Saturday, July 27, 2019

Spunti per un profilo psicologico dell’antisemita di sinistra.

La modernità, in sé già foriera di disagio psicologico, culturale ed esistenziale, offre un largo numero di profili e individualità di difficile interpretazione ma, tra questi, la figura dell’antisemita rappresenta, ancor’oggi, una tra le personalità dalla più ardua interpretazione. Di fronte a questa figura, il primo grande problema è di poter riuscire ad ottenere un’identificazione propria, giacché l’antisemita non possiede davvero una precisa collocazione sociale, economica, culturale o persino politica, con la quale possa venire necessariamente identificato una volta per tutte. L’antisemita può trovarsi in qualunque contesto, anche il più insospettato, può essere l’affaccendato droghiere sotto casa, il benzinaio, l’operaio, ma anche l’avvocato di grido, il piccolo editore, l’onorevole, il medico – vedi, in proposito, il recente caso (3 genn. 2019) di Lara Kollab, un medico di Cleveland, la quale ha dichiarato di non aver problemi a prescrivere dei farmaci errati a persone di origine ebraica![1]

Si potrebbe dire che un individuo il quale s’identifichi con l’ideologia fascista o postfascista debba, di conseguenza, avere anche una certa propensione antisemita, ma questo non è implicitamente vero, né necessario – tra l’altro, un qualsivoglia neofascista che abbia qualche reminiscenza scolastica dovrebbe ricordare che l’antisemitismo fascista è stato, storicamente, un elemento aggiunto a quella dottrina già di per sé infausta.[2] Dirsi inoltre «liberali», o «di sinistra», non implica, quantomeno oggi, che coloro i quali si identificano in tali ideologie siano necessariamente contrari all’antisemitismo. Si assiste, anzi, ad un fenomeno, sconcertante e preoccupante, secondo cui la probabilità di trovare un antisemita militante a sinistra è ormai pressoché uguale, se non maggiore, a quella d’incontrarlo in un contesto di destra! Sotto quest’aspetto, la differenza tra antisemitismo di destra o di sinistra si riduce al fatto che, per i primi, l’oggetto dell’odio irrazionale è ancora l’astratta figura dell’ebreo (Der ewige Jude, l’ebreo eterno, come si esprimeva la propaganda razziale del nazionalsocialismo), mentre per gli altri l’odio s’indirizza verso una conveniente traslazione: il «sionista» o lo «Stato d’Israele» e la sua politica difensiva – si mettono tali termini tra virgolette perché tra il Sionismo come movimento politico reale ed il sionismo sulla bocca dei suoi detrattori vi è una distanza a dir poco antipode e lo stesso può dirsi della visione che costoro propongono delle politiche difensive dello Stato d’Israele, ossia l’unico Stato democratico e di diritto dell’area mediorientale trasformato, nella violenta immaginazione di questi detrattori, in una sorta di Behemoth criminale a beneficio delle loro fantasie e razionalizzazioni da quattro soldi. Sulla base di queste convenienti metamorfosi, e di una pletora di fantasiose rivisitazioni storiche e false notizie ad hoc, l’antisemita di sinistra riesce ad atteggiarsi nel ruolo dell’anima bella, impegnata nella difesa dei diritti dei deboli, contro le obbrobriose attività del «mostro sionista». Quando alla realtà si sostituisce un’immaginazione scatenata ed interessata è persino possibile trasformare Davide in Golia, come ha brillantemente mostrato Joshua Muravchik nel libro Making David into Goliath. How the World Turned Against Israel.[3] A tal proposito, è singolare osservare come la volontà d’indirizzare l’odio contro l’ebreo assuma, storicamente, sempre la forma della traslazione con la quale si costruisce, psicologicamente, la figura di un ebreo immaginario cui attribuire ignominie e malversazioni d’ogni genere.[4] La connotazione psicologica di questa traslazione contro l’ebreo in genere, utilizzando l’ebreo immaginario per giustificare l’odio contro l’ebreo reale (traslazione tipica della mentalità razzista), è evidentissima dall’emergere, in queste accuse, di alcuni topos primordiali – ossia fortemente rispondenti al linguaggio simbolico primario dell’inconscio – correlati al sangue (ad. es., l’accusa immaginaria secondo cui le matzot pasquali ebraiche venivano fatte con il sangue di cristiani), l’omicidio rituale, in particolare di bambini o di vergini, ed altre amenità variamente escogitate secondo tempi e luoghi.
