Friday, December 19, 2025

Il tempo degli ubriachi.

Un aneddoto riferito a Gioachino Rossini narra di un giovane il quale gli sottopose degli spartiti per una
valutazione; il maestro lesse rapidamente la musica e, poco dopo, espresse un giudizio lapidario: “qui c’è del nuovo e c’è del bello, ma ciò che è nuovo non è bello, e ciò che è bello non è nuovo”. Poiché, come insegna da millenni il Qohelet, vi è poco di nuovo sotto il sole, l’originalità si palesa come un bene prezioso e raro, ma anche come indicatore del livello di un’epoca. Le fasi di progresso umano, dalla Mezzaluna Fertile alla Grecia antica, fino alla Cina delle epoche auree o all’Europa rinascimentale, arrivando alla Germania fin de siècle e all’Austria degli Asburgo, sono, al tempo stesso, anche le più originali ed inventive. 

La creazione del cosiddetto “popolo palestinese” coincide con la costituzione, nel 1964, dell’OLP e del mito della “Palestina” al fine di utilizzare questa saga come una clava politico/militare contro lo Stato democratico d’Israele. Dietro questo scenario, in cui quello che c’è di originale non è nuovo e quello che c’è di nuovo non è originale, vi stanno le ideologie dei blocchi contrapposti della Guerra fredda con i sovietici dalla parte dell’OLP e gli Stati Uniti alleati con Israele. Decenni di propaganda e disinformazione, con la ben volenterosa complicità di media, accademia e politica, hanno poi dato luogo ad una terminologia ad hoc per legittimare la ripetizione ossessiva di cliché senza fondamento o buonsenso, trasformando un popolo inventato in un Moloch politico contro Israele. I nazisti, del resto, s’inventarono persino che Gesù era ariano e che esisteva un qualcosa come la “razza ebraica” o “semita” utilizzando, in quest’ultimo caso, un termine derivante dalla linguistica, ma rivoltandolo entro un’impropria connotazione biologista. Ancor oggi inquieta la naturalità con cui tale terminologia viene utilizzata dai tanti ubriachi privi di autonomia intellettuale o colmi d’odio cieco. 

In società in cui l’alfabetizzazione di base è prossima al 99% questi fatti dovrebbero essere ben noti e, invece, nelle teste di una buona parte di tale percentuale, abitano delle convinzioni immaginarie fermamente ritenute come degli eventi storici. Questo perché la propaganda sa da sempre come aggirare la razionalità attraverso l’uso dell’emotività. L’industria culturale ha un potere immenso e spaventoso sulla collettività e la normalizzazione del linguaggio della falsificazione contro Israele ne è una tra le tante evidenze. 

Per sfatare il mito creato dall’OLP basterebbe porre domande semplici: quand’è, prima del 1964, che vengono mai menzionati un popolo o una nazione “palestinese?” Chi era il sovrano o il presidente prima della fantomatica occupazione? Dov’è la letteratura? Dov’è la monetazione? Di fronte a quest’ultima richiesta alcuni ubriachi pubblicano foto del mill (₥), la moneta d’occupazione britannica impressa tanto in ebraico quanto in arabo e inglese. Sarebbe come se, per dimostrare l’esistenza della lira prima della costituzione della Repubblica italiana si facesse ricorso alle Am-lire del Governo militare alleato e non alla lira di Umberto I. L’Italia, poiché esisteva da prima del 1945, aveva una propria monetazione, un sovrano e magari un po’ di letteratura, filosofia, scienza, qualche testimonianza archeologica e, immaginate, persino una lingua comune! Scioccante, vero?

