Ricorre oggi l’anniversario del discorso inaugurale tenuto ad Harvard, nel
1978, da Aleksandr Solzhenitsyn in cui il grande intellettuale, sopravvissuto
ai Gulag e ad una malattia devastante, levava un monito profondo e accorato
sullo stato della società contemporanea, avvisando con grande lucidità contro
gli insidiosi pericoli del mondo nuovo. Questo discorso di Solzhenitsyn si può
dire rappresenti l’ultimo discorso che abbia ancora avuto un impatto pubblico
da parte di un grande intellettuale che provava a difendere la cultura
pungolata e attaccata dalle insidiose categorie della modernità, una puntuale
difesa dei valori che la cultura autentica oppone sempre alla decadenza del
tempo ed anche per questo il suo intervento, a distanza di trentasei anni, si
conferma come un discorso tanto inascoltato quanto attuale. Ci sono grandi
intellettuali di cui non si parla quasi più e non perché questi non siano di
fondamentale importanza anche per il nostro tempo, ma proprio perché lo sono. Rapportarsi con dei
pensieri profondi e difficili che, al tempo stesso, indicano le ragioni per le
quali il mondo sta andando per una via cieca è un compito che affronta solo
colui che ama il pensiero e che, dunque, ama anche esser corretto. La hybris rigetta da sempre ogni
correzione.
Viviamo in uno stato di
emergenza percepito da pochi e Solzhenitsyn era certamente tra questi. Una
società che non si pone lo scopo di aiutare gli uomini a crescere, ma soltanto
quello della loro organizzazione, controllo ed eventuale difesa, è non soltanto
una società che tende alla patologia, come avevano già ammonito Rousseau (in
particolare nell’Émile (1762)) e
Freud (in particolare ne Il disagio della
civiltà (1930)), ma anche un luogo immensamente pericoloso in cui gli
esseri umani vengono condotti all’annullamento e all’allontanamento da sé,
verso una bestialità secondaria dalle temibili conseguenze per l’uomo e il
mondo. Questi grandi pensatori ci mettono in guardia dalla società stessa che
abbiamo creato, ci stanno dicendo che il nostro più grande nemico è proprio
quella stessa società di cui partecipiamo e la direzione che abbiamo consentito
prendesse. Questo è un monito pesante. Agli albori della storia, gli uomini
iniziarono sì ad aggregarsi con lo scopo di proteggersi e sostenersi gli uni
con gli altri, ma anche con lo scopo, non secondario, di educarsi gli uni dagli
altri. La società contemporanea sembra abbia invece quasi completamente
abdicato quest’orizzonte della paideia, facendo così regredire la coabitazione
sociale ad uno stadio primitivo dominato da leggi, regole e prescrizioni
normative imposte per cooptazione o per
auctoritatem. Nel suo discorso Solzhenitsyn faceva infatti notare che la
sola norma giuridica non può rappresentare un autentico elemento di coesione
sociale e ricordava il grande blackout di New York, avvenuto l’anno precedente,
in cui bastò che mancasse la luce per poco più di un giorno per trasformare la
città in un violento luogo di barbarie.
Una società indirizzata
alla produzione materiale, alla difesa ed al controllo ha per conseguenza,
com’è drammaticamente sotto gli occhi, quella di produrre un modello umano
regressivo, passivo, spiritualmente povero e indifferente. L’uomo moderno è,
anzi, un essere che vuol essere “intrattenuto” (cfr. Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the
Age of Show Business (1985)) ma respinge qualunque insegnamento a meno che
non si tratti di quelli istituzionalizzati e finalizzati all’ottenimento di
abilitazioni varie in vista di qualche specifico utilizzo professionale – per
questo l’establishment accademico del diplomificio di Harvard assistette con
profondissima costernazione al discorso del grande Solzhenitsyn. Tenendo un
discorso serio, profondo e dalle grandi implicazioni, lo scrittore stava anche
violando una tacita consuetudine che lascia prosperare quest’accademia a patto
che questa non confligga o interferisca con i vari potentati, dunque a patto
che questa sia succube e non disturbi i manovratori. Ma un insegnamento succube
non è più cultura, al massimo può dirsi tirocinio o blanda propaganda. Nella
situazione determinata da quest’impostazione sociale anticulturale e
antiumanista della società globalizzata contemporanea, che si potrebbe per
molti versi definire presociale, regnano culti ancestrali dalla riduzione al
culto della famiglia («Un individuo la cui esperienza è determinata dalla “sua
fissazione per la sua famiglia”, che è incapace di agire in maniera
indipendente è infatti l’adoratore di un culto degli antenati primitivi» (E.
