Émile Cioran, uno
tra i più acuti pensatori dello scorso secolo, è uno su cui non si può scrivere
nessuna biografia perché, durante la sua vita, ha fatto il possibile per
allontanare da sé i biografi provando ad ingannarli nascondendosi, facendo
finta di essere uno sfaccendato, un apolide, un uomo senza segni e senza
segreti. Cioran diceva: «Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me
stesso», ben sapendo che non c’è altro modo di scrivere davvero se non questo.
Come altri grandi autori della modernità, Émile Cioran faceva suo quel verso di
William Congreve secondo cui «Esser nudi è il modo migliore per nascondersi» («No
mask like open truth to cover lies, As to go naked is the best disguise», The Double Dealer, 1694). Gran parte dei
paradossi formulati nelle poche interviste rilasciate da Cioran erano, in
realtà, sottili prese in giro per quei pochi giornalisti che riuscivano a
raccogliere le forze per salire le scale fino a quella soffitta al 21 di Rue de
l’Odéon, nel Quartiere latino. In una di queste rare interviste arrivò a
dichiarare a François Bondy: «La maggior parte del tempo non faccio niente.
Sono l’uomo più sfaccendato di Parigi. Credo che in questo possa battermi soltanto
una puttana senza clienti» (tema ripetuto anche nei Syllogismes de l’amertume: «Vago attraverso i giorni come una
puttana in un mondo senza marciapiedi»). Nel dir questo, e riecheggiando il suo
caro Oblomov, Cioran si schierava contro la follia reattiva del mondo
contemporaneo che pretende di interpretare ogni cosa come il prodotto di una
qualche azione ponendosi dalla parte di coloro che comprendono la mutua e
radicale esclusione tra lavoro e libertà – volendo magari indicare che era
proprio il suo essere “sfaccendato” a renderlo libero, mentre il mito del
lavoro, creato per garantire la pigrizia dei pochi, in un modo o nell’altro,
rende gli uomini schiavi micidiali (è stata già fatta osservare da altri l’ossessione
per il “lavoro ben fatto” che dominava e dirigeva larga parte della mostruosa
attività dei criminali nazisti e non solo). Non a caso, nel Précis de décomposition, il pensatore
rumeno arrivava a scrivere proprio di un principio
satanico della dignità del lavoro in cui, tradendo la vocazione dello spirito,
l’uomo si consegna alla produzione e viene asservito ad una mansione
professionale qualunque, finendo per rendersi irriconoscibile anche a se
stesso. La tesi che Horkheimer e Adorno, con un rigore accademico d’altri
tempi, avevano anticipato già dal 1947: “L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo
reifica le anime” (Dialettica
dell’Illuminismo), trova espressione in Cioran attraverso frammenti di
pensiero che rifuggono l’articolazione strutturata che ne ingabbierebbe la
forza e l’estro trasformando una serie di dichiarazioni filosofiche in una
risposta politica. Charles Bukowsky, forse l’altro antieroe d’oltreoceano più
vicino a Cioran, dichiarerà fulmineo in una delle sue poesie: «Fools create
their own paradise. Gli scemi riescono a crearsi un paradiso tutto loro» (Days like razors, nights full of rats) e
parlava di quella che gli economisti definiscono enfaticamente come
“popolazione attiva”, come di una popolazione di “scarecrows”,
“spaventapasseri”, cui anch’egli raccontava di aver partecipato per decenni:
«you get caught in the structure of what you’re supposed to be (...) so for 50
years I was a scarecrow and now I am supposed to be a writer, si viene
catturati nella struttura di ciò che si suppone di essere (...) così per 50
anni sono stato uno spaventapasseri omologato e ora dovrei essere invece uno
scrittore» (Bukowsky in un’intervista sull’individualità).
