Sunday, June 8, 2014

Il peso politico della cultura. Ricordando l’anniversario del discorso inaugurale di Aleksandr Solzhenitsyn ad Harvard


Ricorre oggi l’anniversario del discorso inaugurale tenuto ad Harvard, nel 1978, da Aleksandr Solzhenitsyn in cui il grande intellettuale, sopravvissuto ai Gulag e ad una malattia devastante, levava un monito profondo e accorato sullo stato della società contemporanea, avvisando con grande lucidità contro gli insidiosi pericoli del mondo nuovo. Questo discorso di Solzhenitsyn si può dire rappresenti l’ultimo discorso che abbia ancora avuto un impatto pubblico da parte di un grande intellettuale che provava a difendere la cultura pungolata e attaccata dalle insidiose categorie della modernità, una puntuale difesa dei valori che la cultura autentica oppone sempre alla decadenza del tempo ed anche per questo il suo intervento, a distanza di trentasei anni, si conferma come un discorso tanto inascoltato quanto attuale. Ci sono grandi intellettuali di cui non si parla quasi più e non perché questi non siano di fondamentale importanza anche per il nostro tempo,  ma proprio perché lo sono. Rapportarsi con dei pensieri profondi e difficili che, al tempo stesso, indicano le ragioni per le quali il mondo sta andando per una via cieca è un compito che affronta solo colui che ama il pensiero e che, dunque, ama anche esser corretto. La hybris rigetta da sempre ogni correzione.

            Viviamo in uno stato di emergenza percepito da pochi e Solzhenitsyn era certamente tra questi. Una società che non si pone lo scopo di aiutare gli uomini a crescere, ma soltanto quello della loro organizzazione, controllo ed eventuale difesa, è non soltanto una società che tende alla patologia, come avevano già ammonito Rousseau (in particolare nell’Émile (1762)) e Freud (in particolare ne Il disagio della civiltà (1930)), ma anche un luogo immensamente pericoloso in cui gli esseri umani vengono condotti all’annullamento e all’allontanamento da sé, verso una bestialità secondaria dalle temibili conseguenze per l’uomo e il mondo. Questi grandi pensatori ci mettono in guardia dalla società stessa che abbiamo creato, ci stanno dicendo che il nostro più grande nemico è proprio quella stessa società di cui partecipiamo e la direzione che abbiamo consentito prendesse. Questo è un monito pesante. Agli albori della storia, gli uomini iniziarono sì ad aggregarsi con lo scopo di proteggersi e sostenersi gli uni con gli altri, ma anche con lo scopo, non secondario, di educarsi gli uni dagli altri. La società contemporanea sembra abbia invece quasi completamente abdicato quest’orizzonte della paideia, facendo così regredire la coabitazione sociale ad uno stadio primitivo dominato da leggi, regole e prescrizioni normative imposte per cooptazione o per auctoritatem. Nel suo discorso Solzhenitsyn faceva infatti notare che la sola norma giuridica non può rappresentare un autentico elemento di coesione sociale e ricordava il grande blackout di New York, avvenuto l’anno precedente, in cui bastò che mancasse la luce per poco più di un giorno per trasformare la città in un violento luogo di barbarie.  

            Una società indirizzata alla produzione materiale, alla difesa ed al controllo ha per conseguenza, com’è drammaticamente sotto gli occhi, quella di produrre un modello umano regressivo, passivo, spiritualmente povero e indifferente. L’uomo moderno è, anzi, un essere che vuol essere “intrattenuto” (cfr. Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business (1985)) ma respinge qualunque insegnamento a meno che non si tratti di quelli istituzionalizzati e finalizzati all’ottenimento di abilitazioni varie in vista di qualche specifico utilizzo professionale – per questo l’establishment accademico del diplomificio di Harvard assistette con profondissima costernazione al discorso del grande Solzhenitsyn. Tenendo un discorso serio, profondo e dalle grandi implicazioni, lo scrittore stava anche violando una tacita consuetudine che lascia prosperare quest’accademia a patto che questa non confligga o interferisca con i vari potentati, dunque a patto che questa sia succube e non disturbi i manovratori. Ma un insegnamento succube non è più cultura, al massimo può dirsi tirocinio o blanda propaganda. Nella situazione determinata da quest’impostazione sociale anticulturale e antiumanista della società globalizzata contemporanea, che si potrebbe per molti versi definire presociale, regnano culti ancestrali dalla riduzione al culto della famiglia («Un individuo la cui esperienza è determinata dalla “sua fissazione per la sua famiglia”, che è incapace di agire in maniera indipendente è infatti l’adoratore di un culto degli antenati primitivi» (E. Fromm, Man for himself (1947)), ad un pericolosissimo travisamento di ciò che si ritiene sia il proprio interesse ed alla trasformazione dei cittadini in spettatori passivi – la passività spirituale è il risultato più grave risultante dalla riduzione della cultura a banalità controllate.

