La convinzione
secondo cui, a livello delle alte oligarchie, vi sia un’etica che ne dirige o
influenza in un certo qual modo gli orientamenti è quantomeno risibile o
surreale, per non dire platealmente assurda e, per sconfessare tali favole a beneficio
della diade di dominatori e controllori, basterebbe già gettare uno sguardo
alla storia documentata chiedendosi: «quando è stata l’ultima volta in cui le alte
oligarchie hanno mostrato un’attitudine etica di fronte alla società degli
esseri umani in generale?» È stato forse alle origini delle società storiche? Quando
hanno magari escogitato la piramide gerarchica, la schiavitù e le guerre
organizzate? O millenni dopo, quando hanno precipitato il mondo nelle ultime
due devastanti guerre mondiali? Oppure – per limitarsi ad alcuni eclatanti
esempi recenti – quando è stato deciso di vaporizzare, con un lampo nucleare, gli
abitanti di Hiroshima e Nagasaki, di intervenire militarmente in Paesi come il
Vietnam, bombardare la Cambogia e il Laos, o d’invadere l’Iraq e l’Afghanistan?
Se Luigi XV, nell’epoca del dominio dell’aristocrazia, si arrogava il diritto «divino»
e incontrovertibile di poter tranquillamente usufruire di una sfarzosissima
reggia di oltre settecento stanze, mentre la popolazione francese era costretta
alla fame, i vari oligarchi d’oggi si arrogano, a loro volta, il diritto, anche
in questo caso assoluto ed incontrovertibile, di possedere decine di lussuosi
appartamenti, ville, yacht, aerei privati e conti in banca spropositati,
infischiandosene praticamente di come viva o possa vivere la generalità della
società:[1] è così perché è così e basta ed è pure un sistema
consolidato che offre una reputazione di stabilità purché non ci si cominci a
ragionare sopra con serietà e imparzialità.
La supposizione arbitraria, veicolata
da un imponente sistema d’indottrinamento, secondo cui l’etica possa dirigere o
indirizzare gli orientamenti di un’oligarchia – sia questa in un regime
tirannico o democratico – è anche un’impossibilità logica de facto, in quanto non si potrebbe scegliere di stare dalla parte
del massimo privilegio o profitto per sé, avendo al contempo un’impostazione
etica verso gli esseri umani e la società generalista (ossia un’idea di
giustizia comune per tutti), in quanto non esiste alcuna possibilità di
giustificare, moralmente o razionalmente, la diseguaglianza la quale è, però,
il presupposto necessario all’esistenza di un’oligarchia. Il lusso variamente
esaltato e celebrato attraverso i media e le tecniche pubblicitarie è, ad
esempio, la misura lampante dell’ingiustizia sociale entro cui le oligarchie
vivono a loro completo agio e senza alcuna remora. Non è allora curioso che si
riesca a presentare il lusso come il contrario di ciò che questo è? Ossia come
un benessere individuale e non nella sua realtà di malessere sociale? Sin
dall’antichità le società più ingiuste, dalla Roma di Caligola o Vitellio, fino
alla Lituania del duca Svitrigailos (Svitrigalus) o l’America di Bill Gates,
Bloomberg o Trump, sono quelle che conoscono il lusso più sfrenato. Seguendo
questo percorso interpretativo il lusso si dimostra, dunque, come un chiaro
indicatore del livello di imbarbarimento civile e ingiustizia di una società o
gruppo umano.
Chi detiene i mezzi e partecipa della hybris oligarchica fa quel che può perché
può e tra la volontà e l’agire del potente non si frappone alcuna restrizione
se non quella d’incorrere in conseguenze per comportamenti non sanciti, da qui
la necessità di indirizzare o manipolare anche la legittimità legale per poter implementare
i propri dettami con la totale libertà di dar corso alla propria volontà di potenza: «Chi sta collocato
sopra tutti, vuole anche sopra tutti signoreggiare. Non ammettere eguaglianza
con alcuno, chi è superiore a tutti».[2] È qui
rilevante osservare come uno dei tratti definitori dell’empio consista nella
massimizzazione della sua volontà a discapito di tutto e tutti: l’empio fa quel
che può o quel che vuole, senza curarsi del giusto. «Beato colui che non segue
il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in
compagnia degli stolti», riporterà non a caso il primo dei Salmi.