Fromm, Man for himself (1947)), ad un
pericolosissimo travisamento di ciò che si ritiene sia il proprio interesse ed
alla trasformazione dei cittadini in spettatori passivi – la passività
spirituale è il risultato più grave risultante dalla riduzione della cultura a
banalità controllate.
La situazione paradossale
che si è venuta oggi a creare è quella di un essere umano ridotto all’osso e
incapace ormai di credere nel futuro dell’uomo stesso! La società dell’opulenza
insegna la lectio terribilis secondo
cui il benessere materiale non coincide, necessariamente, con il miglioramento
culturale e spirituale dell’uomo, anzi sembra proprio conduca, invece, verso le
terre dell’abbrutimento, dell’egoismo, della vanagloria e della hybris bieca e sfrenata. Solzhenitsyn tracciava
nel suo discorso anche la genesi di questa situazione: «Il cammino che abbiamo
percorso a partire dal Rinascimento ha arricchito la nostra esperienza, ma ci
ha fatto anche perdere quel Tutto, quel Più alto che un tempo costituiva un
limite alle nostre passioni e alla nostra irresponsabilità. Abbiamo riposto
troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali e il risultato è che ci
viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interiore».
Detenendo il controllo dei
mezzi materiali, la borghesia mercantile detiene anche il controllo della
cultura ufficiale, ma la borghesia mercantile, comprendendo unicamente l’utile
materiale e diretto, non può nutrire alcun vero rispetto per la cultura
autentica, accettando come tale solo surrogati o simulacri, ossia quando vi
percepisce un aspetto utilitaristico o meramente pratico – quest’ultimo, in
particolar modo oggi, è un elemento specifico della tecnica. Il popolo, invece,
non possedendo la naturale corruzione della borghesia, aveva un rapporto di
profondo rispetto per la cultura e l’argomentazione riconoscendovi,
intuitivamente, qualcosa che non poteva essere inquadrato nei canoni noti ma
che possedeva un contenuto che si potrebbe definire “sacrale” – la dimensione
originaria della cultura ha infatti carattere sacrale, infatti il sapiente era
il sacerdote della conoscenza. Il popolo riconosceva alla cultura un contenuto “altro”
che è, poi, il riconoscimento della natura più profonda e verace della cultura.
La scomparsa del popolo coincide anche con la confusione – o mistificazione –
contemporanea tra “cultura popolare” e “cultura alta”, che presenta tarantelle
e tarallucci come “cultura popolare” lontana dalla “cultura alta”
rappresentata, magari, da qualche bellimbusto in cattedra figlio della
borghesia dispregiatrice. In realtà, quella che si manifesta in queste presunte
differenze, è ancora l’opposizione tra il popolo e la borghesia, tra un
elemento vitale ed un elemento mortifero. La tecnica, di cui la borghesia
mercantile è così infatuata e riesce a presentare come tanto bella e neutrale,
contiene un immenso potenziale mortifero di cui le armi atomiche sono solo il
culmine. Senza magari dimenticare che il fascismo italiano era, con tutti i
suoi gagliardetti di teschi e scheletracci vari, un fenomeno prevalentemente
borghese – da questo punto di vista non si è ancora riflettuto abbastanza sul
fatto che il nefasto Cancelliere Hitler fosse un miserevole borghesuccio
ridicolo oltreché un necrofilo. Ma tutte queste sono cose che la nostra
società, ancora dominata da una cultura mortifera, vuol artatamente ignorare.
In tale contesto la borghesia ha, dunque, la necessità politica di contrastare
ogni forma culturale che non sia strumentale ed asservibile ad uno scopo. La
cultura autentica, come fece proprio Solzhenitsyn nel suo possente discorso,
grida contro lo scandalo di questa situazione verso cui una volgare
impostazione mercantile dominante ha condotto il mondo. Moltissimi sono gli
strumenti ideologici e materiali che questa borghesia mercantile e bieca
utilizza per depotenziare e neutralizzare la cultura, primo tra tutti la scuola
e l’università utilizzate per assassinare la cultura di cui vengono dichiarate
foriere.
Che dire, allora, di una
società umana che si allontana sempre più dagli orizzonti dell’umanità? I
quattro furboni che controllano e manipolano questa situazione si sentono
indifferenti ad un tale discorso perché, proiettando sul mondo la loro bassa
visione, credono di aver fornito un’immensa semplificazione capace di servire
da soluzione. Questi politici, manager e intellettuali del nostro tempo
sembrano sempre più individui senza più nulla di vero: un’empia moltiplicazione
di piccoli esecutori in attesa di un comando. Sembra abbiano perso tutto, anche
l’ombra, come Peter Schlemihl nel racconto di Chamisso.