            La situazione paradossale che si è venuta oggi a creare è quella di un essere umano ridotto all’osso e incapace ormai di credere nel futuro dell’uomo stesso! La società dell’opulenza insegna la lectio terribilis secondo cui il benessere materiale non coincide, necessariamente, con il miglioramento culturale e spirituale dell’uomo, anzi sembra proprio conduca, invece, verso le terre dell’abbrutimento, dell’egoismo, della vanagloria e della hybris bieca e sfrenata. Solzhenitsyn tracciava nel suo discorso anche la genesi di questa situazione: «Il cammino che abbiamo percorso a partire dal Rinascimento ha arricchito la nostra esperienza, ma ci ha fatto anche perdere quel Tutto, quel Più alto che un tempo costituiva un limite alle nostre passioni e alla nostra irresponsabilità. Abbiamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali e il risultato è che ci viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interiore».

            Detenendo il controllo dei mezzi materiali, la borghesia mercantile detiene anche il controllo della cultura ufficiale, ma la borghesia mercantile, comprendendo unicamente l’utile materiale e diretto, non può nutrire alcun vero rispetto per la cultura autentica, accettando come tale solo surrogati o simulacri, ossia quando vi percepisce un aspetto utilitaristico o meramente pratico – quest’ultimo, in particolar modo oggi, è un elemento specifico della tecnica. Il popolo, invece, non possedendo la naturale corruzione della borghesia, aveva un rapporto di profondo rispetto per la cultura e l’argomentazione riconoscendovi, intuitivamente, qualcosa che non poteva essere inquadrato nei canoni noti ma che possedeva un contenuto che si potrebbe definire “sacrale” – la dimensione originaria della cultura ha infatti carattere sacrale, infatti il sapiente era il sacerdote della conoscenza. Il popolo riconosceva alla cultura un contenuto “altro” che è, poi, il riconoscimento della natura più profonda e verace della cultura. La scomparsa del popolo coincide anche con la confusione – o mistificazione – contemporanea tra “cultura popolare” e “cultura alta”, che presenta tarantelle e tarallucci come “cultura popolare” lontana dalla “cultura alta” rappresentata, magari, da qualche bellimbusto in cattedra figlio della borghesia dispregiatrice. In realtà, quella che si manifesta in queste presunte differenze, è ancora l’opposizione tra il popolo e la borghesia, tra un elemento vitale ed un elemento mortifero. La tecnica, di cui la borghesia mercantile è così infatuata e riesce a presentare come tanto bella e neutrale, contiene un immenso potenziale mortifero di cui le armi atomiche sono solo il culmine. Senza magari dimenticare che il fascismo italiano era, con tutti i suoi gagliardetti di teschi e scheletracci vari, un fenomeno prevalentemente borghese – da questo punto di vista non si è ancora riflettuto abbastanza sul fatto che il nefasto Cancelliere Hitler fosse un miserevole borghesuccio ridicolo oltreché un necrofilo. Ma tutte queste sono cose che la nostra società, ancora dominata da una cultura mortifera, vuol artatamente ignorare. In tale contesto la borghesia ha, dunque, la necessità politica di contrastare ogni forma culturale che non sia strumentale ed asservibile ad uno scopo. La cultura autentica, come fece proprio Solzhenitsyn nel suo possente discorso, grida contro lo scandalo di questa situazione verso cui una volgare impostazione mercantile dominante ha condotto il mondo. Moltissimi sono gli strumenti ideologici e materiali che questa borghesia mercantile e bieca utilizza per depotenziare e neutralizzare la cultura, primo tra tutti la scuola e l’università utilizzate per assassinare la cultura di cui vengono dichiarate foriere.