Per gli oltre sei secoli in cui l’area mediorientale si trovò sotto il controllo dell’Impero ottomano questa era appena una desolata regione amministrativa divisa in eyalet (province) e sanjak (distretti), dunque, anche fino all’inizio del protettorato britannico, non c’erano “palestinesi” e gli abitanti della zona venivano variamente identificati come ebrei, cristiani, arabi, etc. residenti nei distretti, tra cui il sanjak di Gerusalemme. Sotto il protettorato britannico si parlava di “arabi palestinesi”, oppure “ebrei palestinesi”, ma anche “cristiani palestinesi”, maroniti, etc. Tutti questi gruppi coabitavano sotto l’ombrello del mandato territoriale con cui gli inglesi avevano ridenominato la Palestina, tornando alla terminologia coniata dagli antichi Romani e precedentemente in uso, in Occidente, solo in ambito teologico/culturale. Non dimentichiamo che la lenta cristianizzazione d’Europa si svolge quando i Romani hanno già cancellato il nome d’Israele. Il 135 d.C. è l’anno in cui la rivolta antiromana di Bar Kokhba venne soppressa nel sangue da Sesto Giulio Severo, nominato dall’imperatore Adriano per sedare i tumultuosi giudei. I Romani, da esperti dominatori, sapevano bene come colpire dove faceva più male ed è per questo che, per punire la rivolta del popolo ebraico, soppressero Giudea e Samaria accorpando altre regioni come la Galilea e l’eparchia seleucide della Paralia, istituendo così la nuova Provincia della Syria Palaestina. Questo, ispirandosi al nome di “Filistei”, poiché i Romani sapevano che questi erano stati nemici degli Israeliti. Il recente libro di Barry Strauss, intitolato Jews vs. Rome: Two Centuries of Rebellion Against the World’s Mightiest Empire, è un’eccellente guida sul tema. Tutto questo avveniva quasi cinque secoli prima che l’Islam iniziasse a muovere i primi passi nella penisola arabica (610 d.C.) 1.491 km più a sud!

Adriaan Reland (1676 – 1718), ad esempio, nella sua utilissima Palaestina ex monumentis veteribus illustrata (1714) usa il termine, pur non riscontrando alcuna evidenza di un cosiddetto “popolo palestinese”. Il termine Palestina, imposto dall’Impero romano a seguito della rivolta della Giudea, è un conio interamente occidentale, com’è evidente tanto dalla sua storia quanto dalla linguistica: l’arabo non possiede l’occlusiva bilabiale sorda “p”, come potrebbe dunque creare una parola con una lettera che non possiede? Quante parole ci sono, in italiano con il thorn? Nessuna, poiché, nell’alfabeto italiano questa lettera non esiste. “Palestina” è un termine importato, ossia, come si predilige dire oggi, un vocabolo “colonialista”. L’ironia degli “anticolonialisti” che perorano una terminologia colonialista non deve qui andar perduta. Laura Robson, nel libro Colonialism and Christianity in Mandate Palestine (University of Texas Press, 2011), sostiene anche la tesi secondo cui “lo Stato coloniale britannico in Palestina ha esacerbato il settarismo, trasformando le identità religiose musulmane, cristiane ed ebraiche in categorie giuridiche”. Questo non è il solo dolo che i mandati occidentali hanno prodotto nell’area e basta dare un’occhiata a molte linee di confine per accorgersi di come siano state tracciate con un righello da qualche ufficio del Foreign Office britannico o di qualche département d’outre-mer, poiché Siria o Libano, come altri Stati dell’area, fondati ex novo nel XX secolo, furono, dal 1923 al 1943-1946, sotto mandato francese. La creazione stessa di strutture statuali in aree che non le avevano mai conosciute è il riverbero di rivolgimenti politici avvenuti in Occidente ed esportati ovunque, non il prodotto di processi autonomi. Gli stessi stati europei avevano iniziato a formarsi in nazioni, più o meno democratiche, a partire da poco più di un secolo dalla trasformazione dei vari regni.

Secondo una prospettiva storica, la gran parte dello scompiglio mediorientale che continua a produrre lutti è ancora il risultato della cattiva pace seguita alla Prima guerra mondiale, la stessa che ha già regalato al mondo la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda e continua ad influenzare ancora oggi i destini del mondo. L’analisi di queste cause si sarebbe quantomeno dovuta fare dopo la Seconda guerra mondiale - alcuni vi provarono ma vennero immediatamente messi da parte - ma all’epoca si era già intenti a costruire le fasi successive del disastro iniziato a luglio del 1914. Larga parte dei mali cui assistiamo sono conseguenze di errori o strategie politiche del passato che si metastatizzano in quelli presenti. Quella che è strabiliante è la quasi totale assenza degli storici di professione, ma questo lo si può spiegare con il contenuto radicalmente ideologico del moderno in cui l’industria culturale vidima e prende a bordo solo quelle voci che sostengono le sue narrative e direttive. Questa è, ovviamente, una situazione paradossale ed intollerabile, tanto culturalmente quanto politicamente, ma fino a quando il controllo sulle teste dei cittadini sarà così ferreo com’è al momento, non vi si potrà porre rimedio e quanto più passa il tempo, tanto più s’ingarbuglia la matassa e le sue conseguenze. 