Così come l’aristocrazia
di fine Settecento era diventata una minaccia concreta per la sopravvivenza del
popolo, la borghesia che l’ha oggi soppiantata è diventata una minaccia ben
concreta alla sopravvivenza del pianeta stesso! L’ideologia del cane mangia
cane, l’hobbesiano bellum omnium contra
omnes, trasforma la realtà in un luogo dove contano quasi esclusivamente le
sole leggi della giungla, un mondo postmachiavellico dove gli uomini, per farsi
un poco di misero spazio nella miseria di una società straziata e ridotta a
brandelli, abdicano ai loro interessi più autentici e veri per sposare
ideologie di dominio che portano impresso il marchio della tremenda follia di
una creatura piccola e misera che vuol credersi ben più che mortale.
Le aristocrazie tra
Seicento e Settecento commisero l’errore di ospitare, sostenere e proteggere
molti pensatori tra cui coloro che stavano gettando le basi per un modello di
società privo di una classe aristocratica. Sostenendo la cultura,
l’aristocrazia del tempo stava fatalmente contribuendo alla propria
dissoluzione. Le borghesie mercantili contemporanee, ossia coloro che all’epoca
sostituirono quell’aristocrazia di cui la cultura esponeva i demeriti ed i
pericoli, non commetterebbero mai questo stesso errore e per questo vigilano
con immensa attenzione affinché nessun messaggio autenticamente culturale possa
raggiungere la ben studiata società contemporanea. È per assecondare tale
modello di dominio che la scuola e l’università si sono oggi trasformate nei
sicari che la borghesia mercantile utilizza per assassinare la cultura.
Le borghesie mercantili
sono ormai riuscite a creare un immenso apparato di controllo e contenimento
della cultura che ben raggiunge lo scopo di tenere sotto controllo le società
organizzate e conferisce una maligna efficienza al meccanismo di repressione e
controllo. Mentre una volta queste tecniche di dominio prevedevano
l’opposizione e la repressione delle idee non confacenti alle classi dominanti,
oggi questo meccanismo funziona non soltanto attraverso l’esclusione, ma anche
attraverso una suadente omologazione della massa a modelli comportamentali e di
pensiero determinati dai tecnici del dominio. Oggi l’omologazione è il segno
dell’obbedienza e questa coincide con il “volontario” abbandono ai dettami e
criteri della borghesia mercantile e con un’autocensura spirituale e
concettuale che sta creando un’umanità sempre più blanda e vuota, assoggettata
materialmente e spiritualmente alle piccole voglie della volontà di quei pochi
incoscienti che detengono il controllo dei meccanismi di omologazione e di
dominio. La struttura psichica costantemente alla ricerca del cosiddetto “successo
sociale” coincide con quella di una psiche fondamentalmente piccola, debole e
alla ricerca di compensazione e approvazione, ergo una struttura in sé
patologica.
I metodi utilizzati per
raggiungere lo scopo di un sottile controllo sulle menti e sulle vite degli
uomini sono molti, così come molte ne sono le conseguenze. Dal punto di vista
culturale, la conseguenza più eclatante consiste nella produzione di un immenso
rumore che ostacola e sovente impedisce il sorgere di pensieri profondi capaci
di stimolare e condurre in avanti l’intera società degli uomini.
Questi individui affetti
da cecità e hybris – Platone, non a
caso utilizzando la parola non di origine greca τύραννος, definiva il tiranno come un folle – camminano ormai da millenni senza alcuna
remora o scrupolo sui teschi delle loro vittime e proprio oggi, l’epoca in cui
l’uomo è massimamente distante da se stesso, il potere dei malvagi ha raggiunto
anche il cuore degli innocenti facendo creder che il dovere consista
nell’obbedire a colui che non ha luce negli occhi. L’astuzia sembra abbia
sostituito l’intelligenza ed anche l’intelletto sembra sia ormai ridotto ad una
rara avis: «Si bada a traumatizzare, a degradare, a distruggere l’intelligenza
con intelligenza» (Giorgio de Santillana, Fato
Antico e fato moderno, Adelphi 1985).