            Che dire, allora, di una società umana che si allontana sempre più dagli orizzonti dell’umanità? I quattro furboni che controllano e manipolano questa situazione si sentono indifferenti ad un tale discorso perché, proiettando sul mondo la loro bassa visione, credono di aver fornito un’immensa semplificazione capace di servire da soluzione. Questi politici, manager e intellettuali del nostro tempo sembrano sempre più individui senza più nulla di vero: un’empia moltiplicazione di piccoli esecutori in attesa di un comando. Sembra abbiano perso tutto, anche l’ombra, come Peter Schlemihl nel racconto di Chamisso.

            Così come l’aristocrazia di fine Settecento era diventata una minaccia concreta per la sopravvivenza del popolo, la borghesia che l’ha oggi soppiantata è diventata una minaccia ben concreta alla sopravvivenza del pianeta stesso! L’ideologia del cane mangia cane, l’hobbesiano bellum omnium contra omnes, trasforma la realtà in un luogo dove contano quasi esclusivamente le sole leggi della giungla, un mondo postmachiavellico dove gli uomini, per farsi un poco di misero spazio nella miseria di una società straziata e ridotta a brandelli, abdicano ai loro interessi più autentici e veri per sposare ideologie di dominio che portano impresso il marchio della tremenda follia di una creatura piccola e misera che vuol credersi ben più che mortale.

            Le aristocrazie tra Seicento e Settecento commisero l’errore di ospitare, sostenere e proteggere molti pensatori tra cui coloro che stavano gettando le basi per un modello di società privo di una classe aristocratica. Sostenendo la cultura, l’aristocrazia del tempo stava fatalmente contribuendo alla propria dissoluzione. Le borghesie mercantili contemporanee, ossia coloro che all’epoca sostituirono quell’aristocrazia di cui la cultura esponeva i demeriti ed i pericoli, non commetterebbero mai questo stesso errore e per questo vigilano con immensa attenzione affinché nessun messaggio autenticamente culturale possa raggiungere la ben studiata società contemporanea. È per assecondare tale modello di dominio che la scuola e l’università si sono oggi trasformate nei sicari che la borghesia mercantile utilizza per assassinare la cultura.

            Le borghesie mercantili sono ormai riuscite a creare un immenso apparato di controllo e contenimento della cultura che ben raggiunge lo scopo di tenere sotto controllo le società organizzate e conferisce una maligna efficienza al meccanismo di repressione e controllo. Mentre una volta queste tecniche di dominio prevedevano l’opposizione e la repressione delle idee non confacenti alle classi dominanti, oggi questo meccanismo funziona non soltanto attraverso l’esclusione, ma anche attraverso una suadente omologazione della massa a modelli comportamentali e di pensiero determinati dai tecnici del dominio. Oggi l’omologazione è il segno dell’obbedienza e questa coincide con il “volontario” abbandono ai dettami e criteri della borghesia mercantile e con un’autocensura spirituale e concettuale che sta creando un’umanità sempre più blanda e vuota, assoggettata materialmente e spiritualmente alle piccole voglie della volontà di quei pochi incoscienti che detengono il controllo dei meccanismi di omologazione e di dominio. La struttura psichica costantemente alla ricerca del cosiddetto “successo sociale” coincide con quella di una psiche fondamentalmente piccola, debole e alla ricerca di compensazione e approvazione, ergo una struttura in sé patologica.

            I metodi utilizzati per raggiungere lo scopo di un sottile controllo sulle menti e sulle vite degli uomini sono molti, così come molte ne sono le conseguenze. Dal punto di vista culturale, la conseguenza più eclatante consiste nella produzione di un immenso rumore che ostacola e sovente impedisce il sorgere di pensieri profondi capaci di stimolare e condurre in avanti l’intera società degli uomini.

            Questi individui affetti da cecità e hybris – Platone, non a caso utilizzando la parola non di origine greca τύραννος, definiva il tiranno come un folle –  camminano ormai da millenni senza alcuna remora o scrupolo sui teschi delle loro vittime e proprio oggi, l’epoca in cui l’uomo è massimamente distante da se stesso, il potere dei malvagi ha raggiunto anche il cuore degli innocenti facendo creder che il dovere consista nell’obbedire a colui che non ha luce negli occhi. L’astuzia sembra abbia sostituito l’intelligenza ed anche l’intelletto sembra sia ormai ridotto ad una rara avis: «Si bada a traumatizzare, a degradare, a distruggere l’intelligenza con intelligenza» (Giorgio de Santillana, Fato Antico e fato moderno, Adelphi 1985).