Con il suo stile
di vita e di scrittura, senza però coinvolgersi nel linguaggio politico di una
parte o dell’altra, Cioran esorcizzava la religione del capitale che diviene il
compimento di quella scempiaggine universale che vuol sempre trasformare l’uomo
in cosa ed ha ridotto il mondo intero in un’immensa quanto tetra officina in
cui, nell’asservimento universale prodotto da questo meccanismo satanico, pochi
si rendono ancora conto della schiavitù e del giogo universale che incombe su ognuno
percependone, al massimo, differenze di grado, ossia le differenze tra le
posizioni nel gioco/giogo sociale creato e gestito dai pochi sempre e solo allo
scopo di mantenere i loro miserrimi privilegi a discapito d’altri. Leggendolo
con attenzione si sente, in Cioran, una certa eco del Contrat Social: «L’homme est né libre, et partout il est dans les
fers. L’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene», ma egli è un Rousseau
senza una causa o una volontà politica. Anzi, l’antipolitica di Cioran è sia
“anticapitalista” sia “anticomunista” e demitizza la mitologia del lavoro tanto
cara al sistema capitalista tanto quanto a quello dei Soviet – sul mito del
lavoro basterebbe ricordare gli attacchi di Lenin nel suo discorso contro
Oblomov del 1922, in cui ha certamente qualcosa di sospetto che un leader
politico arrivi a prenderserla con un personaggio immaginario sol perché questi
pratica l’arte dell’ozio! Con un originalissimo gambetto Cioran disvela,
dunque, l’unitarietà del mitologema del lavoro dietro le quinte di ideologie
apparentemente diverse come quella capitalista o dei Soviet! Cioran, rigettando
completamente l’antica ideologia dell’ozio quale pater vitiorum – tenendo però lontana la sua presunta funzione
apologeticamente creativa, come aveva invece provato a fare Bertrand Russell
nel suo Elogio dell’ozio (In Praise of Idleness and Other Essays,
1935) – ma ponendolo come una tra le più elevate virtù dello spirito umano,
smaschera e polverizza, con un sol colpo, le ideologie che sostituiscono
l’Assoluto con l’assoluto minore del capitale o dei processi di produzione e il
lavoro quale pietra angolare della realtà (Wirklichkeit)
caro sia alla Praxisphilosophie sia
all’ideologia capitalista in cui il lavoro viene propagandato come la
rappresentazione sociale del diritto ad esistere. Nel Novecento, nessuno ha
mostrato in maniera più radicale e in sottovoce, la singolare coincidenza tra
marxismo e capitalismo con la sagacia di cui è stato capace Cioran. È allora
evidente come alcuni vogliano presentarlo come un pensatore di destra, una
categoria, come quella di pensatore di sinistra, tanto vuota quanto antiquata:
destra e sinistra hanno senso solo nel contesto di una comune volontà di
dominio in cui fazioni diverse, ma con fini comuni, si contrappongono
nell’agone sociale utilizzando l’uno o l’altro discours, o terminologia, per condurre le masse sotto i loro
vessilli e bandiere.
Prestando la
dovuta attenzione a quello che le parole, pur negando, affermano (“O voi ch’avete
gl’intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto queste coperte alte
e profonde” (Inf. IX 61)), si palesa
non una presunta pigrizia di Cioran, un autore che ha scritto, fin da giovane,
opere d’immensa profondità teoretica, ma il suo sottile rigetto, teorico e pratico, di una società che,
attraverso i suoi giochi e meccanismi contorti, vuol costantemente rendere
l’uomo irriconoscibile anche a se stesso – come se lo scopo intrinseco della
socialità contemporanea fosse quello di far rifuggire l’uomo dall’uomo,
configurandosi, così, come il più pernicioso antiumanesimo mai generato dalla
storia. Cioran intuisce immediatamente, già da giovanissimo, che non esiste una
soluzione politica ai problemi dell’uomo della modernità e respinge, da subito,
i giochi di questo mondo artato, nascondendo questo suo rigetto sotto i panni
di un’apparente rinuncia alla vita – ecco il maestro che parla proprio
attraverso quel che non dice – perché Cioran, con acume da artista e da poeta,
ha amato la vita con un fervore che ne coglieva la grandezza in ogni istante vissuto.