L’elemento chiave è, qui, il fatto che tutte queste invenzioni e fantasiose accuse siano congegnate ad arte attraverso un linguaggio dalle connotazioni fortemente inconsce e posseggano solo una vaga e lontana relazione con il livello cognitivo o intellettuale, sono ossia costruite in un linguaggio attraverso cui, una parte primitiva della coscienza, comunica con livelli coscienti, utilizzando forme e simboli primari psicologicamente carichi e intensi con cui esprimere un fondamentale disagio traslato e, dunque, scaricato, su una figura immaginaria. Un fenomeno molto simile avviene, sul piano religioso (e la religione è un ambito in cui le figure simboliche primarie abbondano), con entità quali demoni, spiriti, folletti, ed altri caratteri immaginari consimili sui quali si possono scaricare pulsioni negative o cercare variamente di ingraziarseli.[5] È qui necessario aggiungere come, proprio a causa di questa traslazione psicologica sia stato possibile, in epoche passate, mettere al rogo delle sventurate solo perché additate, dalla crudele immaginazione dell’epoca, come streghe! La storia mostra dunque come tali traslazioni psicologiche non siano da sottovalutare e possano rapidamente produrre conseguenze tragiche anche su vasta scala.
Nella mente dell’antisemita, o del giudeofobo, l’ebreo, il Sionismo, lo Stato d’Israele, sono entità immaginarie sulle quali riversare delle negatività pulsionali con cui purgare l’inconscio indirizzandole altrove, in altre parole, tutto ciò che è collegato all’ebreo immaginario diventa una sorta di discarica psicologica di contenuti pulsionali rimossi. Al culmine di questo processo di vilificazione si trova l’identificazione della vittima con il carnefice: da qui, ad esempio, la volgare e rivoltante accusa di «nazismo» rivolta ad Israele ed al suo esercito – l’antisemita gongola quando può notare che tale accusa provoca una reazione indignata perché, nella sua testa viziata, egli crede di aver raggiunto un obiettivo mostrando, ancora una volta, come le sue azioni siano indirizzate all’emotività e non alla razionalità. La contemporanea distorsione sofistica della realtà e dei fatti, plasticamente trasformati in una funzione delle opinioni di parte, favorisce la razionalizzazione dell’odio con cui l’antisemita vede se stesso trasformato in un difensore di una giustizia immaginaria. Associando il carnefice alla vittima, oltre a provocare l’insulto finale contro la vittima, chi pone tale assurda relazione, riduce variamente il senso di colpa individuale, secondo la perversa logica giustificativa: se è possibile attribuire alle vittime una crudeltà ed un’efferatezza simili a quelle dei loro carnefici, allora queste non sono (o non erano) più tanto vittime, dunque l’odio verso di loro trova una sorta di giustificazione immaginaria, ossia una razionalizzazione psicologica. Attribuendo, dunque, all’ebreo i tratti del carnefice che lo ha perseguitato, l’antisemita pretende di legittimare il suo odio contro questo e, in ultima analisi, di giustificare se stesso, sostituendo una fobia irrazionale con quella che, ai suoi occhi storti, appare come una forma di limpida razionalità. Qui sembra quasi che la psicologia dell’antisemita contenga un conflitto tra ciò che egli sente e la realtà e, da qui, i tentativi di giustificare l’odio attraverso costruzioni pseudorazionali, revisionismi e calunnie varie. Con la sua solita straordinaria lucidità Franz Kafka aveva intuitivamente colto questo elemento nell’accusa iniziale e centrale cui è sottoposto Josef K., ne Il Processo, il quale era stato calunniato, ed arrestato, senza che egli avesse fatto nulla di male: «Jemand musste Josef K. verleumdet haben, denn ohne dass er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet, Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». L’assenza di un crimine e l’imputazione di cui nessuno conosce il contenuto sono due tratti chiave nel romanzo del grande praghese che ritornano, variamente, nelle iperboliche accuse antisemite nel corso dei diversi secoli.

