Wednesday, December 7, 2011

Il trionfo della storia


In un’intervista su France24 Stéphane Hessel, l’autore del libro Indignez-vous!, si è dichiarato convinto del fatto che riusciremo a trovare una soluzione ai problemi che affliggono il mondo contemporaneo. Alla base del suo ottimismo Hessel pone la sua lunga esperienza da novantacinquenne e dice che, avendo visto durante la sua vita “problemi” che apparivano insormontabili come il nazismo, lo stalinismo o l’apartheid ed avendo esperienza del fatto che, nonostante tutto, questi orrori sono stati superati, questo gli ispira la fiducia della speranza nel futuro del mondo.
Una domanda: e se quei “problemi” di cui parla Stéphane Hessel non siano stati davvero superati e siano invece dei preoccupanti sintomi storici e il pericoloso retaggio di una certa natura umana che si impone sempre più? Se invece di problemi passati e risolti si trattasse di un traumatico passaggio da un punto all’altro di una storia che non sta procedendo verso prospettive migliori, ma regredisce con una strabiliante invisibilità? È solo un’ipotesi, ma proviamo invece ad immaginare che le ideologie totalitarie dello scorso secolo siano dei pioli sulla scala verso il basso che ha condotto all’epoca contemporanea, come si fa allora ad essere ancora ottimisti come il nostro buon Hessel?
La fiducia nel futuro della nostra specie è qualcosa che magari appare nobile, ma non ha un serio fondamento razionale né un solido appoggio storico. È una speranza, una come altre. Oppure quando ci guardiamo intorno o leggiamo le narrazioni della storia scorgiamo davvero un mondo pacifico, umano e compassionevole?
In realtà, se ben guardiamo alle nostre classi dirigenti ed ai vari sistemi sociali ormai pericolosamente omologati su scala globale, ci accorgiamo che le nostre presunte élite sono ancora più sgangherate e fallimentari di quelle che ci hanno condotto agli orrori del nazifascismo e delle guerre mondiali, allo stalinismo e al capitalismo. Queste classi dirigenti pensano ancora con la stessa perniciosa mentalità che ha costruito società illiberali, discriminatorie e discriminanti, ove l’individuo viene schiacciato, manipolato e subordinato agli interessi di quei soliti quattro furboni dietro le quinte. Come si fa allora a pensare che da questi sassi possa finalmente uscire dell’olio?

Difficile dire se la storia umana sia più una grande follia o una brutale narrazione che passa da una spaventosa idiozia ad un’altra. Quando gli esseri umani si distaccano da se stessi e non comprendono più verità semplicissime come la compassione, l’amore, il rispetto o la pace, separandosi dal loro essere autentico e profondo, fanno anche di tutto per dimenticare di avere natura mortale e così impiegano il loro tempo a rincorrere ciò che passa, lasciando che sfugga loro ciò che invece permane. La violenza, la superbia, il gioco dell’economia, sono appena alcune tra le numerose forme degli umani deliri indotti o motivati dalla dimenticanza di sé. Sentire la nostra natura mortale ci proteggerebbe dai giochi cattivi con i quali viene retto il mondo perché aiuterebbe a scorgere la piccolezza di quelli che si credono grandi e non renderebbe gli esseri umani proni a qualunque atto orribile solo per conseguire una posta in un gioco. La comprensione aiuterebbe a difendersi dalla spaventosa immaturità di chi vede nel mondo solo una selva, ma chi deve aiutarci a capire? Quelli che ci raccontano che va tutto bene?

(Sergio Caldarella)

