Thursday, October 16, 2014

The Dormants and the Atomic Bomb






From an epistemological standpoint, the modern man is not too far from certain primitive mythologies, because even in our age of “triumphant calamity”, we continue to peddle the little that we know for the totality of knowledge. It thus ends up ignoring, intentionally or not, that large part of our much-vaunted science is purely a mechanical imitation of Nature.
The hubris of the man who dominates electricity is not so different from that of the man who dominates the fields using a plow; it is only a hubris enhanced by the energy that powers our new mechanical tools and toys, and that’s all the difference. Of course, the hubris of a man who has peeked on the surface of the secrets of the microcosm gives his ego a disproportion that makes him feel the ruler of the universe – he already had that fancy long time ago when he barely used sword and spear to subdue others, let alone now that he has learned how to separate certain atomic nuclei.
In reality, what the manipulative knowledge of certain atomic mechanisms really gives to man is the power to blow up a thousand times his own planet; a knowledge that only serve the purpose of increasing the madness of the homo novus. Without fear of exaggeration, this situation could also be compared to that of a guy who comes into a room full of people with a grenade in his pocket and believe himself to be strong and powerful just because he has in its power the possibility, clear and effective, to blow up all people in the room. Who would not hesitate to declare such a person insane? Yet, if we extend this discussion to those who have control over the buttons to destroy the entire planet (and to those who provide and maintain these buttons) the majority of those to whom you would ask the question of whether to declare those people in power out of mind, would portray from such an assertion, mentioning a series of arguments which, as they have been educated to believe, legitimize and justify these mechanisms of power that serve to maintain the criminal and destructive potential of atomic weapons. It is perhaps the mechanism of double standards (i.e. killing is wrong, but killing in the name of the Fatherland is right, or it is wrong to lie, but to lie for the good political reasons of the country is right) to represent some sort of justification for the existence and maintenance of criminal weapons of mass destruction capable of bringing the whole of humanity to extinction? But if these instruments of death are capable to extinguish our species, what sense it makes, even in this case, to appeal to the old mechanism of double standards to justify the existence of weapons, which would clear all the contenders once for all? What perverse blindness prevents our species to see the danger – and the crossroad – in front of which is it faced by this weapons of mass destruction?
Simple arithmetic would suffice to figure out that this situation will eventually lead to a catastrophe with no return: in 1945 there was only one country in possession of the atomic weapon and, as soon as the first nuclear device was ready, it was immediately used on civilian targets – also to test the destructive potential of it (see also Aa.Vv., Hiroshima’s Shadow, The Pamphleteer’s Press, Stony Creek, Connecticut 1998). In 1949, just four years later, the countries holding this criminal weapon became two: a monocratic dictatorship and a plutocracy. After a little more than 60 years, at least 10 countries have their hands over these weapons of global destruction (not counting those in “nuclear sharing” or including other nonsenses such as chemical and biological weapons produced by the talent of our age of “triumphant calamity”). This arithmetic of terror and madness which, however, does not seem to have much influence on contemporary society, catastrophically busy with his games and fictions, makes you wonder about the deep state of hallucinogenic madness of the contemporary man. Who, if not someone in a deep state of numbness, could not care about the biggest danger looming over his head? Are this people awake or asleep? And what dreams do they have? The happy many dream of thoughtless happiness while others, building more and more powerful weapons of total annihilation, prepare for their final nightmare. Today, it is the first duty of every thinking individual to try, as much as he can, to wake up his fellows to the immense self-destructive trap that modern man has created for himself. There is no greater call in our time. Thank you.

(Text of the speech The Dormants and the Atomic Bomb delivered on October 11, 2014 by Sergio Caldarella at The Group for Global Peace and Understanding in New York City).

 (Italian version)