Una volta confidò a Costantin Noica: «Ascolta, non parlarne a nessuno, ma io
amo molto la vita»; quale risposta sarebbe del resto possibile ad una società del contrario se non quella di
mascherare l’amore per la vita proprio con il suo contrario? L’amore profondo
che Cioran manifesta per la vita non è certo indirizzato a quel trascorrere di
giorni schiacciati dal gioco determinato dai pochi che è proprio l’oggetto fondamentale
delle sue invettive, ma all’esistenza libera e vera, la vita nell’essere in cui la cosa non coincide più con il valore e il valore di ognuno non è mai
in ciò che fa, ma in ciò che egli autenticamente è: non per nulla i suoi personaggi preferiti, ed i suoi maestri,
erano gente ai margini che non aveva mai scritto nulla, ubriachi, becchini o
individui bislacchi e considerati folli, gente che faceva dell’essere
l’esistere – due tra coloro che ebbero maggior influenza su di lui da ragazzo
erano proprio il becchino e l’ubriaco di Răşinari, sua città natale. Cioran
ebbe anche a dire che da una persona in un bar o da una portinaia che abbia
pensato a lungo e intensamente sui grandi problemi della vita c’è infinitamente
più da imparare che da un intellettuale infatuato di sé – c’è, anche in questo,
una singolare comunanza tra Cioran e il già ricordato Charles Bukowsky. Cioran
non veste nessuna livrea e non tira fuori soluzioni dal cilindro
dell’intellettuale, non si oppone ai Signori del grande gioco, li lascia
perdere e basta, limitandosi a vivere al margine della società degli
affaccendati, ma al centro del suo universo di problemi e pensieri.
È singolare che,
mentre questo pensatore di una grandezza ancora da indagare passava le proprie
giornate e le notti a tessere rime di pensieri nei suoi quaderni, nessuno, tra
i tanti minuscoli ciambellani delle tante accademie parigine abbia pensato di
offrirgli, a suo tempo, la possibilità di condividere questo suo pensare in
un’aula (ammesso che si fosse riusciti a convincerlo), mentre appena pochi
decenni addietro Bertrand Russell e altri suoi colleghi si umiliavano
(letteralmente) di fronte a Ludwig Wittgenstein per convincerlo a lasciare una
baita norvegese in cui si era rintanato ed averlo a Cambridge. Lo sconcertante
atteggiamento degli accademici contemporanei, oltre ad essere avvilente e
ripugnante, rende anche impossibile rappresentare davvero la colpevolezza di
questi ignobili ciambellani di fronte alle generazioni presenti e future per
tutto quello che hanno sottratto e sottraggono alla cultura autentica che,
sola, avrebbe ancora la possibilità di redimere la follia del mondo e salvare
la nostra specie dall’autodistruzione. All’annientamento della cultura operato
da questi stipendiati parrucconi Cioran risponde, invece, con lo sfoggio di una
finta indolenza e attraverso l’uso del più esagerato paradosso: alla moglie di
Ernst Jünger, che gli chiedeva da dove traesse il suo sostentamento, rispondeva
di essersi abituato a vivere da manutengolo, mentre questi accademici dalle
facce di palta che, con il loro blaterare bavoso arrivano a far stancare anche
della parola, i veri papponi, le mezzetacche bardate di tocco e toga complici
del meccanismo di dominio, quelli che si calano le braghe per un tozzo di pane
muffito e legittimano, con i loro timbri sbavati, cerimonie da postribolo e
pergamene, la barbarie e l’immane idiozia del nostro tempo, passavano per
affaccendati! Quali inerrarabili paradossi impone la modernità! Come dovrebbe
allora rispondere a questi riprorevoli paradossi un pensatore del calibro di
Cioran se non con altri paradossi? Come si potrebbe altrimenti argomentare
contro un’epoca che sembra abbia smarrito quel lento procedere di pensieri che
accompagna l’argomentazione e si sbraca così facilmente in sofismi,
paralogismi, propaganda e deliri di parole cieche? Al nostro tragico tempo, in
cui nei cervelli c’è un allegro fiorire di gramigne, cosa potrebbe mai opporgli
chi pensa se non la reclusione e l’esilio volontari? Ed è questo ciò che,
infatti, avviene sotto gli occhi di tutti se proprio i più grandi e importanti
nomi della cultura, a partire dall’Ottocento, sono degli esclusi dal mondo in
cui vivono: Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Kafka, Pessoa, Chestov,
Fondane, Caraco, Cioran, per limitarsi solo ad alcuni. Alla canaglia oggi