Sunday, November 27, 2011

L’invisibilità dei sapienti


Se agli inizi degli anni ’20 del secolo scorso, giungendo alla stazione di Praga, un viaggiatore avesse chiesto dove si trovava la casa di Franz Kafka, pochissimi avrebbero saputo fornire indicazioni specifiche perché all’epoca, a parte un ristrettissimo gruppo di intellettuali, quasi nessuno conosceva quello che viene ormai definito come “il grande praghese” – facendo magari un certo torto ad altri grandi praghesi quali Jehuda Loew, Rilke, Jaroslav Hašek, Gustav Meyrink/Meyer (praghese d’adozione) e moltissimi altri tra cui lo stesso Max Brod senza il quale, di Kafka, non avremmo quasi nulla. Per un viaggiatore dei nostri tempi è invece diventato pressoché impossibile visitare Praga senza imbattersi in uno dei ritratti di Kafka quasi ad ogni angolo della città. Il viaggiatore immaginario di cui sopra avrebbe avuto la stessa difficoltà a reperire notizie andando a Lisbona e chiedendo di Pessoa, nell’Amsterdam di Spinoza, nella Copenhagen di Kierkegaard: poiché anch’essi erano invisibili al loro tempo. Nietzsche, altro grande invisibile alla sua epoca, diceva che se gli uomini ti acclamano, vuol dire che sei sul sentiero di qualcun altro.
Nonostante i preclari esempi di cui trabocca la storia culturale sono in molti, in particolare nell’epoca dell’immagine in cui ci è dato vivere, a ritenere che la visibilità di un pensiero nel suo tempo sia il criterio di giudizio della sua validità e per questo pongono tanta attenzione ai vari premi e conferimenti. Eppure l’invisibilità di certi scrittori alla società del loro tempo grida forte contro questi meccanismi. I nomi di Rudolf Eucken, Henrik Pontoppidan, Wladyslaw Stanislaw Reymont, sono oggi quasi del tutto dimenticati eppure, tra il 1908 e il 1924, a tutti questi è stato conferito il premio Nobel per la letteratura. Allo stesso tempo quasi tutti hanno sentito parlare o conoscono Proust, Kafka o Joyce i quali, seppur attivi nello stesso arco di tempo, non ricevettero mai il premio dell’Accademia di Stoccolma. Non dovrebbe forse questo significare qualcosa e magari insegnare a diffidare di pensieri troppo riconosciuti dal loro tempo? Da qui, però, bisognerebbe forse potersi ingegnare per riuscire ad immaginare come possa anche essere il contrario, che siano ossia proprio tali pensatori a non voler apparire con troppa evidenza nel loro tempo. L’invisibilità del sapiente può anche esser vista come un’astuzia per sfuggire al panopticon dei poteri. Troppa visibilità ha sovente attirato tanto odio, condannando questi grandi alla cicuta, alla tortura, al patibolo, alla scomunica, alla pira o alle tante altre villanie con le quali il volgo sempre affligge coloro che non gli assomigliano. Curioso pensare che prima li ammazzino e poi gli erigano statue. Ma questa non è, in fondo, la sola ragione per la quale coloro che amano il sapere se ne stanno da parte: l’amore per la conoscenza è una pianta preziosa e rara e, dunque, una cosa per pochi, mentre la società di massa impone che ci siano quelli che gridano per raccontare una verità fatta a misura di tutte le teste e il loro urlo è così forte e banale da assordare chi ha ancora orecchie fini. Pasolini diceva convinto: «La cultura media è sempre corruttrice». Tra queste grandi differenze finiamo per avere da una parte i grandi semplificatori, quelli che raccontano la fiaba di un mondo facile e banale e dall’altra quei pochi che si aggirano tra le strade notturne del sapere sussurrando: “...eppur si muove”. Spinoza avrebbe magari detto che una cosa non cessa di esser vera solo perché non è accettata dai più. La storia insegna che la conoscenza autentica non ha mai avuto bisogno delle folle, anzi in un certo modo le rifugge: la sapienza grida sì “per le vie, fa udire la sua voce per le piazze, chiama nei crocicchi affollati, all’ingresso delle porte” (Proverbi 1:20), ma è una voce sottile che poche orecchie sanno, possono o vogliono cogliere. Che senso avrebbe dunque provare a raggiungere quelli che della voce del sapere non sanno che farsene? Il califfo Omar, quando nel 640 fece distruggere quel che restava della favolosa biblioteca di Alessandria, giustificò il suo atto con un paralogismo buono per le orecchie del suo tempo: «se il contenuto di questi libri si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli» (anche se alcuni ritengono che si tratti di una storia inventata da Ibn al-Qifti e resa nota in Europa dagli scritti di Grigorios Bar Hebræus). Sia come sia il califfo Omar appare in questa narrazione come quei tanti che della conoscenza non hanno mai saputo che farsene.