Solzhenitsyn ammoniva e
temeva la pericolosità del nostro tempo, le sue gravi assenze ed i vari sintomi
che emergono in ogni aspetto della coabitazione sociale frammentata che è, poi,
uno degli strumenti di dominio che la borghesia mercantile utilizza per
asservire le genti. L’uomo contemporaneo vuol correre e stare confortevolmente
nel gregge e crede di non avere tempo né interesse alcuno per discorsi profondi
che lo stimolino a considerare meglio il suo andare: siamo l’epoca del
non-pensiero e in un mondo in cui si crede di sapere solo perché si eseguono
istruzioni e comandi è quanto mai fondamentale porre ancora le domande di chi
ragiona. Il linguaggio della banalità è, del resto, anche il linguaggio della
violenza, una violenza che non deve necessariamente assumere le forme della
forza bruta come in passato ma opera attraverso strategie sottili e perniciose:
«per placare i suoi bisogni l’economia deve produrre nell’uomo dei bisogni:
questi “bisogni d’appoggio” certamente sono artificiali, ma non sono affatto
bisogni culturali, nonostante l’economia li voglia fare passare come tali»
(Günther Anders, Saggi dall’esilio
americano, Palomar 2003). Bisogna anche far notare che, dopo il discorso
dell’8 giugno 1978, il rinomato diplomificio di Harvard non invitò mai più il
premio Nobel Solzhenitsyn. Anzi, a giugno del 2008, proprio nell’anno della
morte dello scrittore russo (avvenuta ad agosto), l’Harvard University invitò a
tenere il discorso inaugurale nientemeno che l’autrice di Harry Potter! Quale
beffa e quale umiliante conferma alle parole di Solzhenitsyn. Non è forse
questo uno tra i tanti segni del nostro tempo infame e scellerato?
Molti pensatori hanno
descritto la crisi morale della società contemporanea: innanzitutto l’etica
attuale non corrisponde con lo stadio evolutivo a cui dovrebbe trovarsi l’etica
in una società avanzata. Quando Albert Einstein dichiarava che utilizziamo una
mentalità da età della pietra con una tecnologia da era atomica affermava,
implicitamente, che lo stadio dell’evoluzione etica dell’uomo contemporaneo non
ha ancora raggiunto una maturità capace di confrontarsi con lo stato del suo
sviluppo tecnico e delle sue potenzialità distruttive o manipolative (vedi anche
i problemi nell’ambito della biologia contemporanea). La crisi morale di cui si
parla è certamente una crisi della società borghese, ma accanto alla società
borghese esistono, anche se spesso non percepiti, molti altri cosmi e
microcosmi. L’uomo occidentale ritiene la società borghese capitalista, ossia
il modello di società che gli è familiare, quale unico parametro di misura e –
come facevano i suoi predecessori fossero essi cittadini Romani o membri
dell’aristocrazia mercantile britannica, francese o teutonica dell’Ottocento –
vede e interpreta ancora oggi tutte le altre società umane attraverso la lente
distorta da un etnocentrismo transnazionale di cui il borghese è il centro.
Adeguarsi al modello occidentale significa oggi sottomettersi allo squallore
etico del modello borghese.
Una civiltà arriva al
punto in cui, abdicando a se stessa, è costretta a lasciare il passo ad altre.
È ormai avvenuto così tante volte nella storia che sembra di continuare a
rivedere un trito rifacimento di un vecchio film. Si sa già chi sono i
protagonisti, come andrà a finire, bisogna solo stare a vedere come recitano
queste nuove comparse – la sola immensa differenza è che questa volta la
barbarie possiede armi capaci di distruggere l’umanità una volta per tutte o di
cristallizzare lo spirito dell’uomo al punto da non lasciar rimanere più alcuna
voce.
Così come la pseudocultura
oggi dominante fa di tutto per provare ad ignorare e dimenticare messaggi come
quello di Solzhenitsyn, insieme a tutti quei grandi pensieri prodotti dalla
cultura autentica che, nei secoli, ha cercato di elevare lo spirito dell’uomo,
per la stessa ragione è allora doveroso continuare a ricordarlo e ricordarli,
anche quando sembra che nessuno ascolti, anche quando pare che l’oscurità sia
ancora più scura. Il ricordo è una testimonianza dura e concreta, significa che
anche di fronte alla montante marea del delirio dell’homo novus, alcuni sanno ancora resistervi e testimoniare seguendo
l’antico motto: etiamsi omnes, ego non.
(Sergio Caldarella, Il peso politico
della cultura. Ricordando l’anniversario del discorso inaugurale di Aleksandr
Solzhenitsyn in «La Voce della Voce. Trimestrale di Cultura e
Notizie», Bormio, giugno 2014).