arroccata nei dipartimenti universitari, nelle case editrici e nelle
biblioteche, tutto questo non importa nulla, alle loro orecchie corrotte queste
non sono neppure argomentazioni, a loro sta bene così e basta. Il futuro che
questi abietti bravacci, questi sofisti da retrobottega, stanno costruendo – ed
hanno già in larga parte realizzato – è quello di un mondo deprivato di
qualunque contenuto spiritualmente autentico e profondo, una realtà depravata,
dove solo l’ignoranza più volgare e la dimenticanza di sé possono avere spazio
e parola. Le vite di pensatori autentici e fieri come Cioran, lontani e
allontanati dalle aule e dall’accademia, sono una tra le prove più evidenti
della corruzione cui hanno condotto la cultura contemporanea, rigettando i
maestri e occupando le case del sapere trasformate in postriboli per i loro
vizi, vezzi e mecenati. È proprio in questo lugubre scenario della cultura
contemporanea che, nel 1977, Émile Cioran rifiutò il premio Roger-Nimier conferitogli
per la sua opera, ed i 10.000 franchi associati al riconoscimento, questo anche
per via del disgusto che gli provocava, come ebbe a dichiarare molti anni dopo,
vedere come i vari intellettuali parigini fossero tutti impegnati in una
squallida competizione per ottenere premi e conferimenti vari. Questo è uno dei
tanti punti in cui Cioran mostra, con esemplare chiarezza, come il suo rifiuto
del mondo sia di natura principalmente estetica – poiché, come già mostra Kant
nella sua estetica, il disgusto può ben dirsi categoria profondamente estetica.
Cioran arrivava anche a dire di provare una sensazione di “vomito” quando
definiva il suo lavoro intellettuale come “opera”, ma questo non perché i suoi
lavori non rappresentino una maestosa opera profondamente culturale, quanto a
causa dell’abuso che si fa di termini come “opera” nella landa della
pseudocultura dei parvenu che oggi
passa per la cultura ufficiale. Cioran accettò solo il primo premio che gli
venne conferito, il Rivarol nel 1949, solo poiché la levità di questo grande
pensatore gli faceva ritenere un’impudenza, da parte di un autore sconosciuto,
rifiutare un premio letterario e solo dopo aver meglio inteso i meccanismi
della vita letteraria francese del tempo, che sono poi anche i meccanismi della
cultura ufficiale contemporanea, aveva capito che accettare un Premio
letterario di qualunque tipo rappresentava uno sgradevole atto di
compromissione intellettuale. Molti notevoli esempi possono essere tratti dalla
millenaria storia della cultura da Diogene di Sinope al filosofo cinese Wang
Chong (ca. 27–100) o al poeta Tao Yuanming (365–427) il quale, disgustato dagli
intrighi cui assistette, rifiutò di compromettersi per un tozzo di pane con le
parole “rifiuto di inchinarmi come un servo in cambio di cinque misure di
grano”. Lascia un sapore amaro osservare come oggi molti tra i commentatori di
Cioran partecipino proprio di quell’ufficialità culturale che egli rigettava e
disprezzava.
In Cioran si
colgono le tracce di quei pensatori da lui amati quali Schopenhauer, Leopardi, Nietzsche
o Spengler (vedi anche il recente volume L’agonia
dell’Occidente, dal titolo giustamente spengleriano, che raccoglie le
lettere tra Cioran e Wolfgang Kraus). Cioran intende la storia partendo
dall’antistoria e così i popoli più fortunati, i popoli autenticamente eletti,
sarebbero per lui proprio quelli che, come nel vecchio detto, non hanno storia,
quelli che sono stati capaci di tenersi lontani dalla follia della storia.
Similmente alla sua vita, in cui l’orrore di un mondo in mano alla malvagità ed
alla mediocrità lo portò al ritiro da questo, Cioran propone una versione
traslata di questo ritiro anche per la storia dei popoli: poiché la storia è il
luogo della brutalità e della miseria degli uomini più miserevoli allora dirsi
“fortunati” è dirsi ad essa estranei. È comprensibile la disillusione verso la
storia o, per meglio dire, verso la specie umana che fa la storia, da parte di
un pensatore post-nietzschiano e post-spengleriano passato attraverso gli
orrori della Seconda Guerra Mondiale: “Istoria universală nu e altceva decât o
repetare de catastrofe în aşteptarea unei catastrofe finale, La storia mondiale
non è altro che il ripetersi di catastrofi in attesa di una catastrofe finale”.