            Solzhenitsyn ammoniva e temeva la pericolosità del nostro tempo, le sue gravi assenze ed i vari sintomi che emergono in ogni aspetto della coabitazione sociale frammentata che è, poi, uno degli strumenti di dominio che la borghesia mercantile utilizza per asservire le genti. L’uomo contemporaneo vuol correre e stare confortevolmente nel gregge e crede di non avere tempo né interesse alcuno per discorsi profondi che lo stimolino a considerare meglio il suo andare: siamo l’epoca del non-pensiero e in un mondo in cui si crede di sapere solo perché si eseguono istruzioni e comandi è quanto mai fondamentale porre ancora le domande di chi ragiona. Il linguaggio della banalità è, del resto, anche il linguaggio della violenza, una violenza che non deve necessariamente assumere le forme della forza bruta come in passato ma opera attraverso strategie sottili e perniciose: «per placare i suoi bisogni l’economia deve produrre nell’uomo dei bisogni: questi “bisogni d’appoggio” certamente sono artificiali, ma non sono affatto bisogni culturali, nonostante l’economia li voglia fare passare come tali» (Günther Anders, Saggi dall’esilio americano, Palomar 2003). Bisogna anche far notare che, dopo il discorso dell’8 giugno 1978, il rinomato diplomificio di Harvard non invitò mai più il premio Nobel Solzhenitsyn. Anzi, a giugno del 2008, proprio nell’anno della morte dello scrittore russo (avvenuta ad agosto), l’Harvard University invitò a tenere il discorso inaugurale nientemeno che l’autrice di Harry Potter! Quale beffa e quale umiliante conferma alle parole di Solzhenitsyn. Non è forse questo uno tra i tanti segni del nostro tempo infame e scellerato?

            Molti pensatori hanno descritto la crisi morale della società contemporanea: innanzitutto l’etica attuale non corrisponde con lo stadio evolutivo a cui dovrebbe trovarsi l’etica in una società avanzata. Quando Albert Einstein dichiarava che utilizziamo una mentalità da età della pietra con una tecnologia da era atomica affermava, implicitamente, che lo stadio dell’evoluzione etica dell’uomo contemporaneo non ha ancora raggiunto una maturità capace di confrontarsi con lo stato del suo sviluppo tecnico e delle sue potenzialità distruttive o manipolative (vedi anche i problemi nell’ambito della biologia contemporanea). La crisi morale di cui si parla è certamente una crisi della società borghese, ma accanto alla società borghese esistono, anche se spesso non percepiti, molti altri cosmi e microcosmi. L’uomo occidentale ritiene la società borghese capitalista, ossia il modello di società che gli è familiare, quale unico parametro di misura e – come facevano i suoi predecessori fossero essi cittadini Romani o membri dell’aristocrazia mercantile britannica, francese o teutonica dell’Ottocento – vede e interpreta ancora oggi tutte le altre società umane attraverso la lente distorta da un etnocentrismo transnazionale di cui il borghese è il centro. Adeguarsi al modello occidentale significa oggi sottomettersi allo squallore etico del modello borghese.

            Una civiltà arriva al punto in cui, abdicando a se stessa, è costretta a lasciare il passo ad altre. È ormai avvenuto così tante volte nella storia che sembra di continuare a rivedere un trito rifacimento di un vecchio film. Si sa già chi sono i protagonisti, come andrà a finire, bisogna solo stare a vedere come recitano queste nuove comparse – la sola immensa differenza è che questa volta la barbarie possiede armi capaci di distruggere l’umanità una volta per tutte o di cristallizzare lo spirito dell’uomo al punto da non lasciar rimanere più alcuna voce.

            Così come la pseudocultura oggi dominante fa di tutto per provare ad ignorare e dimenticare messaggi come quello di Solzhenitsyn, insieme a tutti quei grandi pensieri prodotti dalla cultura autentica che, nei secoli, ha cercato di elevare lo spirito dell’uomo, per la stessa ragione è allora doveroso continuare a ricordarlo e ricordarli, anche quando sembra che nessuno ascolti, anche quando pare che l’oscurità sia ancora più scura. Il ricordo è una testimonianza dura e concreta, significa che anche di fronte alla montante marea del delirio dell’homo novus, alcuni sanno ancora resistervi e testimoniare seguendo l’antico motto: etiamsi omnes, ego non.

(Sergio Caldarella, Il peso politico della cultura. Ricordando l’anniversario del discorso inaugurale di Aleksandr Solzhenitsyn in «La Voce della Voce. Trimestrale di Cultura e Notizie», Bormio, giugno 2014).