Per coloro che detengono i mezzi, l’esercizio
del potere consiste sempre nel massimo
esercizio della volontà. Proviamo a fare un brevissimo esempio ispirato alle cronache
recenti: se alcuni tra noi, in virtù del cambiamento climatico e per via di
altri fattori, si pongono oggi il dilemma se sia opportuno o meno utilizzare un
aereo per viaggiare da qualche parte raggiungibile altrimenti e, avendone
l’opportunità, preferiscono magari prendere un treno o altro mezzo di
locomozione pubblico, il Segretario del Tesoro e milionario americano Steven
Mnuchin non ha invece alcuna remora ad utilizzare un enorme aereo militare per
sé e la moglie per andare a far compere a Roma dagli Stati Uniti massimizzando,
per un capriccio, il proprio impatto ambientale a spese dei contribuenti
americani. Uno dei consulenti giuridici che hanno lavorato all’inchiesta per
accertare se questi voli del Segretario del Tesoro americano fossero legalmente
ammissibili, dopo che l’amministrazione Trump è riuscita a farli passare per
voli attinenti alla mansione di Segretario del Tesoro,[3] ha dichiarato: «Solo perché una cosa è legale, questo
non la rende giusta».[4] Apparentemente
questo consulente giuridico, al quale è dovuta tutta la simpatia possibile, non
ha piena cognizione del clima culturale contemporaneo, né di cosa significhi
far parte di un’oligarchia o di un sistema radicalmente oligarchico come quello
statunitense. Così come Mnuchin, anche i vari principi sauditi utilizzano
regolarmente grandi aerei della Saudi Arabian Airlines con capienza di almeno
500 persone come voli personali per viaggiare, da soli o con qualche altro
membro della famiglia o accompagnatore, da una parte all’altra del globo
terrestre e gli esempi consimili potrebbero facilmente accumularsi. Com’è allora
possibile credere che individui di tal fatta – ossia di gente che sguazza tranquillamente
nella diseguaglianza – possano avere una qualsivoglia prospettiva etica di
fronte agli altri e di fronte al mondo? Se, però, l’assoluta corruzione etica
ed intellettuale delle oligarchie fosse una cognizione di dominio pubblico e le
masse non venissero costantemente manipolate, indottrinate e, dunque,
soggiogate alla naturale accettazione della diseguaglianza economica, sarebbe praticamente
impossibile il successo elettorale di personaggi come Trump o Berlusconi e, in
secondo luogo, anche quello di governi a conduzione oligarchica; proprio su
questo punto si rivela quanto sia fondamentale e determinante la confusione sul
tema e quanto questa sia favorevole unicamente a coloro che detengono i mezzi. Il
discorso offerto oggi dall’ideologia e dalla propaganda propone, invece, queste
assurdità controfattuali sulle oligarchie come fatti certi e acclarati o elementi
su cui non c’è nulla da discutere e questo proprio perché tale è il compito
dell’ideologia, ossia svestirci della capacità di vedere per sostituirla con
quello che Kleist o Schopenhauer chiamavano le lenti verdi sugli occhi, cioè un modo di guardare al mondo che
lascia apparire il reale secondo il colore voluto da chi determina la
pigmentazione delle lenti. Non vi è, del resto, mai stata un’epoca storica in
cui l’ideologia abbia avuto un posto talmente capillare e dominante com’è
avvenuto nell’epoca contemporanea e questo, in larga parte, grazie all’aumento
esponenziale dell’alfabetizzazione di base e delle tecnologie di diffusione e
controllo dell’informazione: «L’attuale livello di perfezione in fatto di
organizzazione, comunicazione, propaganda, dischiude la possibilità e offre gli
strumenti per quel controllo capillare, quella mobilitazione totale, quell’“allineamento”
(Gleichschaltung) – frutto o di
costrizione terroristica o di seduzione persuasiva – della vita e del pensiero
di tutti i cittadini, di cui finora la storia non ha visto l’eguale».[5]
Poiché un’ideologia non è mai neutrale
e non sorge autonomamente, ma è un costrutto creato da alcuni per
razionalizzare e determinare una visione del mondo, anche qui, per provare a
capirne le ragioni, ci si può e ci si deve chiedere, in primo luogo, cui prodest? A chi giova l’immensa
confusione creata dalla modernità? A chi giova il disastro sociale, umano,
culturale e, in seguito, ambientale ed esistenziale in cui viene scaraventato
l’individuo e il mondo contemporanei? A livello sociale, ad esempio, la graduale
scomparsa dei comportamenti civici, determinata attraverso vari sistemi
d’ingegneria sociale, indica, tra l’altro, l’aumento della disunità tra
cittadini e questo ne è propriamente lo scopo politico: divide et impera, un assioma antico per un mondo novus. A chi giova allora tutto questo?
