La modernità, in sé già foriera di disagio
psicologico, culturale ed esistenziale, offre un largo numero di profili e
individualità di difficile interpretazione ma, tra questi, la figura dell’antisemita rappresenta, ancor’oggi, una tra le personalità dalla più ardua interpretazione. Di fronte a questa figura, il
primo grande problema è di poter riuscire ad ottenere un’identificazione
propria, giacché l’antisemita non possiede davvero una precisa collocazione
sociale, economica, culturale o persino politica, con la quale possa venire necessariamente
identificato una volta per tutte. L’antisemita può trovarsi in qualunque
contesto, anche il più insospettato, può essere l’affaccendato droghiere sotto
casa, il benzinaio, l’operaio, ma anche l’avvocato di grido, il piccolo editore,
l’onorevole, il medico –
vedi, in proposito, il recente caso (3 genn. 2019) di Lara Kollab, un medico di
Cleveland, la quale ha dichiarato di non aver problemi a prescrivere dei
farmaci errati a persone di origine ebraica![1]
Si
potrebbe dire che un individuo il quale s’identifichi con l’ideologia fascista
o postfascista debba, di conseguenza, avere anche una certa propensione
antisemita, ma questo non è implicitamente vero, né necessario – tra l’altro,
un qualsivoglia neofascista che abbia qualche reminiscenza scolastica dovrebbe
ricordare che l’antisemitismo fascista è stato, storicamente, un elemento
aggiunto a quella dottrina già di per sé infausta.[2] Dirsi inoltre «liberali», o «di sinistra»,
non implica, quantomeno oggi, che coloro i quali si identificano in tali
ideologie siano necessariamente contrari all’antisemitismo. Si assiste,
anzi, ad un fenomeno, sconcertante e preoccupante, secondo cui la probabilità
di trovare un antisemita militante a sinistra è ormai pressoché uguale, se non
maggiore, a quella d’incontrarlo in un contesto di destra! Sotto quest’aspetto,
la differenza tra antisemitismo di destra o di sinistra si riduce al fatto che,
per i primi, l’oggetto dell’odio irrazionale è ancora l’astratta figura dell’ebreo
(Der ewige Jude, l’ebreo eterno, come si esprimeva la
propaganda razziale del nazionalsocialismo), mentre per gli altri l’odio
s’indirizza verso una conveniente traslazione: il «sionista» o lo «Stato
d’Israele» e la sua politica difensiva – si mettono tali termini tra virgolette
perché tra il Sionismo come movimento politico reale ed il sionismo sulla bocca
dei suoi detrattori vi è una distanza a dir poco antipode e lo stesso può dirsi
della visione che costoro propongono delle politiche difensive dello Stato d’Israele,
ossia l’unico Stato democratico e di diritto dell’area mediorientale
trasformato, nella violenta immaginazione di questi detrattori, in una sorta di
Behemoth criminale a beneficio delle loro fantasie e razionalizzazioni da
quattro soldi. Sulla base di queste convenienti metamorfosi, e di una pletora
di fantasiose rivisitazioni storiche e false notizie ad hoc, l’antisemita di sinistra riesce ad atteggiarsi nel ruolo
dell’anima bella, impegnata nella difesa dei diritti dei deboli, contro le
obbrobriose attività del «mostro sionista». Quando alla realtà si sostituisce
un’immaginazione scatenata ed interessata è persino possibile trasformare
Davide in Golia, come ha brillantemente mostrato Joshua Muravchik nel libro Making
David into Goliath. How the World Turned Against Israel.[3] A tal proposito, è singolare
osservare come la volontà d’indirizzare l’odio contro l’ebreo assuma,
storicamente, sempre la forma della traslazione con la quale si
costruisce, psicologicamente, la figura di un ebreo immaginario cui attribuire
ignominie e malversazioni d’ogni genere.[4] La connotazione psicologica
di questa traslazione contro l’ebreo in genere, utilizzando l’ebreo immaginario
per giustificare l’odio contro l’ebreo reale (traslazione tipica della
mentalità razzista), è evidentissima dall’emergere, in queste accuse, di alcuni
topos primordiali – ossia fortemente rispondenti al linguaggio simbolico
primario dell’inconscio – correlati al sangue (ad. es., l’accusa immaginaria
secondo cui le matzot pasquali ebraiche venivano fatte con il sangue di
cristiani), l’omicidio rituale, in particolare di bambini o di vergini, ed
altre amenità variamente escogitate secondo tempi e luoghi.
