La sera del 19 novembre 1942 lo
scrittore Bruno Schulz tornava a casa stringendo a sé un tozzo di pane di
segale che avrebbe consumato come misera cena quando l’ufficiale della Gestapo
Karl Günther, il quale lo aspettava nell’ombra, lo fermò e, per vile ritorsione
verso il suo collega nazista Felix Landau, lo uccise con un colpo di pistola alla
nuca, motivando così il suo gesto: «Du tötetest meinen Juden – ich tötete
deinen, Tu hai ucciso il mio giudeo ed io ho ucciso il tuo»! Con queste parole,
crudeli e odiose, si è brutalmente conclusa, tra le strade del quartiere
ebraico di Drohobycz, nella Galizia orientale, l’avventura umana di questo magnifico
artista e scrittore sovente accostato a Franz Kafka e descritto dal suo amico Witold
Gombrowicz, l’autore di Ferdydurke (1938),
come «un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine».[1] In un mondo ingiusto i giusti vengono esiliati
e uccisi, per questo la morte di Bruno Schulz è un simbolo, una tra le
innumerevoli prove dell’ingiustizia delle ramificazioni di una realtà
ingiustificabile e del conseguente svuotamento di senso del mondo causato
dall’arbitrarietà del male e della complicità degli uomini con esso.
Il
nazista Karl Günther, uno tra gl’innumerevoli mediocri esecutori di uno
smisurato piano criminale, uccide Bruno Schulz per capriccio, tanto per fare un
dispetto al suo collega anch’egli omicida, anch’egli facente parte delle orde
che da sempre aborriscono la luce. Il nazista Günther, coerentemente al perverso
sistema ideologico cui aderisce, non crede di spegnere la vita di un uomo, ma di
rompere un giocattolo e colui che si inginocchia, stremato, dinanzi alla canna
della pistola è, ai suoi occhi, a malapena un fantoccio di paglia, una sorta di
automa senz’anima – poco più o poco meno di un oggetto da distruggere per far
dispetto al “compagnetto cattivo” che ha, a sua volta, rotto il suo giocattolo.
Quest’inaridimento dell’umano che trova casa nel potere totalitario è capace di
invertire il mondo trasformando i mostri in individui saldamente al comando e
gli uomini in risibili balocchi che è possibile schiacciare secondo volontà e
arbitrio del carnefice con la legittimazione intera del sistema. A Karl Günther
non importa nulla della grandezza spirituale di Bruno Schulz, egli vive in un
micromondo in cui nulla conta se non la bieca sopravvivenza trovandosi, così,
in un’assoluta distanza dall’universo di senso di cui Bruno Schulz è araldo. A
cosa potrebbero del resto servire la ragione o il bello contro la violenza dei
bruti? Questo mondo – o “micromondo”, perché la malvagità è sempre micragnosa,
piccola e mediocre, incapace di alcun orizzonte che non sia limitato ai confini
di un io microbico e schiacciato dalla temporalità – soggiogato dal potere dei
malvagi sembra allora insegnare la lectio
terribilis secondo cui, a parità di condizioni, è sempre quello con la rivoltella
ad avere la meglio e, in ultima analisi, che le sole verità del mondo siano
quelle dell’indifferenza e della clava, marginali semplificazioni verso il
minimo comun denominatore della barbarie. Il nazismo sancisce, definitivamente
ed a dispetto di qualunque altro ideale presentato dalla storia, la tesi da non
prendere alla leggera secondo cui la differenza tra uomo e uomo non consiste
nelle differenze tra sensibilità, umanità e conoscenza, ma è data dal lato
della pistola, del gruppo o del clan in cui ci si viene a trovare per una serie
di accidenti storico-sociali. Il mondo emerge, allora, appiattito e abbrutito
da questi nuovi empi paradigmi della modernità.