In una realtà che rifugge dal senso, l’allontanarsi del filosofo diventa allora un avvicinarsi al significato e il suo silenzio un incommensurabile atto d’accusa. Quelli che si ingegnarono a tormentare e poi uccidere il grande Manlio Severino Boezio non capivano che con lui stavano mettendo a morte l’ultimo dei grandi Romani, sancendo la fine di quell’Impero di cui essi erano ormai solo ombre. Dalla sua cella Boezio scrisse la Consolatio Philosophiae, un maestoso commiato e un indelebile atto d’accusa poiché anche un uomo solo può ergersi contro un mondo intero. Nella Consolatio Boezio arriva anche a spiegare, con una lucidità commovente, l’irrealtà del male: «I cattivi, i quali sono la maggioranza tra gli uomini (ut malos, qui plures hominum sunt), non sono (…) Io non contesto, infatti, che i cattivi siano, appunto, cattivi; ma nego nettamente e semplicemente che essi siano. Infatti, allo stesso modo che un cadavere potresti chiamarlo “uomo morto”, ma non semplicemente “uomo”, così son disposta a riconoscere che i viziosi siano, appunto, cattivi, ma non potrei mai ammettere che essi, in assoluto, siano». Dopo Boezio, come ci si poteva aspettare, giunse il Medioevo.

Nella tradizione ebraica esiste il concetto dei lamed-vav (ל"ו צַדִיקִים‎‎), i trentasei giusti sui quali si racconta riposi il destino del mondo e il Talmud spiega che, se una sola di queste trentasei persone venisse a mancare in una generazione, il mondo cesserebbe di esistere (Sanhedrin 97b; Sukkah 45b). Un altro modo per chiamare i trentasei in ebraico è Nistarim, coloro che vivono nascosti e sono, in genere, invisibili ai molti: questi possono essere portatori d’acqua, lustrascarpe, barbieri, perché ciò che essi sono non è in ciò che fanno e in questo si annida una grande lezione anche per il nostro tempo, semmai il nostro tempo fosse in grado di capire alcunché. Il libro del Genesi riporta una concezione affine quando ad Abramo viene chiesto di trovare un certo numero di sapienti onde risparmiare Sodoma. L’esistenza del mondo è, nella tradizione etica dell’ebraismo, garantita dall’esistenza dei sapienti – è quando Abramo non riesce a trovare nessun sapiente che Sodoma viene condannata alla distruzione. Maimonide utilizzerà questo tema sotto altra forma quando scriverà che l’esistenza del mondo si basa sul respiro dei bambini che studiano affermando, implicitamente, che il fondamento del mondo sono i bambini, ossia l’innocenza, e lo studio. Pavel Florenskij condurrà ancor oltre questo discorso scrivendo: «A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè “una convinzione di cose invisibili”. Il pensiero può essere sano soltanto entro i limiti di questa fede, fuori dei quali diventa deforme» (Le porte regali: saggio sull’icona). La meraviglia di queste parole è riservata a chi le intende e intendere è una tra le forme del sentire e per questo nelle nostre società ove gli esseri umani vengono manipolati quasi al limite dell’inesistenza e dell’inconsistenza il sentire dev’essere la prima vittima del sistema.

