Per quello che riguarda le umane vicende, capire non serve e non è mai servito a nulla, oggi forse ancor meno di prima. È sinistramente suggestivo quando si pensa che gran parte di quanto avviene nel nostro tempo sia già stato preannunciato, spesso con una preoccupante dovizia di particolari, in special modo nell’Ottocento, da pensatori quali Kierkegaard, Stifter, Marx, Nietzsche, Freud ed altri e, in seguito, da Spengler, Ortega y Gasset, Albert Caraco, Adorno, Marcuse, Horkeimer, Fromm, Cioran, etc. Ebbene, tutti questi acuti pensieri e analisi dell’uomo moderno e contemporaneo non hanno per nulla impedito i terribili eventi ed i crimini perpetrati negli ultimi due secoli con una precisione ed una rabbiosità forse mai incontrate prima nella storia. L’uomo medio, le nuova belva inventata dal tempo, è stato dissezionato e compreso fin nei dettagli; ci è stato detto con chiarezza dove ci avrebbe portati e nonostante tutto non è stato possibile fermarlo, anzi è lui che ha fermato tutti e sta pian piano fermando anche il mondo. Ha puntato su di sé tutti i riflettori e per questo l’unica norma di questa società sembra sia la sola banalità che la pericolosissima medietà impone a tutto e a tutti.
La banalità della mediocritas contemporanea sembra sia ovunque e ormai in una funzione totalmente dominante: o ti adegui ad essa o ti adegui ad essa, tertium non datur. Se un tempo si diceva disce aut discede, questi invece dicono o sei omologato come lo siamo noi o sei contro di noi e allora te la faremo pagare. Magari questa è anche una tra le ragioni per le quali la bipartizione amico/nemico, intellettualizzata dal teorico nazista Carl Schmitt, affascina così tanto questa gente. Uno tra i tanti lati terribili dell’epoca contemporanea è che l’autenticità sembra non conti più nulla e per giustificare e giudicare di tutto e su tutto si ricorre ad un cinismo banale e ad un nichilismo volgarizzato. Forse lo stesso cinismo che Calamandrei faceva rientrare tra i segni del "disfacimento morale" della società del tempo. In questo contesto uno dei più preoccupanti prodotti della contemporaneità è proprio la guerra che essa sembra aver dichiarato alla bellezza. Il bello sembra sia stato bandito dalle case del mondo: tutto è stato omologato, “pratico”, senza più curve né sostanza, senza più anima, ogni cosa è copia di qualcos’altro, anche le idee, anche gli esseri umani. Cos’altro è la globalizzazione se non l’estensione planetaria dell’omologazione? Tutti “uguali” ma non quell’uguaglianza buona, quella dei diritti e della dignità, no, anche quella è stata bandita. Quello cui la medietà aspira è l’omologazione chiamandola uguaglianza. Se tutti gli uomini sono e devono essere uguali nei diritti e nella dignità, questo non significa che debbano diventare delle copie di carta carbone gli uni degli altri: uguale ma diverso, questo è invece un motto autenticamente umano.
Ormai si può invece fabbricare tutto: basta solo un accordo tra i molti determinato da interessi monetizzati. Così basta che un gruppo più o meno nutrito – ma compatto – decida una cosa o un’altra ed essa può venir facilmente fabbricata nelle menti della gente. Tra le più antiche e persistenti fabbricazioni di questo genere figura anche l’antisemitismo.
Dal tradimento della fondazione umanistica della filosofia consegue anche l’abbandono di un ideale umano ispirato al Buono al Vero e al Bello in virtù di un modello umano oeconomicus e superficiale. La superficialità è del resto una conseguenza necessaria di un pensiero che ha rinunciato a pensare sull’uomo e sulla sua natura.
Se un’epoca si dichiara illuminata, multiculturale e apparentemente democratica e non chiede ai suoi appartenenti un miglioramento della loro dimensione umana, ma solo una generica obbedienza e la separazione egoistica dagli altri, può essa davvero dichiarare questi altisonanti ideali? Il problema reale consiste nell’avere eletto il mercantilismo ad unica regola d’esistenza e giudizio. Anche su questo punto siamo stati avvertiti alle origini della storia quando grandi sapienti e profeti mettevano in guardia dall’impoverimento che la cupidigia produce: la povertà della ricchezza contro la ricchezza della povertà. Ma anche quest’avvertimento è stato lasciato passare inascoltato.
