Ci sono libri che hanno determinato le
coscienze di un’epoca e libri che, invece, vengono rigettati perché condensano
il senso delle trasformazioni storiche nella silloge dei dolori, lutti e
tragedie che queste epoche hanno portato e ospitato nel loro manto. I libri più
belli, quelli che lasciano davvero tracce, sono quelli difficili da leggere e
ancor più difficili da scrivere perché costringono l’autore e,
conseguentemente, il lettore, a percorrere strade impervie tracciate dalle
spine di antichi dolori che la memoria rigetta e il cuore riporta sempre a
galla. Sono ormai troppi i grandi pensatori dello scorso secolo la cui voce è
ormai quasi inudibile tra i corridoi della cultura ufficiale pesantemente
lastricati dall’incultura della nostra epoca e Jean Améry è, senza ombra di
dubbio, uno tra i più importanti intellettuali del Novecento ed è, allo stesso
tempo, uno di cui non si sente quasi più il nome, nonostante ci abbia lasciato,
in pochi libri, un grande patrimonio di pensieri ancora da pensare. Jean Améry,
al secolo Hans Mayer, sopravvissuto alla più colossale mostruosità della nostra
epoca, all’età di 65 anni, terminerà poi da sé, similmente a Primo Levi,
compagno di baracca ad Auschwitz, quella vita che l’incubo nazista non era
riuscito a distruggere. Il libro Intellettuale
ad Auschwitz è un testo denso che è tanto un’interrogazione filosofica
quanto un’esperienza, anzi, è un testamento filosofico dell’esperienza del male
e dell’ingiustizia esperiti in prima persona. È un libro che, a prima vista, sembra
parli della tortura e della deportazione ma, in realtà, è un grido di stupore
intellettuale in cui l’autore, allibito, chiede, attraverso la scrittura, di
render conto dell’antico tradimento dell’uomo verso l’uomo. Améry non ha qui
scritto un trattato di filosofia accademica, ma ha voluto interrogarsi e
interrogare sul significato del dolore e della tortura e sull’indifferenza con
cui un uomo può infliggere dolore e morte ad un altro. Améry descrive la
scoperta di una realtà in cui si entra non appena si riceve il primo pugno sul
viso: “il primo pugno cambia tutto”. Dal momento in cui si finisce tra le
grinfie dell’aguzzino, ossia tra le mani di uno degli innumerevoli esecutori
sempre pronti e proni a eseguire il volere dei pochi con la feluca o la corona
sul capo, il mondo in cui si era vissuti diventa un altro mondo, una realtà le
cui porte si spalancano, con clangore ferrigno, sulla brutalità e indifferenza
degli uomini, un mondo troppo lontano da quei sogni che avevano avvolto
l’intellettuale prima di venire incarcerato e torturato dalla Gestapo e dagli
aguzzini di Auschwitz, in una descente
aux enfers in cui il reale assume il ghigno della più contorta follia. La
nostra è un’epoca indifferente all’ingiustizia e, proprio in questo suo tratto,
si configura come un’epoca diretta alla distruzione. L’enigma della grande
prova è, allora, quello di riuscire a intravedere tra le maglie della brutalità
dei tempi e capire se il mondo vero sia quello dell’esecutore, del malvagio che
impugna saldamente lo stiletto o la clava e si erge come ferale nemico del suo
prossimo, o se la realtà autentica sia proprio l’esatto contrario di quanto la
forza del male vuol provare ad imporre. Questa è una domanda che Améry affronta
con tutta la serietà che questa merita, ma alla quale non riesce a fornire
risposta alcuna perché sulle carni gli bruciavano ancora le ferite inferte,
mentre qualcosa in lui testimoniava di un mondo che rigetta il carnefice
attraverso il pensiero in cui si riconoscono solo gli uomini e non i mostri o
le bestie che sanno infliggere solo dolore, tortura e morte.
(© 2015, Sergio Caldarella)