Ne Le botteghe color cannella (Sklepy cynamonowe, 1934), Bruno Schulz scriveva
di una realtà la quale possiede lo spessore della carta: «Quella realtà è
sottile come carta e da tutti i pori tradisce il suo carattere imitativo» (La via dei coccodrilli), ma questo
spessore diafano del cosiddetto “reale”, sottile al limite della trasparenza
assoluta, quest’instabilità così sfuggente e difficile da descrivere per colui
che pensa, spesso, troppo spesso, distrugge e uccide proprio colui che su
quest’enigma s’interroga rispetto a coloro i quali si limitano, con diabolica
naturalezza, a stare sempre dal lato di colui che impugna la clava.
La storia pare
insegni che il mestiere intellettuale autentico, arte sorretta a malapena da
penna e inchiostro che avviene, sovente, nel silenzio di oscuri scantinati, è
uno tra i più pericolosi possibili. Le vicende delle società umane organizzate
sembrano drammaticamente costellate da racconti di esilio, incriminazione,
imprigionamento, discriminazione ed eliminazione fisica dei grandi
rappresentanti della tradizione culturale e nell’ecatombe di morti causate dal
delirio nazifascista, la fine di Bruno Schulz è, insieme a quelle di Erich
Mühsam, Walter Benjamin, Edith Stein, Kurt Grelling o Dietrich Bonhoeffer, tra
le più eclatanti e gravide di conseguenze per le incompiute intellettuali che tali
scomparse hanno lasciato. La distruzione che il nazifascismo ha portato
sull’Europa dello scorso secolo rende impossibile valutare la gravità delle
perdite culturali imposte all’umanità sotto il tallone di quella barbarie il
cui strascico si protrae ancora avendo prodotto, tra le tante conseguenze, una
frattura culturale nell’epoca contemporanea della cui portata è arduo render
conto appieno. Si può vagamente provare ad immaginare quali privazioni avrebbe
subito la cultura del Novecento se, nell’Ottocento, le vite di Kierkegaard,
Karl Marx, Schopenhauer o Nietzsche fossero state annientate agli inizi del
loro lavoro intellettuale. Il delirio totalitario che, nel Novecento, ha sconvolto
l’Occidente e l’Oriente ha causato una tale distruzione in quasi ogni area
della cultura che produce, ancora oggi, quel clima d’inconsistenza e
manipolazione utilitaria della conoscenza di cui il mondo globalizzato è preda.
Non soltanto paghiamo ancora le conseguenze dell’operato di tiranni quali
Hitler, Stalin e dei loro seguaci e sostenitori, ma quell’annientamento
culturale da loro avviato sta sempre più inaridendo il preziosissimo albero della
cultura e della conoscenza a favore di una gramigna pseudoculturale,
profondamente e pervicacemente avversa alla cultura e all’intelletto autentici.
Noi non sapremo mai come si sarebbe potuta evolvere la società contemporanea
senza la distruzione culturale avvenuta partendo dall’ecatombe di vite umane
della Prima Guerra Mondiale e seguita dall’attacco agli intellettuali
scientemente perpetrato dai nazifascisti e dai Soviet. La contemporanea
banalizzazione della cultura ed il suo svilimento accademico – ossia la
marginalizzazione della cultura rispetto alle attività della vita activa – sono oggi possibili anche
a causa della perdita della tradizione culturale e delle visioni del mondo che
questi intellettuali incarnavano ed avrebbero potuto trasmettere se non fossero
stati brutalmente eliminati ed il loro posto usurpato da individui variamente
asserviti al meccanismo di dominio contemporaneo. Anche in questo consiste la
vittoria postuma del nazifascismo cui accennava Jean Améry.
Senso e consenso
Nei sistemi
totalitari, il senso del mondo non è
che consenso, per questo è sempre
pericoloso invocare una presunta relatività o soggettività del significato
contro la sua oggettività, poiché l’accordo che gli uomini possono stabilire
contro la verità, e il conseguente rivolgimento del mondo che essi impongono
sulla base di un delirio collettivo, ha sempre conseguenze fatali. Etichettare
secondo necessità politica “democratici” alcuni e rigettare altri come
“anti-democratici”, poiché non rispondono o non sono confacenti a quella stessa
esigenza politica, è non soltanto un’attività demagogica ma, ancor prima, un
attacco grave e diretto all’oggettività del significato. Chi difende
l’oggettività del significato difende anche la giustizia tra gli uomini.