I dormienti e la bomba atomica

Da un punto di vista epistemologico, l’uomo contemporaneo non è poi troppo lontano da certe mitologie primitive, in quanto, anche nella nostra epoca di “trionfante sventura”, si continua a spacciare quel poco che sappiamo per la totalità del sapere. Si finisce così per ignorare, deliberatamente o meno, che larga parte delle nostre tanto decantate scienze sono magre imitazioni meccaniche della natura.
La hybris dell’uomo che domina l’elettricità non è così lontana da quella dell’uomo che domina i campi con l’aratro: è soltanto una hybris potenziata dall’energia che alimenta il mezzo meccanico, tutto qui. Certo, la hybris di un uomo che ha sbirciato la superficie dei segreti del microcosmo conferisce al suo ego una sproporzione tale da farlo sentire il dominatore dell’universo – già si sentiva tale quando usava a malapena il gladio e la lancia per sottomettere altri, figuriamoci adesso che ha imparato come separare certi nuclei atomici. In realtà, quello che la conoscenza manipolativa di certi meccanismi atomici conferisce davvero a quest’uomo è il potere di far saltare mille volte per aria il pianeta che l’ha generato; una conoscenza che ad altro non serve se non ad aumentare la terrificante pazzia dell’homo novus. Senza timore di esagerazione, questa situazione potrebbe anche venir raffrontata a quella di un tizio che entri in una sala piena di gente, con una granata in tasca, e si creda forte e potente perché ha in suo potere la possibilità, evidente ed effettiva, di far saltare tutti per aria. Chi non esiterebbe a dichiarar folle un tale individuo? Eppure, se estendiamo questo discorso a quelli che detengono il controllo sui pulsanti e le leve per mandare per aria il pianeta intero (ed a coloro che gli forniscono e mantengono questi pulsanti), la gran parte di coloro ai quali si ponesse la domanda se dichiararli fuori di mente, esiterebbe di fronte ad una tale asserzione, adducendo tutta una serie di argomentazioni che, per come gli è stato spiegato, legittimano e giustificano questi meccanismi di potere che si servono di deterrenti distruttivi dalla potenzialità criminale. È forse il meccanismo della doppia morale (Quod licet Iovi, non licet bovi; uccidere è sbagliato, ma uccidere in nome della Patria è giusto, mentire è sbagliato, ma mentire per il bene del Paese è giusto) a rappresentare una sorta di giustificazione all’esistenza ed al mantenimento criminale di armi di distruzione di massa capaci di condurre all’estinzione l’umanità intera? Ma se tali strumenti di morte sono in grado di estinguere la nostra specie, che senso potrebbe mai avere, anche in questo caso, appellarsi al vecchio meccanismo della doppia morale per giustificare l’esistenza di armi che porterebbero all’azzeramento di tutti i contendenti? Quale perversa cecità impedisce alla nostra specie di vedere il pericolo – ed il bivio – di fronte al quale si trova ormai da tempo?
Basterebbe la semplice aritmetica per capire che questa situazione porterà ad una catastrofe senza ritorno: nel 1945 c’era un solo Paese a possedere l’atomica e, non appena l’ebbe, ne fece uso immediato su obiettivi civili anche per testarne il potenziale distruttivo (cfr. Aa.Vv., Hiroshima’s Shadow, The Pamphleteer’s Press, Stony Creek, Connecticut 1998). Nel 1949, appena quattro anni dopo, i Paesi in possesso di quest’arma criminale divennero due: una dittatura monocratica ed una plutocrazia. Dopo poco più di 60 anni, almeno 10 Paesi dispongono di questo strumento (senza considerare quelli in “condivisione nucleare”, né includendo altre mirabili assurdità quali armi chimiche e biologiche prodotte dall’ingegno dell’epoca di “trionfante sventura”): un’aritmetica del terrore e della follia che, però, sembra non abbia ormai quasi nessuna presa o riverbero sulla società contemporanea catastroficamente intenta nel suo andirivieni e nei suoi giochi. Viene da chiedersi: ma che gente è mai questa che non si cura del più grande pericolo che incombe sulle loro teste? Sono vegli o sonnambuli?


(© Sergio Caldarella, 2014)



Wednesday, October 1, 2014

La morte di Bruno Schulz

La morte di Bruno Schulz
Considerazioni sullo svuotamento del mondo



            La sera del 19 novembre 1942 lo scrittore Bruno Schulz tornava a casa stringendo a sé un tozzo di pane di segale che avrebbe consumato come misera cena quando l’ufficiale della Gestapo Karl Günther, il quale lo aspettava nell’ombra, lo fermò e, per vile ritorsione verso il suo collega nazista Felix Landau, lo uccise con un colpo di pistola alla nuca, motivando così il suo gesto: «Du tötetest meinen Juden – ich tötete deinen, Tu hai ucciso il mio giudeo ed io ho ucciso il tuo»! Con queste parole, crudeli e odiose, si è brutalmente conclusa, tra le strade del quartiere ebraico di Drohobycz, nella Galizia orientale, l’avventura umana di questo magnifico artista e scrittore sovente accostato a Franz Kafka e descritto dal suo amico Witold Gombrowicz, l’autore di Ferdydurke (1938), come «un espulso dalla vita, uno che sguscia furtivo, sul margine».[1] In un mondo ingiusto i giusti vengono esiliati e uccisi, per questo la morte di Bruno Schulz è un simbolo, una tra le innumerevoli prove dell’ingiustizia delle ramificazioni di una realtà ingiustificabile e del conseguente svuotamento di senso del mondo causato dall’arbitrarietà del male e della complicità degli uomini con esso.