Questo modo contemporaneo di leggere il mondo porta con sé un’immensità di pene e dolori di cui a prima vista non ci si avvede: crea esseri umani storpiati, uomini che non sembrano più neppure tali, almeno se abbiamo in mente il concetto di uomo delle epoche classiche e dell’Umanesimo. L’uomo del mondo nuovo è un individuo che non osa neppure lontanamente chiedere a se stesso “chi sono io?”.
Senza luce non può darsi nessuna vita e, come dichiarava il sommo Platone «Possiamo facilmente perdonare un bimbo che ha paura del buio, mentre la vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce». Gli umani dovrebbero avere in se stessi la luce del bello, almeno così ci conferma Immanuel Kant al termine della sua Critica della Ragion Pratica, ma quando il mondo intero è in guerra permanente contro la bellezza, quando esso vive nella suprema menzogna di falsi ideali beceri, quali titaniche forze sono allora richieste agli esseri umani per superare la barriera del buio? Le società hanno sì degli scopi materiali, ma pensare che essi siano lo scopo primario e finale è una negazione implicita della società stessa, almeno della società nel suo significato umano e non mercantile. Per il predatore tutto è solo preda, ma l’uomo può dirsi umano proprio in quanto abbandona lo stadio primitivo della belva dirigendosi verso altre sfere. Pirandello argutamente scriveva: «i figli della lupa nascono con i denti». Una società che, invece di portarti verso la luce, ti prende per mano per spingerti ancora più nelle profondità della terra è una società per le belve non per gli uomini ed esser uomini è sempre stato il nostro valore più grande. Senza la luce dello spirito gli esseri umano diventano anch’essi espressione della tenebra. A tutti sarà data un giorno la possibilità di capire, magari con l’ultimo respiro, ma perché aspettare l’ultimo giorno quando tutta la vita è una continua catena di possibilità? Un antico proverbio dice che tutto è porta: ci sono porte verso infiniti e aspettano solo un nostro gesto, la nostra mano che scosti quella barriera per guardare oltre. Perché rinunciare dunque ad uno dei più preziosi doni, limitandosi ad impilare giorni nella collana del tempo? Per assomigliare a chi? Se proprio dobbiamo decidere di assomigliare a qualcuno, perché non scegliere i migliori tra noi? Forse perché la prima cosa che l’uomo smarrisce diventando materia è proprio la capacità di vedere davvero.
(Tratto da: Sergio Caldarella, La guerra alla bellezza, Il Pungolo, Roma, 3 marzo 2011)
La banalità della mediocritas contemporanea sembra sia ovunque e ormai in una funzione totalmente dominante: o ti adegui ad essa o ti adegui ad essa, tertium non datur. Se un tempo si diceva disce aut discede, questi invece dicono o sei omologato come lo siamo noi o sei contro di noi e allora te la faremo pagare. Magari questa è anche una tra le ragioni per le quali la bipartizione amico/nemico, intellettualizzata dal teorico nazista Carl Schmitt, affascina così tanto questa gente. Uno tra i tanti lati terribili dell’epoca contemporanea è che l’autenticità sembra non conti più nulla e per giustificare e giudicare di tutto e su tutto si ricorre ad un cinismo banale e ad un nichilismo volgarizzato. Forse lo stesso cinismo che Calamandrei faceva rientrare tra i segni del "disfacimento morale" della società del tempo. In questo contesto uno dei più preoccupanti prodotti della contemporaneità è proprio la guerra che essa sembra aver dichiarato alla bellezza. Il bello sembra sia stato bandito dalle case del mondo: tutto è stato omologato, “pratico”, senza più curve né sostanza, senza più anima, ogni cosa è copia di qualcos’altro, anche le idee, anche gli esseri umani. Cos’altro è la globalizzazione se non l’estensione planetaria dell’omologazione? Tutti “uguali” ma non quell’uguaglianza buona, quella dei diritti e della dignità, no, anche quella è stata bandita. Quello cui la medietà aspira è l’omologazione chiamandola uguaglianza. Se tutti gli uomini sono e devono essere uguali nei diritti e nella dignità, questo non significa che debbano diventare delle copie di carta carbone gli uni degli altri: uguale ma diverso, questo è invece un motto autenticamente umano.