L’essenza è il perché,[6] avrebbe forse
aggiunto a questo punto il vecchio Aristotele.
Personalmente andrei ancor’oltre
chiedendo: a chi giovano tutti i discorsi che non si fanno, o non è più
possibile fare, sul tema della cultura occidentale? Ebbene, queste sono non
soltanto domande fondamentali, ma anche domande filosofiche e culturali le
quali implicano quei presupposti alla base del pensiero occidentale per i quali
tanto si è patito e lottato e tantissimo sangue è stato versato nella storia.
Se i Persiani avessero vinto sui Greci, i Cartaginesi contro i Siracusani,
oppure i turchi a Lepanto, l’Occidente avrebbe conosciuto anch’esso il
dispotismo achemenide, punico o ottomano in cui l’essere umano era una mera funzione
del potere e nulla di ciò che conosciamo oggi sarebbe uguale. Basterebbe
pensare all’enorme differenza storica generatasi, nel cuore d’Europa, a causa della
vittoria di Arminio nella foresta di Teutoburgo contro Publio Quintilio Varo (9
d.C.) la quale, tra le molte conseguenze, ha diviso culturalmente la civiltà
europea per millenni, determinando una separazione tra cultura germanica e
latinità la quale si protrae per molti aspetti ancor’oggi. Detta con altri
termini: senza Arminio e la sconfitta di Teutoburgo, Lutero o Hitler non
sarebbero, con buona probabilità, stati possibili! Queste seppur brevi e
incomplete considerazioni storiche dovrebbero aiutare a capire quanto siano
significativi questi momenti, ma anche quanto a culture diverse corrispondano
mondi diversi.
Quando, ad esempio, si relativizzano le
culture come se queste avessero tutte gli stessi contenuti o indirizzi intellettuali,
sociali e politici (il ché vorrebbe paradossalmente dire: come se avessero
tutte una stessa storia!), arrivando implicitamente anche a negare un concetto
come l’evoluzione dei sistemi biologici, facilmente trasponibile anche alle
società, concetto che è, per altra parte, tanto caro ai dominatori del mondo
quando gli serve, a bella posta, per imporre un darwinismo sociale confacente
ai loro fini, si pretende di dimenticare che la teoresi e la lotta per la
libertà di parola e di pensiero e la conquista dei diritti dell’individuo sono
dei tratti civici fondamentali e specifici della parte più alta della cultura
occidentale. Dico «parte più alta» perché soprattutto oggi, per una pericolosa
quanto vasta parte della popolazione in Occidente, la libertà di parola e di
pensiero non posseggono una particolare attrattiva, né viene visto in queste un
valore intrinseco e determinante tanto per la socialità, quanto per
l’individualità, altrimenti vi sarebbe uno scandalo pubblico maggiore non
soltanto verso tutte le politiche arbitrarie e illiberali, le legislazioni
censorie[7] e tutte le pesanti scelte imposte anche senza il
beneplacito delle moltitudini – oppure i cittadini europei hanno forse votato
per l’introduzione dell’euro, per l’allargamento della Comunità Europea, per le
infamanti politiche imposte dalla cancelliera tedesca ed i suoi mandanti contro
la Grecia o per il recente attacco alla libertà di espressione mascherato, dal
Parlamento europeo, dietro una Direttiva
sul diritto d’autore?[8] No, non lo
hanno fatto, poiché i cittadini hanno più o meno votato i politici proposti dai
partiti e questi hanno stabilito un meccanismo di gestione autonomo
indipendente dalla volontà dell’elettorato e, in certi casi, persino
indipendente dal loro mandato nazionale.[9] I
cittadini della Comunità Europea sembra abbiano allora votato, a loro insaputa,
quella che gli antichi Greci definivano come un’esimnetia, ossia una tirannide
elettiva. Un greco antico non avrebbe, del resto, alcuna esitazione nel rifiutare
ai nostri sistemi politici attuali la classificazione di «democrazie», ma li identificherebbe
immediatamente come dei sistemi oligarchici dei quali gli antichi avevano una
cognizione ben chiara. Per i Greci, inoltre, la parresìa (παρρησία), ossia la
libertà di parola, era uno dei cardini della polis democratica ed una delle libertà fondamentali del cittadino e
questa non era una mera logorrea impotente e fine a se stessa, poiché la parola