            Il nazista Karl Günther, uno tra gl’innumerevoli mediocri esecutori di uno smisurato piano criminale, uccide Bruno Schulz per capriccio, tanto per fare un dispetto al suo collega anch’egli omicida, anch’egli facente parte delle orde che da sempre aborriscono la luce. Il nazista Günther, coerentemente al perverso sistema ideologico cui aderisce, non crede di spegnere la vita di un uomo, ma di rompere un giocattolo e colui che si inginocchia, stremato, dinanzi alla canna della pistola è, ai suoi occhi, a malapena un fantoccio di paglia, una sorta di automa senz’anima – poco più o poco meno di un oggetto da distruggere per far dispetto al “compagnetto cattivo” che ha, a sua volta, rotto il suo giocattolo. Quest’inaridimento dell’umano che trova casa nel potere totalitario è capace di invertire il mondo trasformando i mostri in individui saldamente al comando e gli uomini in risibili balocchi che è possibile schiacciare secondo volontà e arbitrio del carnefice con la legittimazione intera del sistema. A Karl Günther non importa nulla della grandezza spirituale di Bruno Schulz, egli vive in un micromondo in cui nulla conta se non la bieca sopravvivenza trovandosi, così, in un’assoluta distanza dall’universo di senso di cui Bruno Schulz è araldo. A cosa potrebbero del resto servire la ragione o il bello contro la violenza dei bruti? Questo mondo – o “micromondo”, perché la malvagità è sempre micragnosa, piccola e mediocre, incapace di alcun orizzonte che non sia limitato ai confini di un io microbico e schiacciato dalla temporalità – soggiogato dal potere dei malvagi sembra allora insegnare la lectio terribilis secondo cui, a parità di condizioni, è sempre quello con la rivoltella ad avere la meglio e, in ultima analisi, che le sole verità del mondo siano quelle dell’indifferenza e della clava, marginali semplificazioni verso il minimo comun denominatore della barbarie. Il nazismo sancisce, definitivamente ed a dispetto di qualunque altro ideale presentato dalla storia, la tesi da non prendere alla leggera secondo cui la differenza tra uomo e uomo non consiste nelle differenze tra sensibilità, umanità e conoscenza, ma è data dal lato della pistola, del gruppo o del clan in cui ci si viene a trovare per una serie di accidenti storico-sociali. Il mondo emerge, allora, appiattito e abbrutito da questi nuovi empi paradigmi della modernità.
Ne Le botteghe color cannella (Sklepy cynamonowe, 1934), Bruno Schulz scriveva di una realtà la quale possiede lo spessore della carta: «Quella realtà è sottile come carta e da tutti i pori tradisce il suo carattere imitativo» (La via dei coccodrilli), ma questo spessore diafano del cosiddetto “reale”, sottile al limite della trasparenza assoluta, quest’instabilità così sfuggente e difficile da descrivere per colui che pensa, spesso, troppo spesso, distrugge e uccide proprio colui che su quest’enigma s’interroga rispetto a coloro i quali si limitano, con diabolica naturalezza, a stare sempre dal lato di colui che impugna la clava.

La storia pare insegni che il mestiere intellettuale autentico, arte sorretta a malapena da penna e inchiostro che avviene, sovente, nel silenzio di oscuri scantinati, è uno tra i più pericolosi possibili. Le vicende delle società umane organizzate sembrano drammaticamente costellate da racconti di esilio, incriminazione, imprigionamento, discriminazione ed eliminazione fisica dei grandi rappresentanti della tradizione culturale e nell’ecatombe di morti causate dal delirio nazifascista, la fine di Bruno Schulz è, insieme a quelle di Erich Mühsam, Walter Benjamin, Edith Stein, Kurt Grelling o Dietrich Bonhoeffer, tra le più eclatanti e gravide di conseguenze per le incompiute intellettuali che tali scomparse hanno lasciato. La distruzione che il nazifascismo ha portato sull’Europa dello scorso secolo rende impossibile valutare la gravità delle perdite culturali imposte all’umanità sotto il tallone di quella barbarie il cui strascico si protrae ancora avendo prodotto, tra le tante conseguenze, una frattura culturale nell’epoca contemporanea della cui portata è arduo render conto appieno. Si può vagamente provare ad immaginare quali privazioni avrebbe subito la cultura del Novecento se, nell’Ottocento, le vite di Kierkegaard, Karl Marx, Schopenhauer o Nietzsche fossero state annientate agli inizi del loro lavoro intellettuale.[2] Il delirio totalitario che, nel Novecento, ha sconvolto l’Occidente e l’Oriente ha causato una tale distruzione in quasi ogni area della cultura che produce, ancora oggi, quel clima d’inconsistenza e manipolazione utilitaria della conoscenza di cui il mondo globalizzato è preda. Non soltanto paghiamo ancora le conseguenze dell’operato di tiranni quali Hitler, Stalin e dei loro seguaci e sostenitori, ma quell’annientamento culturale da loro avviato sta sempre più inaridendo il preziosissimo albero della cultura e della conoscenza a favore di una gramigna pseudoculturale, profondamente e pervicacemente avversa alla cultura e all’intelletto autentici. Noi non sapremo mai come si sarebbe potuta evolvere la società contemporanea senza la distruzione culturale avvenuta partendo dall’ecatombe di vite umane della Prima Guerra Mondiale e seguita dall’attacco agli intellettuali scientemente perpetrato dai nazifascisti e dai Soviet. La contemporanea banalizzazione della cultura ed il suo svilimento accademico – ossia la marginalizzazione della cultura rispetto alle attività della vita activa – sono oggi possibili anche a causa della perdita della tradizione culturale e delle visioni del mondo che questi intellettuali incarnavano ed avrebbero potuto trasmettere se non fossero stati brutalmente eliminati ed il loro posto usurpato da individui variamente asserviti al meccanismo di dominio contemporaneo. Anche in questo consiste la vittoria postuma del nazifascismo cui accennava Jean Améry.