In un contesto
variamente determinato dal potere, l’umanità dell’uomo non ha più alcun peso oltre
i canoni e gli artifizi stabiliti da un determinato sistema di controllo: se si
è fuori da quei criteri, di qualunque tipo, allora si è già morti ancor prima
di esserlo; l’esistenza sfuma, svanisce lentamente e, alla fine, colui che
uccide – il nazista Günther nel caso di Bruno Schulz, ma è un carnefice che
bisogna moltiplicare per milioni di esseri umani trucidati – può farlo con la
stessa indifferenza con cui si può rompere un oggetto o gettare una cartaccia
nel cestino dei rifiuti. Questo è il cuore più tetro e assoluto della barbarie.
Il potere possiede
molteplici mezzi per far credere che ogni suo capriccio sia sempre legittimo[3] e così il vicino, o il commerciante che il
giorno prima sorrideva gentile, diventa, d’un tratto, il primo delatore,
associandosi lieto alla congiura che per lui è appena un grande gioco in cui,
questa volta, detiene i bussolotti per decidere della vita o della morte di
qualcuno, un piccolo potere per piccoli uomini. È avvenuto nella Germania
nazista, nella Russia dei Soviet o nell’America di Edward J. Hart e Joseph
McCarthy, ma è anche avvenuto nell’antica Grecia ed a Roma o in imperi ancora
più remoti ed avviene ancora oggi sotto le forme che il potere consente, poiché
se gli uomini non fossero posti nella condizione di nemici tra loro,
comincerebbero magari ad intendere chi è, da millenni, il loro autentico
nemico.
Il poeta e
scrittore Varlam Šalamov, uno zek, un sopravvissuto ai Gulag che, anche dopo esserne
stato liberato, distrussero ogni sua speranza e possibilità ad una vita
normale, un uomo che amava profondamente i libri ma non potè mai possedere una
propria biblioteca, scriveva: «l’essenziale non è qui, ma nella
corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza
delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere
senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore,
senza coscienza, senza amore né senso del dovere». Vittima di questo
slittamento della realtà nella corruzione che solo l’assurdo sa imporle, gli
uomini iniziano a provare quest’annullamento sulle proprie carni, a sentirsi
davvero come delle cose, corpus sine anima, esseri umani non più
ammessi alla comunità degli “uomini”, iniziando seriamente a dubitare di se
stessi e arrivando, a volte, anche a convincersi che siano i carnefici i veri
dominatori del mondo. Questa è l’ultima sopraffazione che il carnefice sa imporre
alle proprie vittime e chi ha sperimentato sulla propria pelle l’ingiustizia e
la crudeltà sa quanto sia facile arrivare persino a credere nelle brutali illusioni
del carnefice.
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Blaise Pascal,
in una tra le più note espressioni dei Pensées,
affermava che l’uomo è sì simile ad una canna sbattuta dal vento, ma è una
canna pensante: L’homme n’est qu’un
roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant (347). Il
matematico e filosofo francese ben capiva che l’essere umano è una creatura sbattuta
delle intemperie, ma immaginava tale creatura come capace di opporre questo
qualcosa chiamato “pensiero” al rigido trascorrere delle forze cieche del
mondo. È legittimamente possibile dubitare della suggestiva metafora della
canna pensante, poiché nessuno può dirsi certo che la vita non si possa,
invece, associare a ben altre metafore come, per fare un solo esempio, quella di
una zattera senza timone né vele. La vita potrebbe anche non essere quel luogo luminoso
in cui il pensiero, come sperato da Pascal, sia davvero capace di offrire una
qualche resistenza al mondo; potrebbe anche essere la conseguenza di un
naufragio, il lento scivolare, lo sprofondare dell’anima dentro una realtà
fatta di oggetti e desideri materiali come sembra insegni gravemente proprio la
modernità. La zattera non è un’imbarcazione completamente alla deriva, poiché
all’uomo è dato di gettarsi in acqua e impegnare le sue forze nel provare a
spingere e dirigere l’insieme di assi e cordami cui è aggrappato, oppure
applicare il proprio ingegno nel costruire una vela o quant’altro, ma la
zattera resta sempre prigioniera del mare, subendone moti e capricci e, di
fronte ad una tempesta, diversamente da quanto propone Pascal, qualunque forza
umana è una trascurabile resistenza che gli eventi possono annichilire in