Difficile, a questo punto, trovare una ragione unica con la quale poter spiegare perché l’antisemita provi questo senso di colpa individuale che lo induce a rivoltare i termini della realtà trasformando una figura reale in una trasposizione immaginaria alterata nel suo contrario; è qui sufficiente far notare che questo fenomeno rappresenta una costante che si manifesta sempre e necessariamente in qualunque interpretazione razzista, ergo irrazionale, della realtà. Oggi, per via dell’ideologizzazione radicale e sofistica delle categorie del vivere moderno e della grande confusione generata sul concetto di razzismo, utilizzato in chiave ideologica o attribuito a, volte, persino a quei discorsi che non piace ascoltare, la distinzione tra legittimità e illegittimità dell’accusa di razzismo viene quasi del tutto ignorata.
Se un discorso parte da presupposti reali e documentabili, anche se l’argomento può non piacerci o viene rigettato emotivamente, non può essere però per questo respinto o etichettato come un discorso discriminatorio ed intollerante, poiché il rigetto dell’evidenza è proprio uno degli elementi cardine del discorso dell’odio, della sofistica o dell’ideologia. Facciamo un esempio con cui provare a chiarire meglio questo difficile punto: nel corso dei tempi, le persone di colore sono state sottoposte ad un’intollerabile violenza e sfruttamento in virtù dell’assunto secondo cui gli individui dalla pelle scura sarebbero «inferiori» a quelli dalla pelle chiara e questa presunta «inferiorità» basterebbe, da sola, a giustificare l’oppressione e la schiavitù. Questa dichiarazione, oltre agli innumerevoli problemi etico-politici che essa comporta, ha il problema aggiuntivo di confliggere, platealmente, contro ogni evidenza! Basta dare oggi un’occhiata alle statistiche sulle varie attività sportive contemporanee, in quasi ogni settore, per accorgersi del fatto che è vero proprio l’esatto contrario della tesi sull’inferiorità; ossia, da una prospettiva sportiva, gli individui di colore godono, in questo stadio dell’evoluzione umana, di un’indubitabile supremazia fisica sulle persone di altre origini! Il razzismo e l’ideologia sono però ciechi all’evidenza e continuano a dichiarare il contrario. Le fantasie razziste di Adolf Hitler in proposito subirono, infatti, un glorioso smacco, il 3 agosto del 1936, durante le Olimpiadi di Monaco, quando l’atleta di colore Jesse Owens vinse l’oro olimpico, battendo sotto gli occhi esterrefatti del dittatore nazista, tutti i campioni detti «ariani».
Questo discorso ha, per molti, un’implicazione difficile da digerire, ossia un razzista non è soltanto chi grida slogan inneggianti all’odio, alla discriminazione ed alla diseguaglianza, ma anche chi si rifiuti di confrontarsi con i fatti ed accettare delle evidenze sul tema che supportino delle tesi per lui psicologicamente sgradevoli, poiché contrarie ai suoi pregiudizi o ai suoi desideri e volontà di potenza. Gli stessi connazionali di Jesse Owens che, negli Stati Uniti, esultavano per la vittoria olimpica, si trovavano, ideologicamente, in sintonia con il dittatore nazista, poiché la segregazione degli individui di colore dovette attendere ancora altri ventotto anni prima che anche agli afroamericani venisse riconosciuta, nella Herrenvolk democracy americana, un’uguaglianza formale con gli altri loro connazionali dalla pelle più chiara. James Q. Whitman, in Hitler’s American Model scrive infatti: «L’America, all’inizio del XX secolo, era la principale giurisdizione razzista nel mondo ed i giuristi nazisti, di conseguenza, erano interessati a guardarvi molto attentamente e furono infine influenzati dalla legge razziale americana».[6]