Senso e consenso

Nei sistemi totalitari, il senso del mondo non è che consenso, per questo è sempre pericoloso invocare una presunta relatività o soggettività del significato contro la sua oggettività, poiché l’accordo che gli uomini possono stabilire contro la verità, e il conseguente rivolgimento del mondo che essi impongono sulla base di un delirio collettivo, ha sempre conseguenze fatali. Etichettare secondo necessità politica “democratici” alcuni e rigettare altri come “anti-democratici”, poiché non rispondono o non sono confacenti a quella stessa esigenza politica, è non soltanto un’attività demagogica ma, ancor prima, un attacco grave e diretto all’oggettività del significato. Chi difende l’oggettività del significato difende anche la giustizia tra gli uomini.
In un contesto variamente determinato dal potere, l’umanità dell’uomo non ha più alcun peso oltre i canoni e gli artifizi stabiliti da un determinato sistema di controllo: se si è fuori da quei criteri, di qualunque tipo, allora si è già morti ancor prima di esserlo; l’esistenza sfuma, svanisce lentamente e, alla fine, colui che uccide – il nazista Günther nel caso di Bruno Schulz, ma è un carnefice che bisogna moltiplicare per milioni di esseri umani trucidati – può farlo con la stessa indifferenza con cui si può rompere un oggetto o gettare una cartaccia nel cestino dei rifiuti. Questo è il cuore più tetro e assoluto della barbarie.
Il potere possiede molteplici mezzi per far credere che ogni suo capriccio sia sempre legittimo[3] e così il vicino, o il commerciante che il giorno prima sorrideva gentile, diventa, d’un tratto, il primo delatore, associandosi lieto alla congiura che per lui è appena un grande gioco in cui, questa volta, detiene i bussolotti per decidere della vita o della morte di qualcuno, un piccolo potere per piccoli uomini. È avvenuto nella Germania nazista, nella Russia dei Soviet o nell’America di Edward J. Hart e Joseph McCarthy, ma è anche avvenuto nell’antica Grecia ed a Roma o in imperi ancora più remoti ed avviene ancora oggi sotto le forme che il potere consente, poiché se gli uomini non fossero posti nella condizione di nemici tra loro, comincerebbero magari ad intendere chi è, da millenni, il loro autentico nemico.
Il poeta e scrittore Varlam Šalamov, uno zek,[4] un sopravvissuto ai Gulag che, anche dopo esserne stato liberato, distrussero ogni sua speranza e possibilità ad una vita normale, un uomo che amava profondamente i libri ma non potè mai possedere una propria biblioteca,[5] scriveva: «l’essenziale non è qui, ma nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere». Vittima di questo slittamento della realtà nella corruzione che solo l’assurdo sa imporle, gli uomini iniziano a provare quest’annullamento sulle proprie carni, a sentirsi davvero come delle cose, corpus sine anima, esseri umani non più ammessi alla comunità degli “uomini”, iniziando seriamente a dubitare di se stessi e arrivando, a volte, anche a convincersi che siano i carnefici i veri dominatori del mondo. Questa è l’ultima sopraffazione che il carnefice sa imporre alle proprie vittime e chi ha sperimentato sulla propria pelle l’ingiustizia e la crudeltà sa quanto sia facile arrivare persino a credere nelle brutali illusioni del carnefice.
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Blaise Pascal, in una tra le più note espressioni dei Pensées, affermava che l’uomo è sì simile ad una canna sbattuta dal vento, ma è una canna pensante: L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature; mais c’est un roseau pensant (347). Il matematico e filosofo francese ben capiva che l’essere umano è una creatura sbattuta delle intemperie, ma immaginava tale creatura come capace di opporre questo qualcosa chiamato “pensiero” al rigido trascorrere delle forze cieche del mondo. È legittimamente possibile dubitare della suggestiva metafora della canna pensante, poiché nessuno può dirsi certo che la vita non si possa, invece, associare a ben altre metafore come, per fare un solo esempio, quella di una zattera senza timone né vele. La vita potrebbe anche non essere quel luogo luminoso in cui il pensiero, come sperato da Pascal, sia davvero capace di offrire una qualche resistenza al mondo; potrebbe anche essere la conseguenza di un naufragio, il lento scivolare, lo sprofondare dell’anima dentro una realtà fatta di oggetti e desideri materiali come sembra insegni gravemente proprio la modernità. La zattera non è un’imbarcazione completamente alla deriva, poiché all’uomo è dato di gettarsi in acqua e impegnare le sue forze nel provare a spingere e dirigere l’insieme di assi e cordami cui è aggrappato, oppure applicare il proprio ingegno nel costruire una vela o quant’altro, ma la zattera resta sempre prigioniera del mare, subendone moti e capricci e, di fronte ad una tempesta, diversamente da quanto propone Pascal, qualunque forza umana è una trascurabile resistenza che gli eventi possono annichilire in qualunque momento, così com’è avvenuto per le tante ingiuste morti di grandissimi pensatori annientati dal volgare capriccio del primo violento di turno: tutto il loro pensiero non è stato in grado di salvarli poiché, quando la storia decide di assumere le nere vesti del delirio, nessuna ragione si può opporre a quella marea. In questo la Shoah rappresenta anche la conseguenza più spaventosa della frattura tra uomo ed uomo ed è una frattura che non si riconcilia nel presente, ma segna il tempo come una ferita che si estende dalla storia passata a quella presente e futura. Auschwitz e la Shoah – un asse sanguinolento conficcato nel tempo – non possono essere interamente “pensati” perché il pensiero è, nella sua essenza, qualcosa di profondamente umano, mentre Auschwitz è l’esatto contrario. È proprio la radicale assenza di umanità di Auschwitz a renderlo un luogo (o un non-luogo) inarrivabile al pensiero.