significante non era ancora stata soggiogata, attraverso un assordante apparato
di produzione dell’opinione e della propaganda, a difesa dei contorti fini
delle oligarchie. L’essere umano libero agisce in concomitanza alla visione
prodotta dalla libertà e l’etica è anche una funzione della libertà tanto
quanto la costrizione impone anche una restrizione dell’etica. Un’etica
autentica è dunque possibile soltanto nel contesto di una libertà autentica.
Gli Stati contemporanei stanno tornando,
gradualmente e sistematicamente, a limitare in molti modi la libertà di parola non
ultimo attraverso la manipolazione ideologica ed il soffocamento del pensiero
attraverso l’opinione (doxa) offerta
da un impressionante apparato d’intrattenimento e distrazione, oppure vietando
certe parole e discorsi o introducendone altre prescelte dallo Stato e rese obbligatorie
per legge. Su questo punto voi magari direte: «ma sono brutte parole quelle che
lo Stato vieta» ed io rispondo, con l’aiuto di Voltaire o George Orwell, se la
libertà di parola ha un senso, lo ha proprio per consentire l’espressione di
ciò che non vogliamo ascoltare! Oggi è diventato troppo facile censurare nel
nome di un fraintendimento della tolleranza, trasformandola in una paradossale
«tolleranza repressiva» pubblica, come ebbe già modo di osservare Herbert
Marcuse nella metà degli anni ‘60.[10] Nel maggio
del ‘68 si sarebbe magari detto: «Il est interdit d’interdire», ossia vietato vietare! Ai nostri giorni si ha
però l’impressione che nell’epoca in cui ogni cosa è qualcosa d’altro – la pipa
di Magritte che non è una pipa: ceci
n’est pas une pipe – il significato contemporaneo di «libertà di parola» si
sia trasformato in quello di «impotenza della parola» o nullificazione di essa
attraverso il marasma dell’opinione.
Quando l’Occidente si rivolta contro la
libertà di parola e, dunque, di pensiero, sta implicitamente rigettando l’individuum e si
sta, dunque, rivoltando contro se stesso o, quantomeno, contro quelle categorie
intellettuali fondamentali che hanno determinato lo sviluppo della visione
culturale che ha dato l’impronta alle categorie sociali delle società
occidentali; non è del resto casuale che il rigetto dell’assolutismo o della
teocrazia siano parte delle fondamenta, anche giuridiche, della cultura
occidentale. Se un europeo di buona istruzione ritiene oggi assurdo e mostruoso
amputare la mano a qualcuno che abbia rubato una mela, oppure lapidare
un’adultera o bruciare sul rogo un eretico, questo lo dobbiamo proprio allo
sviluppo culturale che ci ha consentito di scoprire e centralizzare la dignità
dell’individuo e di dubitare o rinnegare qualunque potere che voglia dirsi «sacro»
o assoluto; per questo, in particolare in Occidente, esiste una rigida
separazione costituzionale tra Stato e religione che è, invece, inaccettabile e
persino impensabile in culture altre. Queste non sono bagattelle liquidabili
con una scrollata di spalle, grazie ad una spruzzatina di slogan propagandistici
o all’imposizione di una qualche cappa ideologica come pretendono di fare i
tanti ciambellani del sistema di potere contemporaneo poiché, così facendo, si
lascia il discorso tra le mani delle frange più estremiste o reazionarie della
società le quali se ne appropriano facilmente, traendone consenso politico e
traviando, a loro volta, questi concetti fondamentali in un altro genere di
propaganda politica reazionaria[11] o
illiberale. Chi vuol subdolamente importare altre visioni del mondo, vuol farlo
anche per indebolire le fondamenta etiche e sociali della cultura europea e,
dunque, minare ulteriormente l’autonomia dell’individuo. Purtroppo i discorsi e
le analisi con cui si prova a dirimere la confusione, rifacendosi ai fatti ed
alla storia, vengono oggi facilmente umiliati e nullificati attraverso un
apparato di banalizzazione che riduce il ragionamento su questi temi complessi
a mere tabelle di buoni e cattivi, trasformando la multicolore realtà
storico-sociale nelle sole categorie bipolari di bianco e nero dove da una parte
stanno i buoni e dall’altra i cattivi, senza che vi sia più nulla in mezzo se
non quel che conviene al retore di turno.