L’elemento
chiave è, qui, il fatto che tutte queste invenzioni e fantasiose accuse siano congegnate
ad arte attraverso un linguaggio dalle connotazioni fortemente inconsce e
posseggano solo una vaga e lontana relazione con il livello cognitivo o
intellettuale, sono ossia costruite in un linguaggio attraverso cui, una parte
primitiva della coscienza, comunica con livelli coscienti, utilizzando forme e
simboli primari psicologicamente carichi e intensi con cui esprimere un
fondamentale disagio traslato e, dunque, scaricato, su una figura immaginaria. Un
fenomeno molto simile avviene, sul piano religioso (e la religione è un ambito
in cui le figure simboliche primarie abbondano), con entità quali demoni,
spiriti, folletti, ed altri caratteri immaginari consimili sui quali si possono
scaricare pulsioni negative o cercare variamente di ingraziarseli.[5] È qui necessario aggiungere come, proprio
a causa di questa traslazione psicologica sia stato possibile, in epoche
passate, mettere al rogo delle sventurate solo perché additate, dalla crudele immaginazione
dell’epoca, come streghe! La storia mostra dunque come tali traslazioni psicologiche
non siano da sottovalutare e possano rapidamente produrre conseguenze tragiche
anche su vasta scala.
Nella
mente dell’antisemita, o del giudeofobo, l’ebreo, il Sionismo, lo Stato
d’Israele, sono entità immaginarie sulle quali riversare delle negatività
pulsionali con cui purgare l’inconscio indirizzandole altrove, in altre parole,
tutto ciò che è collegato all’ebreo immaginario diventa una sorta di discarica
psicologica di contenuti pulsionali rimossi. Al culmine di questo processo di
vilificazione si trova l’identificazione della vittima con il carnefice: da
qui, ad esempio, la volgare e rivoltante accusa di «nazismo» rivolta ad Israele
ed al suo esercito – l’antisemita gongola quando può notare che tale accusa
provoca una reazione indignata perché, nella sua testa viziata, egli crede di
aver raggiunto un obiettivo mostrando, ancora una volta, come le sue azioni
siano indirizzate all’emotività e non alla razionalità. La contemporanea
distorsione sofistica della realtà e dei fatti, plasticamente trasformati in una
funzione delle opinioni di parte, favorisce la razionalizzazione dell’odio con
cui l’antisemita vede se stesso trasformato in un difensore di una giustizia
immaginaria. Associando il carnefice alla vittima, oltre a provocare l’insulto finale
contro la vittima, chi pone tale assurda relazione, riduce variamente il senso
di colpa individuale, secondo la perversa logica giustificativa: se è possibile
attribuire alle vittime una crudeltà ed un’efferatezza simili a quelle dei loro
carnefici, allora queste non sono (o non erano) più tanto vittime, dunque
l’odio verso di loro trova una sorta di giustificazione immaginaria, ossia una
razionalizzazione psicologica. Attribuendo, dunque, all’ebreo i tratti del
carnefice che lo ha perseguitato, l’antisemita pretende di legittimare il suo
odio contro questo e, in ultima analisi, di giustificare se stesso, sostituendo
una fobia irrazionale con quella che, ai suoi occhi storti, appare come una
forma di limpida razionalità. Qui sembra quasi che la psicologia
dell’antisemita contenga un conflitto tra ciò che egli sente e la realtà e, da
qui, i tentativi di giustificare l’odio attraverso costruzioni pseudorazionali,
revisionismi e calunnie varie. Con la sua solita straordinaria lucidità Franz
Kafka aveva intuitivamente colto questo elemento nell’accusa iniziale e
centrale cui è sottoposto Josef K., ne Il Processo, il quale era stato
calunniato, ed arrestato, senza che egli avesse fatto nulla di male: «Jemand musste Josef K. verleumdet haben,
denn ohne dass er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet,
Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché, senza che avesse fatto nulla
di male, una mattina venne arrestato». L’assenza di un crimine e l’imputazione
di cui nessuno conosce il contenuto sono due tratti chiave nel romanzo del
grande praghese che ritornano, variamente, nelle iperboliche accuse antisemite
nel corso dei diversi secoli.