Ritornando alla frase sprezzante del nazista Günther, l’immaginazione porta quasi a “vedere” l’inerme Bruno Schulz, quest’ometto “dalla testa enorme” che si inginocchia, ormai stanco, ai piedi di quel mostro criminale e aspetta, in silenzio, che pochi grammi di piombo ne violino il cranio. Nel gesto di Schulz, nell’infinita rassegnazione di fronte al carnefice, sentimento che lo accomuna a milioni di altre vittime in ogni epoca storica, c’è qualcosa che va ben oltre i fatti narrati. Se Bruno Schulz tace e si inginocchia senza resistenza davanti al suo aguzzino, è perché davvero non ha più nulla da dire a questo mondo; nella realtà in cui vive le parole non servono più, almeno non quelle di un uomo di arti e lettere per il quale la parola è un mezzo che l’anima impiega per provare a comprendere il mondo e se stessa e non l’ancella del delirio o dell’interesse com’è, invece, per i nazisti e per gli innumerevoli altri. Nella sua remissività, così come nel silenzio di ogni altra vittima, c’è tutta la risposta possibile ad un mondo bieco, cieco e incapace di trovare modi di essere che vadano oltre la brutalità della forza e dello sfruttamento. Un mondo che, scacciando il pensiero, spalanca inevitabilmente la porta alla brutalità ed all’orrore.