qualunque momento, così com’è avvenuto per le tante ingiuste morti di
grandissimi pensatori annientati dal volgare capriccio del primo violento di
turno: tutto il loro pensiero non è stato in grado di salvarli poiché, quando
la storia decide di assumere le nere vesti del delirio, nessuna ragione si può
opporre a quella marea. In questo la Shoah rappresenta anche la conseguenza più
spaventosa della frattura tra uomo ed uomo ed è una frattura che non si
riconcilia nel presente, ma segna il tempo come una ferita che si estende dalla
storia passata a quella presente e futura. Auschwitz e la Shoah – un asse
sanguinolento conficcato nel tempo – non possono essere interamente “pensati”
perché il pensiero è, nella sua essenza, qualcosa di profondamente umano,
mentre Auschwitz è l’esatto contrario. È proprio la radicale assenza di umanità
di Auschwitz a renderlo un luogo (o un non-luogo) inarrivabile al pensiero.
Ritornando
alla frase sprezzante del nazista Günther, l’immaginazione porta quasi a
“vedere” l’inerme Bruno Schulz, quest’ometto “dalla testa enorme” che si
inginocchia, ormai stanco, ai piedi di quel mostro criminale e aspetta, in
silenzio, che pochi grammi di piombo ne violino il cranio. Nel gesto di Schulz,
nell’infinita rassegnazione di fronte al carnefice, sentimento che lo accomuna
a milioni di altre vittime in ogni epoca storica, c’è qualcosa che va ben oltre
i fatti narrati. Se Bruno Schulz tace e si inginocchia senza resistenza davanti
al suo aguzzino, è perché davvero non ha più nulla da dire a questo mondo;
nella realtà in cui vive le parole non servono più, almeno non quelle di un
uomo di arti e lettere per il quale la parola è un mezzo che l’anima impiega
per provare a comprendere il mondo e se stessa e non l’ancella del delirio o
dell’interesse com’è, invece, per i nazisti e per gli innumerevoli altri. Nella
sua remissività, così come nel silenzio di ogni altra vittima, c’è tutta la
risposta possibile ad un mondo bieco, cieco e incapace di trovare modi di
essere che vadano oltre la brutalità della forza e dello sfruttamento. Un mondo
che, scacciando il pensiero, spalanca inevitabilmente la porta alla brutalità
ed all’orrore.
Quattro grandi
tradizioni sulla teodicea si affiancano nell’ebraismo: una cerca di spiegarsi
le complesse ragioni del male e della sofferenza (il Libro di Giobbe ne è il capostipite), l’altra le attribuisce
all’uomo («i disegni del cuore dell’uomo, fin dalla sua infanzia, hanno per
scopo il male [rà]» Gen. 8:21), mentre la sua consorella,
cui il cristianesimo cattolico è profondamente debitore, situa le ragioni del
bene e del male al di là delle nubi terrene («Nella stessa maniera in cui i
giusti sono premiati nell’aldilà anche per i loro minimi meriti, così lo sono i
malvagi in questo mondo» Talmud Babli,
Taanit, 14a) e l’ultima, la più
filosofica tra queste correnti, ritiene che non vi sia spiegazione alcuna al
male: il male accade, è un figlio dei
fatti e questi possono essere forse ricostruiti, intesi, analizzati, ma la
spiegazione, l’analisi esaustiva capace di render giustizia, è qualcosa che
oltrepassa le nostre capacità umane, ed il male, così come l’Onnipotente, non può
essere soggetto ad interpretazione/spiegazione alcuna. Coloro che appartengono
a quest’ultima linea di pensiero ritengono che non sia possibile alcuna
spiegazione teologicamente o filosoficamente accettabile sulla Shoah, perché ogni tentativo di
interpretazione taglia, riduce, seziona e, alla fine, frammenta l’insieme per
riunirlo in un tessuto “comprensibile” e, così facendo, ne sminuzza persino la
(o le) verità – un evento è unico mentre le spiegazioni di questo sono e
possono essere sempre molteplici. Ogni spiegazione seziona le parti per
renderle pertinenti, confacenti all’insieme concettuale che ha organizzato, e,
in sostanza, annienta quell’unità di senso che era propria dell’evento nella sua interezza. Non abbiamo
bisogno di alcuna spiegazione di fronte a Bruno Schulz – ed agli altri milioni
spesso senza nome – inginocchiato davanti alla canna di una luger. L’uomo
sensibile e attento alla sofferenza degli altri e del mondo già sente, nella descrizione di questo
terribile attimo, tutto il dolore e l’abbandono di queste morti e intende senza
bisogno di alcuna spiegazione: ecco perché la Shoah pesa sulle coscienze degli uomini buoni, ossia coloro che non
hanno ancora interamente abdicato ai ciechi dettami del mondo.