Ovunque trionfi l’ideologia, regna la falsificazione organizzata in un contesto che appare coerente poiché la scenografia è stata allestita con cura ed il coro orchestrato fin nei dettagli. Il senso degli eventi viene invertito, sottomesso alla narrativa, appioppando alla falsificazione una finta naturalezza condivisa: “ma come? Non sai che Israele è un occupante?” “Lo sanno tutti che, dalla creazione dell’universo, c’erano per primi i buonissimi e bravissimi palestinesi e che i cattivoni israeliani li hanno scacciati dalla terra dove il loro nome è inciso negli atomi di tutte le pietre!” Queste cose, senza alcun tocco ironico, vengono pubblicate anche in libri stampati da editori un tempo eccellenti: “ci sono due popoli che hanno scelto di resistere: i palestinesi e i libanesi.” (Samir Kassir, L’infelicità araba). Gli esempi correnti non mancano anche da rampolli italiani: “la nascita di Israele risponde tanto a una logica nazionalista, mirante cioè all’indipendenza della nazione ebraica e alla sua difesa dalle persecuzioni subite per secoli, quanto, inscindibilmente, a una logica coloniale (…). Per occupare le terre su cui rivendicano il loro diritto, i coloni devono infatti necessariamente ingaggiare una guerra contro la popolazione che le abita, e avviare un processo di ‘ingegneria sociale’...” (Michele Sisto, La guerra dei cent’anni secondo Rashid Khalidi, «L’Indice dei Libri del Mese», nr. 7/8, 2024). Di fronte alla Notte dei cristalli del XXI secolo qual è la risposta della cultura e della politica europee? Rafforzare la narrativa in cui “resistenza” può persino indicare lo stupro ed il diritto il torto? Riproporre il vecchio slogan attribuito al Sionismo: “una terra senza popolo per un popolo senza terra” strumentalizzandolo per perorare bieche falsificazioni antisemite utilizzando, però, una frase coniata in ambiente cristiano dal rev. Alexander Keith, negli anni ’40 dell’Ottocento, dunque ben prima di Theodor Herzl? E, grazie a questo ciarpame ideologico, riconoscere, come hanno fatto Spagna, Norvegia e Irlanda, un’entità priva delle forme politiche, storiche e giuridiche di uno Stato? Insomma, quando piove, diluvia.

Su queste vicende si stampa, si urla, s’inneggia con impudenza da qualunque angolo dell’industria culturale senza alcun timore, quantomeno nel tempo presente, di venir chiamati a risponderne, tutt’al più sperando in qualche cittadinanza onoraria. Sembra quasi che la società moderna, avendo spalancato i cancelli della falsificazione ideologica, non riesca più a fare a meno dei discorsi privi di senno. Quando si considera la relazione che la gran parte dei media occidentali intrattengono contro Israele, non si può evitare la sensazione di sentirvi delle voci in un coro. Alcuni hanno provato a spiegare questa curiosa coordinazione come se avesse radici nella storia europea, come se, nel momento in cui le società del vecchio continente si trovano in difficoltà, ricorrono al riflesso condizionato del “dagli all’ebreo”, un po’ la tecnica degli zar per dar sfogo allo scontento popolare indirizzandolo altrove, ossia nei pogrom. Cambia il numeratore, ma il denominatore rimane uguale. Ne ha scritto anche Orwell con i “due minuti d’odio”, in 1984, dove Emmanuel Goldstein, l’arcinemico contro cui i cittadini vengono portati ad inveire, ha, non a caso, un cognome ebraico. Il riferimento probabile pensato da Orwell era quello di Lev Trotzki il cui vero nome era Lev Davidovič Bronštejn ed anche in questo caso viene in soccorso l’antico umorismo ebraico con cui, già all’epoca della Rivoluzione bolscevica, alcuni lamentavano: “I Trotzki fanno la rivoluzione ed i Bronštejn ne pagano le conseguenze”, volendo indicare come la militanza politica comunista di Trotzki veniva, alla fine, utilizzata, ancora una volta, per dar addosso agli ebrei. Anche qui, nulla di nuovo o di originale.