Quattro grandi tradizioni sulla teodicea si affiancano nell’ebraismo: una cerca di spiegarsi le complesse ragioni del male e della sofferenza (il Libro di Giobbe ne è il capostipite), l’altra le attribuisce all’uomo («i disegni del cuore dell’uomo, fin dalla sua infanzia, hanno per scopo il male [Gen. 8:21), mentre la sua consorella, cui il cristianesimo cattolico è profondamente debitore, situa le ragioni del bene e del male al di là delle nubi terrene («Nella stessa maniera in cui i giusti sono premiati nell’aldilà anche per i loro minimi meriti, così lo sono i malvagi in questo mondo» Talmud Babli, Taanit, 14a) e l’ultima, la più filosofica tra queste correnti, ritiene che non vi sia spiegazione alcuna al male: il male accade, è un figlio dei fatti e questi possono essere forse ricostruiti, intesi, analizzati, ma la spiegazione, l’analisi esaustiva capace di render giustizia, è qualcosa che oltrepassa le nostre capacità umane, ed il male, così come l’Onnipotente, non può essere soggetto ad interpretazione/spiegazione alcuna. Coloro che appartengono a quest’ultima linea di pensiero ritengono che non sia possibile alcuna spiegazione teologicamente o filosoficamente accettabile sulla Shoah, perché ogni tentativo di interpretazione taglia, riduce, seziona e, alla fine, frammenta l’insieme per riunirlo in un tessuto “comprensibile” e, così facendo, ne sminuzza persino la (o le) verità – un evento è unico mentre le spiegazioni di questo sono e possono essere sempre molteplici. Ogni spiegazione seziona le parti per renderle pertinenti, confacenti all’insieme concettuale che ha organizzato, e, in sostanza, annienta quell’unità di senso che era propria dell’evento nella sua interezza. Non abbiamo bisogno di alcuna spiegazione di fronte a Bruno Schulz – ed agli altri milioni spesso senza nome – inginocchiato davanti alla canna di una luger. L’uomo sensibile e attento alla sofferenza degli altri e del mondo già sente, nella descrizione di questo terribile attimo, tutto il dolore e l’abbandono di queste morti e intende senza bisogno di alcuna spiegazione: ecco perché la Shoah pesa sulle coscienze degli uomini buoni, ossia coloro che non hanno ancora interamente abdicato ai ciechi dettami del mondo.
Negli umani eventi non tutto può essere posto nei termini della spiegazione, altrimenti non sapremmo perché, a volte, i carnefici accompagnano le vittime fino al loro ultimo giorno e perché non tutte le vittime del nazismo siano morte nei campi di concentramento o ai tempi del terrore bruno; molti di loro sono sopravvissuti ad Hitler per morire di quello strascico di pena che la barbarie aveva tatuato nei loro cuori. Tra i più noti il filosofo Jean Améry, lo psicologo Bruno Bettelheim, il poeta Paul Celan e gli scrittori Tadeusz Borowski o Primo Levi; tutti sopravvissuti ai campi di sterminio, si sono tolti la vita molto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale: la spaventosa realtà dei carnefici era entrata con talmente tanta forza nelle loro vite, nei loro sogni e nelle loro anime, conducendoli verso il rifiuto supremo di quella vita che i boia non erano riusciti a sottrargli nei campi.[6] È pesante notare che due autori come Jean Améry e Primo Levi, che erano anche stati compagni di baracca ad Auschwitz ma il cui approccio all’analisi ed al ricordo dei campi differisce profondamente, abbiano invece trovato, nel suicidio, una “soluzione” univoca.
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Qualunque spiegazione è una sorta di traslazione dell’esperienza, per questo, forse, Primo Levi si limitava a descrivere i campi di sterminio con la loro fauna umana aggiungendo ben poco (un atteggiamento affine avranno, poi, anche Aleksandr Solženitsyn o Varlam Šalamov rispetto ai Gulag sovietici) e in queste descrizioni ridotte all’essenziale c’è tutto il senso e il dolore della ferita offerta ancora dolente: «Chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa».[7] L’esperienza dell’ingiustizia e delle atrocità naziste è un annientamento in sé e per sé e sarebbe ingenuo ritenere che tale annichilimento sia esclusiva prerogativa delle vittime. Socrate affermava: «è meglio subire un danno che infliggerlo» (Crit. 49a), massima che riecheggia nel detto rabbinico secondo cui «Soffrire ingiustamente è meglio che agire ingiustamente». Anche se in modi ardui da comprendere per chi non abbia familiarità con la filosofia socratica, il carnefice stesso distrugge qualcosa di sé commettendo le atrocità di cui si macchia: si può del resto immaginare un uomo meno umano di Hitler? Un individuo che non sembrava altro se non il fantoccio di un fantoccio. Un fanatico guidato da una luce maligna, un corpo dove non sembrava abitare nulla al di là di un gesticolante delirio abbracciato ad un’inestinguibile fucina d’odio e di rabbia calcolante. Hitler non fu un pazzo «fu un uomo lucidissimo (…) che uccise consapevolmente la legge, la morale, la pietà, la Germania e alla fine anche se stesso. (…) La violenza dominava pienamente il suo animo. Dal punto di vista spirituale era vuoto, morto, un cuore di tenebra. Per questo nessuno riuscì mai a penetrare veramente nel suo animo» (M. Innocenti). Sostanzialmente egli era uno sconfitto, un fallito, un necrofilo capace di rispondere alla vita soltanto attraverso l’odio e la morte. Eppure, questa sua infinita distanza da quanto vi è di più profondamente umano non gli impedì di ottenere il consenso entusiasta degli uomini e anche questa è una dura lezione. È in molti modi indicativo il fatto che il male abbia una tale potenza nei confini del mondo.