Il razzismo è sempre un falso paradigma concettuale e, in quanto tale, necessariamente resistente all’evidenza – se accettiamo questo elemento scopriremo anche l’inadeguatezza di un termine come quello di «razzismo» per definire la complessità di tale fenomenologia psicologica.
Tornando alla differenza tra l’ebreo reale e l’ebreo immaginario costruita dalla propaganda antisemita,[7] bisognerebbe qui aggiungere un discorso sull’impossibilità della definizione del concetto di «ebreo» cui l’antisemita ritiene, anche in questo caso, di poter ovviare attraverso l’utilizzo dell’immaginazione. Una vecchia facezia riassume propriamente quest’impostazione ideologica; nel racconto si dice che per l’halakhà, ebreo è chi nasce da madre ebrea, per lo Stato d’Israele ebreo è chiunque dichiari di essere di discendenza ebraica e vi si trasferisca per rimanervi, mentre, per gli antisemiti, ebreo è chiunque dicano loro. Seppur attraverso l’umorismo, questa breve digressione testimonia quell’elemento immaginifico contenuto nei discorsi antisemiti: cosa sono, ad esempio, i Protocolli degli anziani di Sion – o Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts (1899), di Houston Stewart Chamberlain – se non lo scandaloso ed inquietante prodotto di un’immaginazione pericolosamente deviante? L’ebraismo reale, le sue complessità, i suoi tanti discorsi, non soltanto scompare quasi completamente di fronte al furore antisemita, ma ogni argomentazione diventa sostanzialmente irrilevante, poiché nella cerchia degli antisemiti si possono tranquillamente rigettare le evidenze a favore di un’immaginazione condivisa con altri sodali. Lo stesso trattamento di negazione e rigetto dell’evidenza, riservato un tempo soltanto all’ebreo ed all’ebraismo è, oggi, egualmente riservato allo Stato d’Israele reale ed alla sua politica o alle concezioni politiche del Sionismo. Se l’avversione e l’attacco contro l’ebreo sono caratteri tipicamente di destra, l’attacco irrazionale contro qualunque atto d’Israele – anche operazioni di mera autodifesa – o l’identificazione tra Sionismo e dottrine nefaste è ormai uno specioso tratto di sinistra. Non dovrebbe però sfuggire che entrambe i discorsi, da destra o da sinistra, seppur in maniere apparentemente diverse, convergono egualmente contro lo stesso soggetto. Qualche anno fa (2008) un drappello di sapientoni decise di boicottare tout court il Salone del libro di Torino poiché lo Stato d’Israele era stato scelto come ospite d’onore e poco importava se gli autori più rappresentativi presentati dagli editori israeliani fossero degli intellettuali razionalmente critici delle politiche dello Stato d’Israele. Avversando la presenza di quegli editori si stava, in realtà, andando contro il presunto «discorso» che i contestatori apparentemente proponevano ma, posti di fronte al sacro furore della loro crociata, qualunque analisi razionale passò in secondo piano e andarono avanti con il loro strepitare che li faceva sentire così nobili e puri di cuore – nonostante parti significative e rappresentative di quella stessa sinistra si fossero dissociate dal boicottaggio comprendendone l’insensatezza.