La scoperta dell’individuo – Adamo
viene, per l’appunto, creato solo – che è già contenuta nei libri di fondazione
dell’Occidente, Omero e la Bibbia,
diventa poi la base del diritto positivo[12] e viene
acquisita a livello del singolo cittadino offrendogli una fondazione legale e
civile dei diritti individuali da contrapporre al potere formale dell’autorità
o dello Stato. Il fatto che noi viviamo, oggi, in una seppur fraintesa Età dei diritti (Bobbio) è anche una
derivazione tanto della determinazione individuale dell’anthropos greco, quanto della mitologia biblica delle origini:
Adamo e Ulisse aprono la strada all’individuo che, nascendo autonomo, può e
deve trovare da sé la direzione nel mondo. La modernità si muove, invece, nella
direzione contraria a questa tradizione, restringendo sempre più l’autonomia
dell’individuo pur lasciandogli formalmente a disposizione spazi di libertà che
egli sembra non sappia più come indirizzare al di fuori dei modelli proposti
dai media e dalla società generalista.[13] Il fatto
che l’individuo contemporaneo trovi poco confortevole la libertà
individuale-intellettuale rifuggendola attraverso conformismo, omologazione, mode,
ideologie politiche e religiose è anche il risultato dell’impronta psicologica
che la modernità ha impresso su costui. Il sistema socioeconomico-capitalista, plasmando
le forme dell’immaginario collettivo sui propri paradigmi materiali, è ormai in
grado di determinare la soggettività rendendosi così capace di un’invasione con
cui riesce a raggiungere il cuore dell’essere umano attraverso modalità ancora inimmaginabili
in un passato recente. L’homo
occidentalis guarda al sistema socioeconomico-capitalista come fonte di
riferimento e di direzione per la quasi totalità dei suoi comportamenti e
atteggiamenti che vanno dal vestiario fino alle regole di comunicazione,
linguaggio, intrattenimento e interrelazione, lasciando che il modello di vita da
lui auspicato e persino le forme dei suoi desideri vengano determinati per
mezzo di rappresentazioni collettive proposte attraverso l’ideologia dominante
mediata dalle strutture di formazione e dai mezzi di comunicazione. L’individuo
rappresenta, invece, un inconveniente per chiunque abbia per obiettivo la
manipolazione sociale poiché questi, in quanto autonomo, resiste materialmente
o psicologicamente alla pressione delle direttive con le quali si determinano i
fini e si indirizza una società di massa. Molti sono, dunque, i metodi
escogitati per demolire l’autonomia dell’individuo, non ultimo, oggi, l’attribuzione
dell’etichetta di narcisismo a caratteri comportamentali tipici invece
dell’individualità. Porsi, dunque, nel verso contrario alla cultura
occidentale, significa porre qualsivoglia dottrina o concetto al di sopra
dell’individuo.[14]
¯¯¯
Le fondamenta di una società civile
sono, in primissimo luogo, culturali: anche la vulgata concettuale di origine angloamericana secondo cui la base
delle società è unicamente economico-capitalista è un paradigma concettuale materialista
imposto attraverso un’ideologia concomitante offerta, in questo caso, da coloro
i quali, oltre a detenere i mezzi, traggono il massimo vantaggio da un tale
modello socioeconomico, ossia da un apparato di gestione che non distribuisce
in maniera egalitaria i frutti dell’attività cooperativa sociale, ma ammette
una fondativa diseguaglianza a favore di pochi ed a discapito di tutto il
resto. Su questo punto dovrebbe risultare evidente quanto i fondamenti
culturali dell’Occidente, i quali emergono anche in quelle grandi dichiarazioni
di principio giuridiche che sono le costituzioni degli Stati, confliggono con
una visione politica oligarchica e capitalista, in quanto una concezione della
società la quale ammetta la diseguaglianza a favore di pochi, contrasta proprio
con quei principi culturali fondamentali che hanno determinato le categorie intellettuali
dell’Occidente. I principi di libertà e uguaglianza giuridica tra cittadini
sono categorie primarie le quali, già nella loro formulazione, sono opposte e
contrarie a illibertà e diseguaglianza; anche la diseguaglianza sancita su basi
economico-contrattuali.