Negli umani eventi non tutto può essere posto
nei termini della spiegazione, altrimenti non sapremmo perché, a volte, i
carnefici accompagnano le vittime fino al loro ultimo giorno e perché non tutte
le vittime del nazismo siano morte nei campi di concentramento o ai tempi del
terrore bruno; molti di loro sono sopravvissuti ad Hitler per morire di quello
strascico di pena che la barbarie aveva tatuato nei loro cuori. Tra i più noti
il filosofo Jean Améry, lo psicologo Bruno Bettelheim, il poeta Paul Celan e
gli scrittori Tadeusz Borowski o Primo Levi; tutti sopravvissuti ai campi di
sterminio, si sono tolti la vita molto dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale: la spaventosa realtà dei carnefici era entrata con talmente tanta forza
nelle loro vite, nei loro sogni e nelle loro anime, conducendoli verso il
rifiuto supremo di quella vita che i boia non erano riusciti a sottrargli nei
campi.[6] È pesante notare che due autori come Jean
Améry e Primo Levi, che erano anche stati compagni di baracca ad Auschwitz ma
il cui approccio all’analisi ed al ricordo dei campi differisce profondamente,
abbiano invece trovato, nel suicidio, una “soluzione” univoca.
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Qualunque
spiegazione è una sorta di traslazione dell’esperienza, per questo, forse,
Primo Levi si limitava a descrivere i campi di sterminio con la loro fauna
umana aggiungendo ben poco (un atteggiamento affine avranno, poi, anche
Aleksandr Solženitsyn o Varlam Šalamov rispetto ai Gulag sovietici) e in queste
descrizioni ridotte all’essenziale c’è tutto il senso e il dolore della ferita
offerta ancora dolente: «Chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per
non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per
liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa».[7] L’esperienza dell’ingiustizia e delle atrocità
naziste è un annientamento in sé e per sé e sarebbe ingenuo ritenere che tale
annichilimento sia esclusiva prerogativa delle vittime. Socrate affermava: «è
meglio subire un danno che infliggerlo» (Crit.
49a), massima che riecheggia nel detto rabbinico secondo cui «Soffrire
ingiustamente è meglio che agire ingiustamente». Anche se in modi ardui da
comprendere per chi non abbia familiarità con la filosofia socratica, il
carnefice stesso distrugge qualcosa di sé commettendo le atrocità di cui si
macchia: si può del resto immaginare un uomo meno umano di Hitler? Un individuo
che non sembrava altro se non il fantoccio di un fantoccio. Un fanatico guidato
da una luce maligna, un corpo dove non sembrava abitare nulla al di là di un
gesticolante delirio abbracciato ad un’inestinguibile fucina d’odio e di rabbia
calcolante. Hitler non fu un pazzo «fu un uomo lucidissimo (…) che uccise
consapevolmente la legge, la morale, la pietà, la Germania e alla fine anche se
stesso. (…) La violenza dominava pienamente il suo animo. Dal punto di vista
spirituale era vuoto, morto, un cuore di tenebra. Per questo nessuno riuscì mai
a penetrare veramente nel suo animo» (M. Innocenti). Sostanzialmente egli era
uno sconfitto, un fallito, un necrofilo capace di rispondere alla vita soltanto
attraverso l’odio e la morte. Eppure, questa sua infinita distanza da quanto vi
è di più profondamente umano non gli impedì di ottenere il consenso entusiasta
degli uomini e anche questa è una dura lezione. È in molti modi indicativo il
fatto che il male abbia una tale potenza nei confini del mondo.