[8] Nessun argomento storico-razionale e nessuna evidenza possono però intaccare l’armatura sgargiante di questi cavalieretti dalla spada di plastica i quali costruiscono, a tutto spiano, pseudargomenti immaginari attraverso la condivisione ed il rafforzamento psicologico con altri loro compagnetti infervorati da egual consonanza cognitiva. Tutto questo ricorda anche un altro singolare esempio di dissonanza emotiva che si ritrova in maniera esacerbata ed un po’ ovunque nell’epoca contemporanea, ossia il sentimentalismo e la manifestazione di affetto eccessivo verso gli animali domestici associato ad una quasi totale indifferenza per gli esseri umani – in un mondo in cui ancor’oggi oltre 160 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni subiscono malformazioni e altre gravi conseguenze a causa di incultura sociopolitica e di malnutrizione, esiste una parte di questo stesso mondo in cui, nei ricchi supermercati, vi sono file di scaffali contenenti cibi per animali e pochi provano stupore di fronte ad una tale assurda contraddizione. Nel 2015 sono stati pubblicati[9] gli scioccanti risultati di una ricerca secondo cui, alla domanda su cosa avrebbero fatto se avessero dovuto scegliere tra salvare un cane o una persona che si è lanciata di fronte ad un autobus è emerso che, tra i 573 partecipanti allo studio, vi erano molte più persone pronte a salvare l’animale in pericolo rispetto ad un turista straniero e la loro propensione al soccorso aumentava solo in relazione a qualcuno a loro più vicino, parente, amico o concittadino. Si è anche osservata la propensione a salvare il proprio cane rispetto ad un cane ignoto, mentre la probabilità per le donne, nel campione in analisi, di scegliere di salvare un cane rispetto ad una persona, erano di due volte maggiori! Un risultato purtroppo non del tutto sorprendente poiché mostra, ancora una volta, quella dissociazione psicologica entro cui possono germogliare frutti amari ed insalubri.
Quando la logica del mondo si riduce alla bipartizione tra amico-nemico (Freund-Feind),[10] teorizzata politicamente dal giurista nazionalsocialista Carl Schmitt,[11] questa stessa «logica» può facilmente venire convertita in vicino-lontano, oppure nell’equazione io-mondo in cui tutto ciò che mi appartiene ed è vicino rientra nella sfera dell’io e tutto il resto in una dimensione antitetica chiamata «mondo». In questo contesto scompaiono, in primo luogo, empatia autentica (ben diversa dal sentimentalismo), solidarietà umana ed il sincero interesse per la realtà.
L’individuo frammentato della modernità è anche un essere che la società espone ad un radicalismo delle parti infrante del proprio sé, una sorta di chiusura, conscia o inconscia, su quel poco offerto dall’orizzonte della limitata percezione individuale che egli utilizza a protezione di una individualità segmentata. Tutto ciò ricorda troppo da vicino il rapporto tra Gollum e l’anello magico in The Lord of the Rings, «My Precious! Oh my Precious!», un oggetto che è, per quella creatura, causa di protezione psicologica e d’immenso piacere, ma anche causa di dipendenza e rovina. Nel racconto di Tolkien, infatti, la fatale dipendenza di Gollum dall’anello è segno di una falsità radicale che trasforma l’antico hobbit Sméagol in un penoso mostro.