Difficile,
a questo punto, trovare una ragione unica con la quale poter spiegare perché l’antisemita
provi questo senso di colpa individuale che lo induce a rivoltare i termini
della realtà trasformando una figura reale in una trasposizione immaginaria
alterata nel suo contrario; è qui sufficiente far notare che questo fenomeno
rappresenta una costante che si manifesta sempre
e necessariamente in qualunque
interpretazione razzista, ergo irrazionale, della realtà. Oggi, per via dell’ideologizzazione
radicale e sofistica delle categorie del vivere moderno e della grande
confusione generata sul concetto di razzismo, utilizzato in chiave ideologica o
attribuito a, volte, persino a quei discorsi che non piace ascoltare, la
distinzione tra legittimità e illegittimità dell’accusa di razzismo viene quasi
del tutto ignorata.
Se un
discorso parte da presupposti reali e documentabili, anche se l’argomento può
non piacerci o viene rigettato emotivamente, non può essere però per questo respinto
o etichettato come un discorso discriminatorio ed intollerante, poiché il
rigetto dell’evidenza è proprio uno degli elementi cardine del discorso dell’odio,
della sofistica o dell’ideologia. Facciamo un esempio con cui provare a
chiarire meglio questo difficile punto: nel corso dei tempi, le persone di
colore sono state sottoposte ad un’intollerabile violenza e sfruttamento in
virtù dell’assunto secondo cui gli individui dalla pelle scura sarebbero «inferiori»
a quelli dalla pelle chiara e questa presunta «inferiorità» basterebbe, da
sola, a giustificare l’oppressione e la schiavitù. Questa dichiarazione, oltre
agli innumerevoli problemi etico-politici che essa comporta, ha il problema
aggiuntivo di confliggere, platealmente, contro ogni evidenza! Basta dare oggi un’occhiata
alle statistiche sulle varie attività sportive contemporanee, in quasi ogni
settore, per accorgersi del fatto che è vero proprio l’esatto contrario della
tesi sull’inferiorità; ossia, da una prospettiva sportiva, gli individui di
colore godono, in questo stadio dell’evoluzione umana, di un’indubitabile
supremazia fisica sulle persone di altre origini! Il razzismo e l’ideologia
sono però ciechi all’evidenza e continuano a dichiarare il contrario. Le
fantasie razziste di Adolf Hitler in proposito subirono, infatti, un glorioso
smacco, il 3 agosto del 1936, durante le Olimpiadi di Monaco, quando l’atleta
di colore Jesse Owens vinse l’oro olimpico, battendo sotto gli occhi esterrefatti
del dittatore nazista, tutti i campioni detti «ariani».
Questo
discorso ha, per molti, un’implicazione difficile da digerire, ossia un
razzista non è soltanto chi grida slogan inneggianti all’odio, alla
discriminazione ed alla diseguaglianza, ma anche chi si rifiuti di confrontarsi
con i fatti ed accettare delle evidenze sul tema che supportino delle tesi per
lui psicologicamente sgradevoli, poiché contrarie ai suoi pregiudizi o ai suoi
desideri e volontà di potenza. Gli
stessi connazionali di Jesse Owens che, negli Stati Uniti, esultavano per la vittoria
olimpica, si trovavano, ideologicamente, in sintonia con il dittatore nazista, poiché
la segregazione degli individui di colore dovette attendere ancora altri
ventotto anni prima che anche agli afroamericani venisse riconosciuta, nella Herrenvolk democracy americana,
un’uguaglianza formale con gli altri loro connazionali dalla pelle più chiara. James
Q. Whitman, in Hitler’s American Model
scrive infatti: «L’America, all’inizio del XX secolo, era la principale
giurisdizione razzista nel mondo ed i giuristi nazisti, di conseguenza, erano
interessati a guardarvi molto attentamente e furono infine influenzati dalla
legge razziale americana».[6]
Il
razzismo è sempre un falso paradigma concettuale
e, in quanto tale, necessariamente resistente all’evidenza – se accettiamo
questo elemento scopriremo anche l’inadeguatezza di un termine come quello di «razzismo»
per definire la complessità di tale fenomenologia psicologica.