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La vittima
testimonia sì della debolezza del bene nel mondo, mentre il carnefice, un
debole nello spirito, è forte dell’indubitabile forza del male e della sua
continua aspirazione alla potenza della materia: «non sono mai i forti, sono i
deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato
dell’astuzia e del delirio».[8] Gesù e Socrate, figure emblematiche del
rigetto della potenza materiale, si abbandonano all’abbraccio di una morte
crudele e ingiusta, impartendo una lezione che ancora oggi illumina le vie
degli uomini buoni.
Come già
spiegava e insegnava Platone, tutti i tiranni ed i carnefici sono
necessariamente uomini vuoti e per questo bisogna massimamente temere una
società che svuota gli uomini dei significati propri della vita umana (fatti non foste a viver come bruti...)
per sostituirli con balocchi e con i dettami dei forti: «La dottrina socratica
secondo cui conoscere il bene è volerlo, e il peccato si identifica con
l’ignoranza, è valida se per conoscere si intende dare ascolto a ciò che si
conosce, e per ignoranza l’ignoranza voluta. Stando così le cose, allora, se
non tutti i pazzi sono dei furfanti, tutti i furfanti sono dei pazzi».[9] Per questo il compito di chi vuole il bene è,
soprattutto, quello di opporsi al vuoto culturale e spirituale. Come non
ricordare, allora, il Processo di Norimberga prima e il processo di Gerusalemme
ad Adolf Eichmann dopo ed alle assurde, inconcepibili difese alle quali si
rifacevano i vari gerarchi dichiarando di non aver fatto altro che obbedire ad
un Führerbefehl, un ordine del Führer?[10] Il male di cui i condannati di Norimberga o
Eichmann sono gli ennesimi esecutori non è per nulla il prodotto di una
“banalità” concettuale, come vorrebbero alcuni, ma una sorta di vuoto ontologico-esistenziale che il
bene lascia nel mondo. Questo “vuoto”, nel mondo, è anche l’arena della
libera scelta in cui molti proiettano hybris
e paralogismi di ogni genere. In questo vacuum
operano a loro agio il malvagio e il carnefice, proiettandovi un altro vuoto,
quello delle loro anime. Karl Kraus, genialmente, iniziava Die Dritte Walpurgisnacht
scrivendo: «Mir fällt zu Hitler nichts ein, A proposito di Hitler non mi viene
in mente nulla»; il vuoto del male a cui non può rispondere nessuna parola.
Hitler non è
però soltanto un’ignominia tedesca e ridurre la questione della Shoah ad un
fatto che interessa soltanto il popolo ebraico ed il popolo tedesco è un comodo
riduzionismo che impedisce di approfondire le radici e le conseguenze
concettuali di questa tragedia. Il vuoto del male di cui Hitler è una tra le
più tragiche manifestazioni è anche il vuoto della modernità incapace di
offrire una realtà diversa dalla sua reificazione mercantile. Andando ancora
oltre si dovrebbe tornare a quelle antiche questioni fondamentali, e ancora
irrisolte, sulla malattia della polis.
La cura alla malattia della polis può
provenire dalla cultura e dalle arti che fioriscono dal rapporto tra uomini
umani, quel dialogo che Socrate, non a caso, identificava con il “sommo bene” (τό
διαλέγησθαι εστί τό μήγιστον αγαθόν). Ma chi mai dovrebbe affrontare questi
temi? La cultura ufficiale soggiogata e storpiata dalla malattia della polis? La politica o l’economia che di
questa malattia sono figlie e prodotto? La modernità, deliberatamente ignorando
e mettendo da parte la tradizione culturale del passato, è stata capace di
creare il proprio vicolo cieco e mortale di cui, incoscientemente, non si cura:
«Nati in anni sordi / la nostra vita non ricordiamo».