Quando alcuni – i soliti che si
esprimono sempre e soltanto attraverso i megafoni approntati da coloro i quali
detengono i mezzi – rigettano il concetto di «cultura occidentale» come se in questo vi fosse qualcosa di nefasto, cosa
stanno rigettando davvero? Alla domanda costoro risponderebbero, senza
esitazione alcuna, di star rigettando il colonialismo, lo sterminio delle
popolazioni precolombiane, la schiavitù, la colonizzazione dell’India, i
massacri in Congo e tutte quelle troppe mostruose attività di dominio e
sfruttamento perpetrate dalle oligarchie europee, eppure quasi a nessuno viene
in mente di far notare a queste anime belle che gli orrori da loro menzionati
sono proprio il prodotto di un modello di conquista e rapina che non ha nulla a
che fare con le fondamenta culturali dell’Occidente, quanto piuttosto con una
visione del mondo economicista, materialista e predatoria basata sulla
diseguaglianza![15] Nel
momento in cui qualcuno stabilisca, grazie ad una serie varia e molteplice di
artifizi retorici, che l’attività di rapina non era il prodotto delle solite
minoranze oligarchiche malate di potere e ricchezze, ma un crimine perpetrato
nel nome della «cultura europea», allora il discorso è ben che concluso a
favore dello sragionamento. Entro un tale paradigma cieco scompaiono tutte
quelle fondamentali costruzioni culturali che hanno invece determinato le basi
e la natura intrinseca di quello che si definisce come «pensiero occidentale». Il
pensiero greco, l’etica socratica e la filosofia platonica, l’etica
ebraico-cristiana, il Defensor Pacis
(1324) di Marsilio da Padova, il Discorso
sulla dignità dell’uomo (Oratio de hominis dignitate, 1486) di Pico della Mirandola, l’imperativo categorico kantiano (1785), il Dei
delitti e delle pene del Beccaria (1764), le Osservazioni sulla tortura del Verri (1776)[16] il concetto dell’individuum
in Kierkegaard ed in Max Stirner o l’Ehrfurcht
vor dem Leben[17] di Albert
Schweitzer sono, invece, alcuni tra quei tanti grandi discorsi centrali e princìpi
a fondamento della cultura e dell’individuo occidentale cui si dovrebbe far
propriamente riferimento quando si pretende di parlare dell’Occidente. Chi,
però, se non il tiranno e la sua malattia – come già accuratamente descritto da
Platone alle origini della filosofia – ha un interesse preciso a far sì che il
mondo venga rappresentato sempre e solo a partire dalle sue categorie devianti
o stravolto attraverso una confusione culturale e sociale creata ad hoc? Chi altri? Se assumiamo che i
crimini, le scelleratezze ed ogni altro orrore perpetrato nel nome
dell’Occidente da gruppi o individui dai dubbi motivi rappresentino la «cultura
occidentale», l’equivalenza tra quest’ultima e la mostruosità predatoria
diventa allora facile e la confusione, a dispetto di qualunque evidenza, può
facilmente decollare per la tangente.[18] Quella
contro il tiranno, il despota o il bruto è, del resto, la prima grande battaglia
perduta dell’Occidente e costoro si fanno beffe della civiltà in quanto,
nonostante essi siano il prodotto di una malattia della polis, questa rimane per loro fondamentalmente estranea, poiché
continuano a leggere la comunità come se questa fosse ancora la selva e si
muovono in questa di conseguenza. Il tiranno ha un rapporto così intenso con le
proprie passioni e desideri da non riuscire a vedere null’altro da queste.[19] L’oppressore o il dittatore non si riconoscono nella
realtà sociale se non quando trasformano la società nel riflesso della loro
malattia. Per molti versi il tiranno, l’oppressore, il despota o il dittatore possono
facilmente venire associati all’immagine mitica del minotauro, ossia quella di un
essere metà umano e metà bestiale trascinato unicamente dall’animalità e dalle
pulsioni. Per un altro verso, proprio seguendo la lettura inaugurata da Platone,
costoro sono semplicemente individui andati a male.