Tornando alla differenza tra l’ebreo reale
e l’ebreo immaginario costruita dalla propaganda antisemita,[7] bisognerebbe qui aggiungere un discorso
sull’impossibilità della definizione del concetto di «ebreo» cui l’antisemita
ritiene, anche in questo caso, di poter ovviare attraverso l’utilizzo dell’immaginazione.
Una vecchia facezia riassume propriamente quest’impostazione ideologica; nel
racconto si dice che per l’halakhà, ebreo è chi nasce da madre ebrea,
per lo Stato d’Israele ebreo è chiunque dichiari di essere di discendenza
ebraica e vi si trasferisca per rimanervi, mentre, per gli antisemiti, ebreo è
chiunque dicano loro. Seppur attraverso l’umorismo, questa breve digressione
testimonia quell’elemento immaginifico contenuto nei discorsi antisemiti: cosa
sono, ad esempio, i Protocolli degli anziani di Sion – o Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts
(1899), di Houston Stewart Chamberlain – se non lo scandaloso ed inquietante prodotto
di un’immaginazione pericolosamente deviante? L’ebraismo reale, le sue
complessità, i suoi tanti discorsi, non soltanto scompare quasi completamente di
fronte al furore antisemita, ma ogni argomentazione diventa sostanzialmente irrilevante,
poiché nella cerchia degli antisemiti si possono tranquillamente rigettare le
evidenze a favore di un’immaginazione condivisa con altri sodali. Lo stesso
trattamento di negazione e rigetto dell’evidenza, riservato un tempo soltanto
all’ebreo ed all’ebraismo è, oggi, egualmente riservato allo Stato d’Israele reale
ed alla sua politica o alle concezioni politiche del Sionismo. Se l’avversione
e l’attacco contro l’ebreo sono caratteri tipicamente di destra, l’attacco
irrazionale contro qualunque atto d’Israele – anche operazioni di mera
autodifesa – o l’identificazione tra Sionismo e dottrine nefaste è ormai uno
specioso tratto di sinistra. Non dovrebbe però sfuggire che entrambe i
discorsi, da destra o da sinistra, seppur in maniere apparentemente diverse,
convergono egualmente contro lo stesso soggetto. Qualche anno fa (2008) un
drappello di sapientoni decise di boicottare tout court il Salone del libro di Torino poiché lo Stato d’Israele era
stato scelto come ospite d’onore e poco importava se gli autori più
rappresentativi presentati dagli editori israeliani fossero degli intellettuali
razionalmente critici delle politiche dello Stato d’Israele. Avversando la
presenza di quegli editori si stava, in realtà, andando contro il presunto «discorso»
che i contestatori apparentemente proponevano ma, posti di fronte al sacro
furore della loro crociata, qualunque analisi razionale passò in secondo piano
e andarono avanti con il loro strepitare che li faceva sentire così nobili e puri
di cuore – nonostante parti significative e rappresentative di quella stessa
sinistra si fossero dissociate dal boicottaggio comprendendone l’insensatezza.[8] Nessun argomento storico-razionale e
nessuna evidenza possono però intaccare l’armatura sgargiante di questi
cavalieretti dalla spada di plastica i quali costruiscono, a tutto spiano,
pseudargomenti immaginari attraverso la condivisione ed il rafforzamento
psicologico con altri loro compagnetti infervorati da egual consonanza
cognitiva. Tutto questo ricorda anche un altro singolare esempio di dissonanza
emotiva che si ritrova in maniera esacerbata ed un po’ ovunque nell’epoca
contemporanea, ossia il sentimentalismo e la manifestazione di affetto
eccessivo verso gli animali domestici associato ad una quasi totale
indifferenza per gli esseri umani – in un mondo in cui ancor’oggi oltre 160
milioni di bambini al di sotto dei cinque anni subiscono malformazioni e altre
gravi conseguenze a causa di incultura sociopolitica e di malnutrizione, esiste
una parte di questo stesso mondo in cui, nei ricchi supermercati, vi sono file
di scaffali contenenti cibi per animali e pochi provano stupore di fronte ad
una tale assurda contraddizione. Nel 2015 sono stati pubblicati[9] gli scioccanti risultati di una ricerca
secondo cui, alla domanda su cosa avrebbero fatto se avessero dovuto scegliere
tra salvare un cane o una persona che si è lanciata di fronte ad un autobus è
emerso che, tra i 573 partecipanti allo studio, vi erano molte più persone pronte
a salvare l’animale in pericolo rispetto ad un turista straniero e la loro
propensione al soccorso aumentava solo in relazione a qualcuno a loro più
vicino, parente, amico o concittadino. Si è anche osservata la propensione a
salvare il proprio cane rispetto ad un cane ignoto, mentre la probabilità per
le donne, nel campione in analisi, di scegliere di salvare un cane rispetto ad
una persona, erano di due volte maggiori! Un risultato purtroppo non del tutto
sorprendente poiché mostra, ancora una volta, quella dissociazione psicologica
entro cui possono germogliare frutti amari ed insalubri.