La disillusione di Cioran verso l’uomo e la storia – tratto tipico di molti
grandi pensatori – non nasce dalla sua spietata critica alla società
contemporanea, ma dalla sua incapacità di comprendere il senso dell’andare
degli uomini trasformati in spaventapasseri, in esecutori e manichini di un
grande gioco di cui non vedono né la mano artefice né il senso e confondono il
fare con l’agire o il sopraffare con la vittoria.
Nonostante la
profondità del suo pensiero, quando Cioran osservava di aver scritto quindici
libri sempre e solo su un unico tema, ossia la sua ossessione verso la futilità
e la morte e che tutti gli altri problemi non hanno nessuna importanza –
riecheggiando qui il Camus del Mythe de
Sisyphe – egli indulgeva, in questo punto centrale del suo pensiero, in una
dichiarazione che contiene quell’antica vanità dell’uomo la quale considera
importante ciò che lo riguarda di più e, poiché la morte sembra riguardarlo più
di ogni altra cosa, allora la vanità umana vorrebbe che questa fosse il
problema più importante tra tutti. Anche in Cioran, a dispetto della sua
teoresi, il principio secondo cui il problema della morte viene affrontato è
quello dell’esorcismo secondo cui: “tutto ciò che è formulabile, diviene più
tollerabile”, che è anche una terminologia dalla forte connotazione freudiana –
Cioran ha dichiarato spesso che la formulazione scritta dei suoi pensieri ha
avuto un’efficacia enorme contro la depressione che, a suo dire, lo ha afflitto
per tutta la vita, anche qui nuovamente un topos fortemente freudiano. La
ragione, attraverso i suoi dialoghi e confutazioni, cerca di rispondere alla
morte, ma la morte non ha risposta alcuna perché non è un interlocutore e
allora l’uomo di pensiero gli si erge di fronte e prova a sviscerare un mantra
che allevi la sua pena verso la morte. All’età di ventuno anni Cioran già si
definiva come un esperto sulla morte perché questo era un tema che lo toccava
sin dalla giovanissima età quando, come raccontava, intorno agli otto anni
giocava a pallone con dei teschi che gli venivano regalati dal suo amico, il
becchino di Răşinari, una scena certamente macabra, ma dal contenuto già
precocemente filosofico.
Cioran è uno che
vuol vincere contro la vita stessa, scaraventare la morte fuori dalla vita
attraverso un atteggiamento sprezzante e irriconciliabile con i tanti e vari
artifizi del mondo. Questo non significa che egli abbia vinto la sua battaglia,
Cioran sapeva benissimo che la sua era una tenzone che ammetteva solo la
sconfitta. In età avanzata, poi, crollò di fronte all’inganno degli occhi
mielosi di un’insegnante di filosofia di Colonia che, attraverso baci e abbracci,
gli fece scoprire quella potenza primordiale e assoluta in cui si inseguono e
abbracciano vita e morte o, come avrebbe detto proprio il grande viennese: eros e thanatos. L’inizio della fine e la fine dell’inizio. Come altri
prima di lui anche Cioran viene apparentemente sconfitto dall’aver creduto a
degli occhi belli, la dea primordiale e crudele di nome Amore lo pugnala per
mano di una donna molto più giovane, ma il suo pensiero rimane e, come ogni
grande pensiero, ergendosi ben oltre la penna che lo ha vergato, non contiene
traccia della sua ultima sconfitta se non nel fatto che questa contribuì a dare
il colpo finale al suo grido intellettuale, conducendolo alla rinuncia alla
scrittura che egli motivava dicendo di essersi stancato di calunniare l’universo.
Come ogni grande pensatore, l’ultimo schiaffo che Cioran ha dato alla morte è
proprio quello di esserle passato attraverso.
(Sergio
Caldarella, Émile Cioran, ritratto di un
pensatore, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 190, Firenze 2014).