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Quella di
stare dalla parte dei deboli e contro l’anima storpia degli ingiusti è, dalle
origini della storia, una prerogativa delle anime nobili, forti e profonde: «L’uomo
profondo (junzi, 君子) comprende ciò che è morale. Il piccolo uomo (xiaoren) intende solo ciò da cui può trarre profitto» (Lunyu, 4:16). In uno dei suoi racconti Isaac
B. Singer osserva: «Stando ai suoi diari, Napoleone, che aveva mandato milioni
di uomini a morire, protestava amaramente sull’isola di Sant’Elena perché non
gli davano da mangiare in maniera decente e non veniva accudito come si
conviene. L’individuo morale protesta non solo quando subisce personalmente un
torto, ma anche quando assiste alle sofferenze altrui oppure vi pensa». Il piccolo uomo protesta solo per sé perché gli
hanno astutamente insegnato che il cosmo inizia e finisce sui confini del suo
minuscolo ego e così facendo, come
insegnava anche Boezio, trascorre la sua esistenza nella mera insostanzialità e
nell’indifferenza trovandosi sempre pronto a qualunque compromesso, espediente
e bassezza per difendere gli angusti confini della propria prigione. L’ego è l’ultima ritirata possibile.
Socrate, com’è
ben noto, era un fiero avversario dei Sofisti poiché, tra le tante cose, la
loro dottrina insegnava che «il criterio di scelta delle nostre azioni è
l’utile» e, da questo presupposto, ne consegue che «è facile (perché spesso
vantaggioso) commettere ingiustizie». Il presunto utile individuale si
configura, così, come un avversario della giustizia poiché, come ben spiega
Socrate, quando gli uomini non conoscono il bene, allora non conoscono neppure
l’utile autentico confondendolo con tutta una serie di illusioni nella caverna
del mondo. Che dire, allora, di una società come quella contemporanea, dove
l’utile, la sopravvivenza e la sopraffazione, magari travestiti dalla scialba
veste della competizione tra uomo e uomo, sembrano essere le uniche ragioni del
mondo ormai ammesse?
Quando
Giordano Bruno pronunciò la nota frase: «Maiori
forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam, Forse tremate
più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla» mostrava di
trovarsi, purtuttavia, di fronte ad un tribunale il quale, nonostante la mostruosa
condanna che impartiva, aveva coscienza del senso della storia ed a questo si
appellava, implicitamente, la frase del Nolano. Una frase come questa non
avrebbe avuto alcun senso né alcun peso di fronte ad uno qualunque dei
tribunali presieduti da Roland Freisler, l’infame presidente del Volksgerichtshof nazista che, in pochi
anni di attività, condannò oltre 5000 persone a delle morti crudeli e ingiuste.
Molti degli oltre 500 membri di quel “tribunale” nazista presieduto da
Freisler, grazie ad una serie di argomentazioni legalistiche, rimasero ancora
in servizio a pieno diritto anche dopo la guerra nel sistema giuridico della
Repubblica Federale Tedesca, per questo la frase di Bruno non avrebbe alcun
senso nel contesto della modernità. Nessuno tra gli aguzzini del Novecento ha
davvero temuto la storia né ha tremato di fronte ai crimini inimmaginabili di
cui si sono resi colpevoli. Anche a questo serviva un tempo la storia, a far
tremare l’arroganza del carnefice, ma senza la cultura autentica su cui si
sorregge il senso della storia, il carnefice ha oggi le mani ancora più libere.
La storia deve necessariamente
contenere, nei suoi recessi, anche la giustizia, perché altrimenti il crimine
sarebbe mortale come lo è il criminale e l’ingiustizia mortale come lo è
l’ingiusto.
(Sergio Caldarella, La morte di Bruno Schulz. Considerazioni
sullo svuotamento del mondo, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 189,
Firenze 2014)