Quando la logica del mondo si riduce alla
bipartizione tra amico-nemico (Freund-Feind),[10] teorizzata politicamente dal giurista
nazionalsocialista Carl Schmitt,[11] questa stessa «logica» può facilmente venire
convertita in vicino-lontano, oppure
nell’equazione io-mondo in cui tutto ciò che mi appartiene ed è vicino rientra
nella sfera dell’io e tutto il resto in una dimensione antitetica chiamata «mondo».
In questo contesto scompaiono, in primo luogo, empatia autentica (ben diversa
dal sentimentalismo), solidarietà umana ed il sincero interesse per la realtà.
L’individuo frammentato della modernità è
anche un essere che la società espone ad un radicalismo delle parti infrante
del proprio sé, una sorta di chiusura, conscia o inconscia, su quel poco offerto
dall’orizzonte della limitata percezione individuale che egli utilizza a
protezione di una individualità segmentata. Tutto ciò ricorda troppo da vicino il
rapporto tra Gollum e l’anello magico in The
Lord of the Rings, «My Precious! Oh my Precious!», un oggetto che è, per quella
creatura, causa di protezione psicologica e d’immenso piacere, ma anche causa di
dipendenza e rovina. Nel racconto di Tolkien, infatti, la fatale dipendenza di
Gollum dall’anello è segno di una falsità radicale che trasforma l’antico
hobbit Sméagol in un penoso mostro.
(©
Sergio Caldarella, 2019)
[1] Come da lei stessa pubblicato in un Tweet del 2 genn. 2012 e, nell’ottobre
dello stesso anno, in un altro tweet riportato dal New York Post il 2 genn. 2019: «ill purposely give all the yahood
[Jews] the wrong meds…» «After this debate, I have to watch a movie on the
holocaust and write a paper on it. I am going to be brutally
unsympathetic. #sorrynotsorry».
[2] La tesi dello storico
israeliano Zeev Sternhell in Nascita dell’Ideologia Fascista (trad. it.
Baldini e Castoldi, Milano 1993) vuol proprio dimostrare la mancanza di una
componente antisemita nel fascismo delle origini.
[4] Questa è la ragione principale per cui sarebbe magari più corretto
definire gran parte delle forme di quello che viene genericamente chiamato
antisemitismo con il termine di «giudeofobia». Cfr. anche: S. Caldarella, Faces of Political Judeophobia, «The Philadelphia
Jewish Voice», #37, Agosto 2008.
[5] Questa dualità psicologica segna, ad esempio, il discrimine tra i nemici
del maligno dai suoi adoratori o seguaci: timore o alleanza.
[6] «America in the early
20th century was the leading racist jurisdiction in the world, (…) Nazi
lawyers, as a result, were interested in, looked very closely at, [and] were
ultimately influenced by American race law» (James Q. Whitman, in Hitler’s American Model, Princeton University Press 2018).
[7] Tanto quanto si potrebbe parlare dell’individuo di colore reale vs. quello
costruito dalla mente del razzista.
[9] Richard Topolski, J. Nicole Weaver, Zachary
Martin & Jason McCoy, Choosing between the Emotional Dog and the
Rational Pal: A Moral Dilemma with a Tail, Anthrozoos, fonte online, 28 apr
2015, pp. 253-263.
[11] Cfr. anche Joseph W. Bendersky, Carl Schmitt – Theorist for the Third Reich,
Princeton University Press, 1983.