L’invenzione del “popolo palestinese” è una trovata che ha oltre sessant’anni, ma la sua struttura concettuale ha radici ideologiche ben più lontane e, volendo, la si potrebbe anche far risalire alle origini del culto islamico il quale riunisce tradizioni pagane, spezzoni di credenze ebraiche e cristiano orientali, reinterpretate in un collage legalistico e fantasmagorico, ma anche plastico a sufficienza per consentire qualunque adattamento ad ogni circostanza politica. Pensiamo alle fantasiose rivendicazioni relative alla spianata del tempio di Gerusalemme che, per magia, diventa un imprescindibile luogo di fede musulmano pur non avendo nessuna rilevanza particolare nel culto originario in cui la gran parte degli eventi narrati avevano luogo nella penisola arabica, migliaia di chilometri più a sud. Sarebbe come dire che i cattolici romani s’inventano, d’un tratto, che uno dei luoghi per loro più sacri è Gamla Stan, la città vecchia di Stoccolma, perché un Santo ha fatto un sogno e ne ha visto le cupole. Insomma, cose bizzarre che indicano uno sfondo ideologico ancor ben più curioso sul quale, anche in questo caso, vi è o un drammatico silenzio o una tragica mistificazione.

Queste fantasiose rivendicazioni sui luoghi sacri d’Israele vengono spacciate come degne di merito sulla base d’impalcature ideologiche assurde ed antistoriche. La “Palestina” immaginata grazie a media ed accademici conniventi esiste tanto quanto la leggenda nestoriana del regno del Prete Gianni. Nel frattempo gli storici di professione, quando non sono impegnati a prendere il tè nei loro dipartimenti, propongono assurdità come quelle del Barbero sul fatto che il Regno di Giudea o il Tempio di Salomone non siano mai esistiti. O tempora

Quella contro l’antisemitismo, oggi travestito neanche troppo bene da antisionismo, è una delle battaglie morali più importanti di questo periodo storico e lo è poiché questa risorgenza indica un punto di regresso intellettuale e sociale che, oltre ad essere eticamente inaccettabile, è anche pericoloso per l’intera socialità. Un esempio è la minaccia che questo degrado rappresenta anche per l’ordinamento giuridico internazionale.

L’essere umano, quando abbandonato a se stesso o diretto ad arte, è capace di trasformare certe pulsioni irrazionali e la volontà di credere in delle pseudorealtà le quali hanno conseguenze sempre nefaste sulla storia. Basti pensare all’invenzione del pernicioso concetto di “razza” che è ancor oggi, nonostante la scoperta del DNA, in uso - esiste una sola razza, quella umana, eppure questo termine continua a venir utilizzato come se le scoperte della biologia non significassero alcunché di fronte alla volontà di credere che esistano delle “razze”. La fantasia, seppur in linea di principio infinita, nelle teste di quelli che ne hanno poca si manifesta più o meno nelle forme della ripetizione di modelli e cliché che continuano a scappare dal dimenticatoio della storia. Il presunto antisionismo dei manifestanti pro-Hamas si nutre a piene mani di stereotipi presi pari pari dall’antisemitismo secolare: dalle fantasie medievali sulle mazzoth pasquali fatte con il sangue dei bambini cristiani ai “bambini di Gaza” è una linea diretta. La responsabilità dei bambini morti o feriti nel conflitto, fortunatamente pochi e non certo le cifre immaginifiche svendute dal Ministero della propaganda di Hamas con la complicità di certi media, ricade su Hamas stessa. Il fatto che così tanta gente possa venir manipolata con queste invenzioni è sintomatico di uno stato pietoso dell’istruzione e della comunicazione di massa, ma anche di aspetti speciosi della psicologia umana: ci saranno, sì, quelli il cui livello intellettivo non li rende capaci di accorgersi che si tratta di fanfaluche, è certo possibile, ma è anche importante osservare che la gran parte preferisce crederci perché gli piace. Quel “riflesso” antisemita di cui si parlava prima. Nell’epoca dell’informazione, dei calcolatori tascabili, di internet, non ci vorrebbe molto per mettere insieme un paio di dati e capire che le cifre con le quali Hamas ha riempito le pagine delle gazzette conniventi sono un’invenzione grottesca. Nelle guerre, inoltre, la responsabilità ricade su chi le provoca. Nessuno, tra quelli andati in strada dal 7 ottobre, ha fatto appelli ad Hamas chiedendo di piantarla, di deporre le armi e rilasciare gli ostaggi: volevano, invece, e chiedevano che fosse l’aggredito a farlo. Non esistono esempi in tal senso in altre epoche: nessuno in America ha mai protestato per chiedere a Churchill di deporre le armi contro la Germania nazista. Oggi, invece, succede. Perché?