Ormai si può invece fabbricare tutto: basta solo un accordo tra i molti determinato da interessi monetizzati. Così basta che un gruppo più o meno nutrito – ma compatto – decida una cosa o un’altra ed essa può venir facilmente fabbricata nelle menti della gente. Tra le più antiche e persistenti fabbricazioni di questo genere figura anche l’antisemitismo.
Dal tradimento della fondazione umanistica della filosofia consegue anche l’abbandono di un ideale umano ispirato al Buono al Vero e al Bello in virtù di un modello umano oeconomicus e superficiale. La superficialità è del resto una conseguenza necessaria di un pensiero che ha rinunciato a pensare sull’uomo e sulla sua natura.
Se un’epoca si dichiara illuminata, multiculturale e apparentemente democratica e non chiede ai suoi appartenenti un miglioramento della loro dimensione umana, ma solo una generica obbedienza e la separazione egoistica dagli altri, può essa davvero dichiarare questi altisonanti ideali? Il problema reale consiste nell’avere eletto il mercantilismo ad unica regola d’esistenza e giudizio. Anche su questo punto siamo stati avvertiti alle origini della storia quando grandi sapienti e profeti mettevano in guardia dall’impoverimento che la cupidigia produce: la povertà della ricchezza contro la ricchezza della povertà. Ma anche quest’avvertimento è stato lasciato passare inascoltato.
Questo modo contemporaneo di leggere il mondo porta con sé un’immensità di pene e dolori di cui a prima vista non ci si avvede: crea esseri umani storpiati, uomini che non sembrano più neppure tali, almeno se abbiamo in mente il concetto di uomo delle epoche classiche e dell’Umanesimo. L’uomo del mondo nuovo è un individuo che non osa neppure lontanamente chiedere a se stesso “chi sono io?”.
Senza luce non può darsi nessuna vita e, come dichiarava il sommo Platone «Possiamo facilmente perdonare un bimbo che ha paura del buio, mentre la vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce». Gli umani dovrebbero avere in se stessi la luce del bello, almeno così ci conferma Immanuel Kant al termine della sua Critica della Ragion Pratica, ma quando il mondo intero è in guerra permanente contro la bellezza, quando esso vive nella suprema menzogna di falsi ideali beceri, quali titaniche forze sono allora richieste agli esseri umani per superare la barriera del buio? Le società hanno sì degli scopi materiali, ma pensare che essi siano lo scopo primario e finale è una negazione implicita della società stessa, almeno della società nel suo significato umano e non mercantile. Per il predatore tutto è solo preda, ma l’uomo può dirsi umano proprio in quanto abbandona lo stadio primitivo della belva dirigendosi verso altre sfere. Pirandello argutamente scriveva: «i figli della lupa nascono con i denti». Una società che, invece di portarti verso la luce, ti prende per mano per spingerti ancora più nelle profondità della terra è una società per le belve non per gli uomini ed esser uomini è sempre stato il nostro valore più grande. Senza la luce dello spirito gli esseri umano diventano anch’essi espressione della tenebra. A tutti sarà data un giorno la possibilità di capire, magari con l’ultimo respiro, ma perché aspettare l’ultimo giorno quando tutta la vita è una continua catena di possibilità? Un antico proverbio dice che tutto è porta: ci sono porte verso infiniti e aspettano solo un nostro gesto, la nostra mano che scosti quella barriera per guardare oltre. Perché rinunciare dunque ad uno dei più preziosi doni, limitandosi ad impilare giorni nella collana del tempo? Per assomigliare a chi? Se proprio dobbiamo decidere di assomigliare a qualcuno, perché non scegliere i migliori tra noi? Forse perché la prima cosa che l’uomo smarrisce diventando materia è proprio la capacità di vedere davvero.
(Tratto da: Sergio Caldarella, La guerra alla bellezza, Il Pungolo, Roma, 3 marzo 2011)