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La vittima testimonia sì della debolezza del bene nel mondo, mentre il carnefice, un debole nello spirito, è forte dell’indubitabile forza del male e della sua continua aspirazione alla potenza della materia: «non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio».[8] Gesù e Socrate, figure emblematiche del rigetto della potenza materiale, si abbandonano all’abbraccio di una morte crudele e ingiusta, impartendo una lezione che ancora oggi illumina le vie degli uomini buoni.
Come già spiegava e insegnava Platone, tutti i tiranni ed i carnefici sono necessariamente uomini vuoti e per questo bisogna massimamente temere una società che svuota gli uomini dei significati propri della vita umana (fatti non foste a viver come bruti...) per sostituirli con balocchi e con i dettami dei forti: «La dottrina socratica secondo cui conoscere il bene è volerlo, e il peccato si identifica con l’ignoranza, è valida se per conoscere si intende dare ascolto a ciò che si conosce, e per ignoranza l’ignoranza voluta. Stando così le cose, allora, se non tutti i pazzi sono dei furfanti, tutti i furfanti sono dei pazzi».[9] Per questo il compito di chi vuole il bene è, soprattutto, quello di opporsi al vuoto culturale e spirituale. Come non ricordare, allora, il Processo di Norimberga prima e il processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann dopo ed alle assurde, inconcepibili difese alle quali si rifacevano i vari gerarchi dichiarando di non aver fatto altro che obbedire ad un Führerbefehl, un ordine del Führer?[10] Il male di cui i condannati di Norimberga o Eichmann sono gli ennesimi esecutori non è per nulla il prodotto di una “banalità” concettuale, come vorrebbero alcuni,[11] ma una sorta di vuoto ontologico-esistenziale che il bene lascia nel mondo.[12] Questo “vuoto”, nel mondo, è anche l’arena della libera scelta in cui molti proiettano hybris e paralogismi di ogni genere. In questo vacuum operano a loro agio il malvagio e il carnefice, proiettandovi un altro vuoto, quello delle loro anime. Karl Kraus, genialmente, iniziava Die Dritte Walpurgisnacht scrivendo: «Mir fällt zu Hitler nichts ein, A proposito di Hitler non mi viene in mente nulla»; il vuoto del male a cui non può rispondere nessuna parola.
Hitler non è però soltanto un’ignominia tedesca e ridurre la questione della Shoah ad un fatto che interessa soltanto il popolo ebraico ed il popolo tedesco è un comodo riduzionismo che impedisce di approfondire le radici e le conseguenze concettuali di questa tragedia. Il vuoto del male di cui Hitler è una tra le più tragiche manifestazioni è anche il vuoto della modernità incapace di offrire una realtà diversa dalla sua reificazione mercantile. Andando ancora oltre si dovrebbe tornare a quelle antiche questioni fondamentali, e ancora irrisolte, sulla malattia della polis. La cura alla malattia della polis può provenire dalla cultura e dalle arti che fioriscono dal rapporto tra uomini umani, quel dialogo che Socrate, non a caso, identificava con il “sommo bene” (τό διαλέγησθαι εστί τό μήγιστον αγαθόν). Ma chi mai dovrebbe affrontare questi temi? La cultura ufficiale soggiogata e storpiata dalla malattia della polis? La politica o l’economia che di questa malattia sono figlie e prodotto? La modernità, deliberatamente ignorando e mettendo da parte la tradizione culturale del passato, è stata capace di creare il proprio vicolo cieco e mortale di cui, incoscientemente, non si cura: «Nati in anni sordi / la nostra vita non ricordiamo».[13]
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Quella di stare dalla parte dei deboli e contro l’anima storpia degli ingiusti è, dalle origini della storia, una prerogativa delle anime nobili, forti e profonde: «L’uomo profondo (junzi, 君子) comprende ciò che è morale. Il piccolo uomo (xiaoren) intende solo ciò da cui può trarre profitto» (Lunyu, 4:16). In uno dei suoi racconti Isaac B. Singer osserva: «Stando ai suoi diari, Napoleone, che aveva mandato milioni di uomini a morire, protestava amaramente sull’isola di Sant’Elena perché non gli davano da mangiare in maniera decente e non veniva accudito come si conviene. L’individuo morale protesta non solo quando subisce personalmente un torto, ma anche quando assiste alle sofferenze altrui oppure vi pensa».[14] Il piccolo uomo protesta solo per sé perché gli hanno astutamente insegnato che il cosmo inizia e finisce sui confini del suo minuscolo ego e così facendo, come insegnava anche Boezio, trascorre la sua esistenza nella mera insostanzialità e nell’indifferenza trovandosi sempre pronto a qualunque compromesso, espediente e bassezza per difendere gli angusti confini della propria prigione. L’ego è l’ultima ritirata possibile.

