certi grandi testi servono ciceroni come Kilito il quale, abbeverandosi alle fonti della sapienza araba, ne trae un tocco magico proprio in virtù del riverbero del soggetto che tratta. Abdelfattah Kilito è un raffinato erudito che ben conosce anche i più remoti angoli delle letterature arabe e, in questo libro, coglie anche la filosofia sottile che Le Mille e una notte celano e svelano attraverso il manto della poesia. Le Mille e una notte sono un racconto che vuol narrare la vita a rischio della vita stessa e Kilitto lo spiega già dall’introduzione: «Non si possono leggere Le Mille e una notte dall’inizio alla fine senza morire, è stato detto» anche se poche righe dopo si premura a rassicurare il lettore spiegandogli che «non morirà a causa delle Notti, perché, anche se lo desiderasse, non potrebbe mai venire a capo di questo libro traboccante». Anche qui, allora, sembra valida l’associazione tra le Notti e la vita: l’intraboccabilità dell’esistenza che non si lascia mai raggiungere da nessuna parola, la vita che sta sempre un passo in avanti rispetto a qualunque parola. Un racconto tanto complesso come l'esistenza ha bisogno di una voce leggera che ponga gli eventi in un ordine narrativo, ma la voce non è la vita: Shahrazàd, colei che racconta, incarna le Notti, ma non è essa stessa il racconto. Le Notti sono una sintesi di voce e di ascolto, ma solo ascoltare non basta, perché anche il racconto ha i suoi labirinti. Kilitto lo spiega: «Nella cultura greca si distingue tra aedi e rapsodi: i primi compongono delle storie mentre i secondi si incaricano di recitarle. Nelle Mille e una notte non ci sono che rapsodi». Dunque nelle Mille e una notte c’è una continua sovrabbondanza di vita e di sapienza da cui intrecciare e tessere la miriade di storie tra l’occhio e l’ago.

(Sergio Caldarella)