(© Sergio Caldarella, 2019)




[1] Come da lei stessa pubblicato in un Tweet del 2 genn. 2012 e, nell’ottobre dello stesso anno, in un altro tweet riportato dal New York Post il 2 genn. 2019: «ill purposely give all the yahood [Jews] the wrong meds…» «After this debate, I have to watch a movie on the holocaust and write a paper on it. I am going to be brutally unsympathetic. #sorrynotsorry».
[2] La tesi dello storico israeliano Zeev Sternhell in Nascita dell’Ideologia Fascista (trad. it. Baldini e Castoldi, Milano 1993) vuol proprio dimostrare la mancanza di una componente antisemita nel fascismo delle origini.
[3] Encounter Books, New York 2014.
[4] Questa è la ragione principale per cui sarebbe magari più corretto definire gran parte delle forme di quello che viene genericamente chiamato antisemitismo con il termine di «giudeofobia». Cfr. anche: S. Caldarella, Faces of Political Judeophobia, «The Philadelphia Jewish Voice», #37, Agosto 2008.
[5] Questa dualità psicologica segna, ad esempio, il discrimine tra i nemici del maligno dai suoi adoratori o seguaci: timore o alleanza.
[6] «America in the early 20th century was the leading racist jurisdiction in the world, (…) Nazi lawyers, as a result, were interested in, looked very closely at, [and] were ultimately influenced by American race law» (James Q. Whitman, in Hitler’s American Model, Princeton University Press 2018).
[7] Tanto quanto si potrebbe parlare dell’individuo di colore reale vs. quello costruito dalla mente del razzista.
[8] Cfr. anche, Boicottaggio ad Israele, stop di Bertinotti, «La Repubblica» 4 febb. 2008.
[9] Richard Topolski, J. Nicole Weaver, Zachary Martin & Jason McCoy, Choosing between the Emotional Dog and the Rational Pal: A Moral Dilemma with a Tail, Anthrozoos, fonte online, 28 apr 2015, pp. 253-263.
[10] C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, 1932.
[11] Cfr. anche Joseph W. Bendersky, Carl Schmitt – Theorist for the Third Reich, Princeton University Press, 1983.

Friday, July 19, 2019

Finis Europæ

In the complex landscape of human history, the barbarian, the uncivilized man or the brute, possesses a disproportionate advantage over the civilized man because, in the first
place, he has nothing to protect behind him, nothing cultural to cherish: his space is that of the immediate, of everything that can be used, touched, exploited, cannibalized, grabbed, bitten. The barbarian has no other prospect than that of his own expansion, nothing in mind beyond the maximization of his will to power or his desire to devour all that is to be found in his path: if civilization creates and builds, barbarism consumes and destroys.
The law of club and fang is the only rule recognized by the barbarian and so, even in this respect, he or she has an enormous advantage, immense, almost inconceivable, over the civilized being because, to stop the brute, even civilization would be forced to descend into the same arena as the barbarian, that is, the arena of brutality. The options of civilization in the face of barbarism are therefore limited: either using the force that depresses and consumes civilization itself, or surrendering to the advance of barbarism, letting itself be devoured slowly, sacrificing itself because it is the only way that civilization has to endure longer in life. As long as barbarism exists, the destiny of civilization, of every civilization, will be to let itself be devoured. The civilized person may be a master of intellect and dialogue, but these are of no use among the slums of the spirit in which one recognizes only shrewdness and the instinct of survival. The brute is, in many ways, similar to a ballast which, when of considerable weight, is capable of sinking any sailing ship, no matter how big, beautiful or robust. Culture or civilization are not really able to withstand the ballast of barbarism.
The barbarian, thanks to the curious and amazing laws of nature, also has numbers on his side and this, in the end, tends to make him a role model for the future. When a civilization becomes weak, because it is being assailed by barbarism, it begins to forget its essential forms, and fewer and fewer people will be able to understand culture and the basis for real knowledge while, on the other hand, those in whose lives civilization and culture do not have a place, not even a meaning, increase dramatically, and in the end, the large number of them causes real knowledge to be forgotten, turning it into a distant ruin that they, however, do not fail to occupy, making ancient and noble places of learning mere classrooms of ghosts.1
In a society where barbarism proliferates rapidly, because proliferating is also the strength of the barbarian, in the end only the way of life and models of barbarism remain because, thanks to the strength of their numbers, those ways manage to become dominant, if only because, by increasing exponentially, they turn culture into a mere rarefaction. The barbarian will never be replaced by the civilized man, just as the weed will never be replaced by flowers, and this is, perhaps, one of the most curious and ambiguous laws in the world!
The Greeks, who wanted to stop barbarism, had proposed a society of excellence, but they too have fallen and barbarism has overwhelmed them in its relentless journey. The fate of the world and of the human beings in it, then, seems to be only to end in barbarism.
© Sergio Caldarella, 2019.