La distorsione del linguaggio,
l’abolizione relativista della verità e la dissoluzione dell’individuo sono
tanto strumenti quanto conseguenze della tirannide. Esiste tutta una contorta mitologia
politica che, nel corso dei tempi, è stata edificata a spese dei semplici, di
coloro i quali non hanno capito che si stava costruendo un mondo a loro danno.
Si è iniziato coniando espressioni, modi di dire, opinioni per arrivare poi a
determinare il senso del reale,
giungendo al punto in cui la realtà
significa meno della descrizione presentata da coloro che detengono i mezzi e
indirizzano, in conseguenza, i fini e le coscienze. Il riflesso può facilmente
venir confuso con la realtà poiché la realtà, come insegnava Platone, è
anch’essa riflesso.
Fonte: https://deathpenaltyinfo.org/ |
Il problema di fondo, qui, è che una
certa mentalità la quale interpreta il mondo, sempre ed unicamente, come
un’arena materiale in cui ogni mezzo è lecito purché possa venire giustificato
dal fine, produce risultati indifendibili; le ragioni attraverso cui dimostrare
l’insostenibilità di tale posizione, anche a dispetto di tutti i chierici e
giullari del potere, si fonda proprio su quella stessa tradizione culturale
dell’Occidente per la quale l’individuo possiede una dignità intrinseca ed un
valore che non dovrebbero mai essere calpestati, anche nel momento in cui
costui sia un grande criminale, poiché il rispetto generale
per la persona umana precede l’individuo particolare. Il riconoscimento dell’intrinseca
e fondamentale dignità degli esseri umani e dell’universalismo dei diritti è, per
l’appunto, tra le più importanti conquiste e categorie del pensiero
occidentale. Questa è anche una tra le ragioni per cui, proprio nel contesto
della cultura occidentale, si tende a respingere l’uso della pena di morte e,
proprio questo atteggiamento di rifiuto della pena capitale, rappresenta una
tra quelle molte grandi conquiste etiche attraverso cui è possibile tracciare
una mappa dei confini di questa civiltà: gli Stati Uniti, nazione chiave della
globalizzazione oligarchico-capitalista nei quali la barbarica prassi della
pena di morte è ancora in vigore in molti Stati, possono essere utilizzati come
una significativa cartina di tornasole sul tema discusso. Tanto più sarà
elevato il livello socio-culturale di uno Stato, tanto minore sarà la
probabilità che la pena capitale vi abbia un posto giuridico. Il progresso
culturale è sempre un elemento che si manifesta, nei fatti, ad ogni livello di
una società. Quando parliamo di «società occidentale», stiamo anche parlando di
un’evoluzione culturale che accetta, intellettualmente e normativamente, la
centralità ed il rispetto basilare e fondamentale dell’individuo, dunque,
ripeto la domanda: quando alcuni denigrano o rigettano il concetto di cultura
occidentale, cosa stanno rigettando davvero?
[1] Persino
quando le alte oligarchie hanno avuto un progetto che alcuni possono
ingenuamente chiamare «umanitario», questo ha sempre avuto un indirizzo
politico o geopolitico. Vedi, ad esempio, il «Piano Marshall» (European
Recovery Program) che, proprio per il suo aspetto d’ingerenza politica, venne
rifiutato dall’Unione Sovietica e dai suoi Paesi satelliti.