Socrate, com’è ben noto, era un fiero avversario dei Sofisti poiché, tra le tante cose, la loro dottrina insegnava che «il criterio di scelta delle nostre azioni è l’utile» e, da questo presupposto, ne consegue che «è facile (perché spesso vantaggioso) commettere ingiustizie». Il presunto utile individuale si configura, così, come un avversario della giustizia poiché, come ben spiega Socrate, quando gli uomini non conoscono il bene, allora non conoscono neppure l’utile autentico confondendolo con tutta una serie di illusioni nella caverna del mondo. Che dire, allora, di una società come quella contemporanea, dove l’utile, la sopravvivenza e la sopraffazione, magari travestiti dalla scialba veste della competizione tra uomo e uomo, sembrano essere le uniche ragioni del mondo ormai ammesse?

Quando Giordano Bruno pronunciò la nota frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam, Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla» mostrava di trovarsi, purtuttavia, di fronte ad un tribunale il quale, nonostante la mostruosa condanna che impartiva, aveva coscienza del senso della storia ed a questo si appellava, implicitamente, la frase del Nolano. Una frase come questa non avrebbe avuto alcun senso né alcun peso di fronte ad uno qualunque dei tribunali presieduti da Roland Freisler, l’infame presidente del Volksgerichtshof nazista che, in pochi anni di attività, condannò oltre 5000 persone a delle morti crudeli e ingiuste. Molti degli oltre 500 membri di quel “tribunale” nazista presieduto da Freisler, grazie ad una serie di argomentazioni legalistiche, rimasero ancora in servizio a pieno diritto anche dopo la guerra nel sistema giuridico della Repubblica Federale Tedesca, per questo la frase di Bruno non avrebbe alcun senso nel contesto della modernità. Nessuno tra gli aguzzini del Novecento ha davvero temuto la storia né ha tremato di fronte ai crimini inimmaginabili di cui si sono resi colpevoli. Anche a questo serviva un tempo la storia, a far tremare l’arroganza del carnefice, ma senza la cultura autentica su cui si sorregge il senso della storia, il carnefice ha oggi le mani ancora più libere. La storia deve necessariamente contenere, nei suoi recessi, anche la giustizia, perché altrimenti il crimine sarebbe mortale come lo è il criminale e l’ingiustizia mortale come lo è l’ingiusto.

(Sergio Caldarella, La morte di Bruno Schulz. Considerazioni sullo svuotamento del mondo, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 189, Firenze 2014)





[1] Witold Gombrowicz aveva anche descritto Schulz come uno «gnomo, minuscolo, dalla testa enorme quasi troppo spaurito per avere il coraggio di esistere», descrizione di cui farà uso anche la traduttrice inglese di Sanatorium, quando, nella prefazione, scrive: «He was small, unattractive and sickly, with a thin angular body and brown, deep-set eyes in a pole triangular face», mentre Calvino parlerà di «vita appartata e oscura morte» di Bruno Sculz. La pubblicazione del libro di David Grossman, Vedi alla voce: amore (1986), Il Messia di Stoccolma (1987) di Cynthia Ozick o Un uomo che forse si chiamava Schulz (1998) di Ugo Riccarelli, sono alcuni tra i recenti contributi alla memoria di Bruno Schulz.
[2] È d’uopo ricordare che siamo andati pericolosamente vicini alla perdita di queste grandi produzioni dell’intelletto e questi pensatori riuscirono a creare le loro opere poiché, per ragioni diverse da caso a caso, erano riusciti a procurarsi una certa indipendenza economica che consentì loro di realizzare comunque il loro lavoro seppur privi di alcun sostegno o simpatie accademiche. Il fatto che alcune tra le più grandi filosofie dell’Ottocento abbiano, anzi, radici esterne e spesso avverse all’accademia ed alla cultura ufficiale dovrebbe, quantomeno, indurre ad una riflessione sulla validità ed i contenuti di questo sistema e sui tanti e preoccupanti elementi anticulturali che continua a perpetrare ed imporre attraverso un meccanismo di vidimazioni in cui i nemici più vili e beceri della cultura, quelli che vogliono essere “sapienti” da soli, vengono spacciati come i detentori della cultura ed il pensiero soggiogato ai meccanismi dell’economia mercantile e del potere. Cfr. in proposito S. Caldarella, La Società del Contrario, Zambon 2005.
[3]  Per questo l’arbitrarietà - Pasolini avrebbe detto l’anarchia - del potere è già nella legittimità che si riconosce a chi lo detiene ed esercita.
[4] Dal russo зэк, derivante dalla pronuncia dell’abbreviazione з/к (z/k), indicante la parola заключённый (zaključënnyj) “prigioniero”.
[5] Cfr., in proposito, Varlam Šalamov, I libri della mia vita. Tavola di moltiplicazione per giovani poeti, Ibis, Como 1994.
[6]  Fackenheim parlerà del 614mo precetto come della necessità di sopravvivere per non dare, ad Hitler, una vittoria postuma.
[7]  P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 14.
[8]  E. Cioran, La caduta nel tempo, Adelphi, Milano 1995, p. 10.
[9]  W. H. Auden, La mano del tintore, trad. it. Adelphi, Milano 1999, p. 158.
[10]  Ma sono grotteschi elementi di difesa che si ritrovano in quasi tutti i processi ai nazisti da Stangl a Priebke.
[11] Jean Améry, sopravvissuto alla tortura nazista ed ai campi, osservava in merito: «Non c’è alcuna “banalità del male” e Hanna Arendt, che ha scritto a questo proposito nel suo libro su Eichmann, conosceva il nemico del genere umano solo per sentito dire e lo vide solo attraverso la gabbia di vetro» (Jenseits von Schuld un Sühne. Bewältigungsversuche eines Überwältigten, Essays, Szczesny, München 1966).
[12] Agostino aveva già anticipato una visione del male come di una privatio boni (De Civ. Dei, XI, 22).
[13] V. Šalamov, I racconti di Kolyma, trad. it. Einaudi, Torino, 1999.
[14] I. B. Singer, Ricerca e perdizione, Guanda, Parma 2002, p. 45.