See also: S. Caldarella, The Empty Campus. Education and Miseducation in the New Global Age, Dark Age Publishing, Princeton, N.J., 2016.

Saturday, July 6, 2019

Finis Europæ.

Nel complesso e articolato panorama della storia, il barbaro, l’incivile o il bruto, posseggono un vantaggio spropositato sul civilizzato poiché, in primo luogo, non hanno nulla da proteggere alle loro spalle, nulla di spirituale di cui dirsi difensori: il loro spazio è quello dell’immediato, di tutto ciò che può essere utilizzato, toccato, sfruttato, cannibalizzato, agguantato, addentato. Il barbaro non ha alcuna prospettiva che sia diversa dalla sua propria espansione, diversa dalla massimizzazione della sua volontà di potenza, diversa dal suo divorare tutto ciò che gli si pone sul cammino: se la civiltà crea ed edifica, la barbarie consuma e distrugge.
            La forza della clava è l’unico strumento riconosciuto dal barbaro e così, anche su questo aspetto, egli possiede un vantaggio abissale, immenso, quasi inconcepibile, sul civilizzato poiché, nel caso estremo, ossia per fermare il bruto, anche la civiltà sarebbe costretta a scendere nella stessa arena del barbaro, ossia quella della brutalità. Le opzioni della civiltà di fronte alla barbarie sono dunque limitate: utilizzare la forza che deprime e consuma la civiltà stessa, oppure arrendersi all’avanzata della barbarie, lasciandosi così divorare lentamente, immolandosi perché è il solo modo che questa ha per resistere più a lungo in vita. Finché esisterà la barbarie il destino della civiltà, di ogni civiltà, sarà quello di lasciarsi divorare. Il civilizzato potrà magari conoscere l’intelletto e il dialogo, ma questi a nulla servono tra i bassifondi dello spirito in cui si riconoscono soltanto la scaltrezza e l’istinto di sopravvivenza. Il bruto è, in molti modi, simile ad una zavorra che, quando numericamente notevole, è capace di affondare qualunque veliero, non importa quanto grande, bello o robusto. La cultura o la civiltà non sono davvero in grado di resistere alla zavorra della barbarie.
            Il barbaro, anche grazie a curiose e strabilianti leggi della natura, ha anche la quantità dalla sua parte e questo, alla fine, tende a farlo diventare persino un modello. Quando una civiltà diventa debole, poiché assalita dalla barbarie, questa arriva a dimenticare se stessa e persino le proprie forme essenziali e diventano sempre meno coloro i quali sono ancora capaci di intendere ciò che è cultura e fondamento mentre, dall’altra parte, aumentano vertiginosamente coloro per i quali la civiltà e la cultura non hanno un luogo e neppure un significato così, alla fine, la gran quantità di costoro fa sì che il sapere venga dimenticato, che si trasformi in una lontana rovina che essi, però, non mancano di occupare, rendendo antichi e nobili luoghi di cultura delle mere aule di fantasmi.
            In una società dove la barbarie prolifera rapidamente, perché quella di proliferare è anche la forza del barbaro, alla fine rimangono soltanto i modi e modelli della barbarie in quanto, grazie alla forza del numero, questi riescono a diventare dominanti, se non altro perché aumentando esponenzialmente rendono la cultura una mera rarefazione. Il barbaro non verrà mai sostituto dal civilizzato tanto quanto la gramigna non verrà mai sostituita dai fiori, quanto l’esatto contrario: questa è, forse, una tra le più curiose ed ambigue leggi del mondo.
            I Greci, i quali volevano fermare la barbarie, si erano proposti una società dell’eccellenza, ma anche loro sono caduti e la barbarie li ha travolti nel suo inesorabile cammino. Il destino del mondo e degli esseri umani in esso sembra sia allora quello di terminare unicamente nella barbarie.

(Tratto da: Sergio Caldarella, Finis Europae, «Il Pungolo» 5 luglio 2019).