[2] Antonio
Maria da Albogasio, Fiori istorici, overo
compendio d'erudizioni virtuose e fatti illustri, Milano 1711.
[3] Così
come vennero anche fatti passare come legittimi i voli di Stato che l’ex Primo
Ministro Berlusconi offriva ad amici e amichette per raggiungerlo nelle sue
ville in Sardegna.
[4] «Just because something is legal
doesn’t make it right.»
[5] Karl D.
Bracher, voce Totalitarismo, in Enciclopedia del Novecento, Treccani,
Roma 1984.
[6] Nonostante
il perché non sia l’essenza.
[8] Direttiva sul diritto d’autore
nel mercato unico digitale dell’Unione europea,
2016/0280(COD).
[9] Come ha scritto
Luciano Gallino, in un ben documento testo dal titolo Il colpo di Stato di banche e governi, «i governanti europei
sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando
recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla
classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello
di risanare l’economia. È piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la
redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso
verso l’alto in corso da oltre trent’anni» (Einaudi 2013, p. 16).
[10] Cfr. H. Marcuse, Repressive Tolerance, 1965. Inoltre, nel poscritto aggiunto nel
1968, Marcuse, con esplicito riferimento agli Stati Uniti, osservava: «Under
the conditions prevailing in this country, tolerance does not, and cannot,
fulfill the civilizing function attributed to it by the liberal protagonists of
democracy, namely, protection of dissent» (in AA. VV., A Critique of Pure Tolerance, Beacon Press, Boston 1970, p. 117). Pochi anni
dopo gli ammonimenti di Marcuse alcuni ritennero utile creare il concetto del «Politicamente
corretto» (Political correctness) per
imporre su vasta scala codici di condotta verbale definiti a priori.
[11] È, ad
esempio, quanto è avvenuto con l’attentato nel 2019 a due moschee a
Christchurch in Nuova Zelanda in cui il criminale che ha perpetrato l’azione ha
dichiarato di aver tratto ispirazione, tra gli altri, dal libro Le grand remplacement (2012), dell’autore
di estrema destra francese Renaud Camus.
[12]
«Positivae autem iustitiae illud est, quod ab hominibus institutum», Petrus
Abaelardus, Dialogus inter philosophum, Judaeum et Christianum.
[13] Cfr.
anche E. Fromm, Escape from Freedom,
Farrar & Rinehart, New York 1941. Il tema centrale in questo testo di
Fromm, anche a causa della situazione storica, è la fuga verso le ideologie
totalitarie ma il discorso, mutatis
mutandis, si mantiene attuale anche oggi, epoca in cui la fuga dalla
libertà continua ad avvenire in forme non direttamente o esclusivamente
totalitarie.
[14] Il senso
dell’imperativo categorico kantiano consiste, infatti, proprio in un rispetto
fondamentale e radicale per la soggettività umana che, secondo l’auspicio,
dovrebbe sempre venir anteposta come fine e mai utilizzata come mezzo.
[15] Per
provare a ragionare su questa forma
mentis basterebbe forse osservare che la schiavitù, fin dalle origini, è un
fenomeno fondamentalmente economico. Per un’analisi filosofica di questa parte
della razionalità occidentale, cfr. anche S. Caldarella, L’Ultima dea d’Occidente. Saggio sulla razionalità inesorabile,
Edizioni Illo Tempore, Princeton 2018.
[16] Pietro
Verri scrisse questo testo tra il 1770 ed il 1777 che venne pubblicato postumo
nel 1804.
[17] Reverenza
per la vita.
[18] Un altro
tipo di errore affine – per limitarsi a pochi esempi indicativi – è, in
proposito, quello di associare l’insegnamento evangelico ad eventi nefasti come
le crociate, l’inquisizione o il massacro degli Albigesi e l’ebraismo alla
strage dei Cananei.
[19] Questo
vuol anche dire che l’esaltazione di passione e desiderio si trasforma
rapidamente in volontà di potenza.