La società del contrario intorno a noi, ossia un’epoca che vive nella più profonda contraddizione e dimenticanza di sé, ha sostituito il fare all’agire e quando l’uomo vive unicamente nella dimensione del fare, sente come se non avesse più nulla da cercare nella dimensione del pensare e allora vive abbandonato al narcisismo e alla vanità. In breve, vive abbandonato alle nevrosi della materia, mentre proprio uno dei grandi insegnamenti, da Socrate a Freud, è quello secondo cui il pensiero cura o, meglio, la cura è nel pensiero. L’appiattimento sul fare ci ha anche disabituati a pensare in termini diversi da piccoli canoni e secondo il folle principio di “pensa solo a te”, ci ha ossia disavvezzati a pensare realmente in termini di valori umani e individuali, trasponendo tutto nella dimensione dell’omologazione e del collettivo: “lo fanno tutti” ha il significato intrinseco di “...allora va bene farlo”. Pare proprio si sia allora riusciti nel creare una società che è, al tempo stesso, massificata e narcisista: due termini apparentemente inconciliabili che trovano, invece, impossibile conciliazione nella triste omologazione contemporanea. Un paradossale narcisismo massificato è quello in cui tutti aspirano a ciò cui aspirano tutti gli altri e, poiché il narcisista adora non solo la proiezione della propria immagine, ma anche la sua sproporzionata riproduzione, egli non potrebbe mai riuscire a comprendere colui che invece si ritrae dal ballo, le lodi e le mete comuni. Come potrebbe del resto il rospo intendere che al falco non interessano le pantegane? La tradizione ebraica è fin troppo chiara sul ruolo umile dei sapienti che Christoper Morley spiega in maniera eccellente ne La Libreria Stregata scrivendo: «i veri amanti dei libri si trovano di solito tra le classi più umili. Chi ha passione per i libri non ha tempo il né la pazienza di studiare piani per ingannare i suoi simili in vista della ricchezza ».
Il contemporaneo moloch del “successo” viene anche interpretato, al di là del solito appetito di cose accumulate e da consumare, come l’imposizione della propria immagine attraverso schermi televisivi o cinematografici ed a pochi viene in mente la vacuità di quest’ennesimo delirio. Un antico detto ripeteva che anche sul trono più alto si logora il fondo dei calzoni, questo per indicare che la caducità delle umane cose si applica forse più al potere e al possesso che non al pensiero. Socrate avrebbe magari ricordato che l’ἀρετή, approssimativamente tradotto come “virtù”, consiste nella conoscenza (e pratica) del Bene che è, poi, conoscenza propria di sé.
Accettando le vacue logiche dela società contemporanea si entra in una mentalità da spettatori/consumatori anche di fronte al mondo delle idee e, conseguentemente, di fronte alla vita. Si crede che le idee debbano venire a noi ed i pensatori debbano trasformarsi nei nostri giullari proponendoci il pensiero come se fosse uno tra i tanti prodotti di consumo sugli scaffali: del resto una società mercantile vedrà mercanti ovunque. L’unico sforzo che rimane da fare è allora premere un tasto su un telecomando per veder apparire quel che si vuole sullo schermo che raggiunge tutti, ma puo’ esser raggiunto e gestito solo da pochi furboni dietro le quinte. Il pensiero, però, non è mai stato un prodotto di consumo, esso è una pianta sacra e rara che richiede una profonda attenzione alla vita e non la distrazione da essa. I filosofi autentici, quelli che un tempo venivano chiamati maestri, trovano anche un sottile gusto nel vivere celati agli sguardi dei molti e Fernando Pessoa, che dell’invisibilità aveva fatto uno dei segni della sua arte, scriveva: «Un uomo di genio sconosciuto può godere della voluttà soave del contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio e, pensando che sarebbe celebre se lo volesse, può usare come metro del proprio valore la migliore misura: se stesso» (1915). Se, del resto, uno scrittore autentico com’era Pessoa andasse oggi in televisione e iniziasse a parlare davvero di cultura la gente non capirebbe quello che dice perché è troppo abituata ad un linguaggio sciocco, modellato su convenzioni e trucchetti di poco conto. Chiaramente in un sistema corrotto bisogna solo far parlare quelli che non hanno nulla da dire o sono interamente organici al sistema dell’idiocrazia e da qui a pensare che questo sia il solo sistema possibile il passo è fatalmente breve. Sadr âl Dîn Shîrâzî (1571-1640) scriveva già a suo tempo: «Ho dovuto constatare di persona che oggi, a voler istruire gli ignoranti e gli incolti, ci si attira solo ostilità. Ho visto brillare in tutto il suo fulgore il fuoco infernale della stupidità e dell’aberrazione (...) Ho urtato contro l’incomprensione di genti cieche alle luci ed ai segreti della saggezza (...) genti i cui sguardi non hanno mai oltrepassato i limiti delle evidenze materiali e le cui riflessioni non si sono mai innalzate al di sopra degli abitacoli delle tenebre e della loro polvere (...) Questo soffocamento dell’intelligenza, questo congelamento delle qualità naturali, questa ostilità della nostra epoca alla conoscenza, alla gnosi, alla spiritualità, al bene nostro e di tutti m’hanno consigliato infine di nascondermi a loro, e di coltivare la saggezza e la via mistica nei ritiri nascosti e sublimi». Considerazioni simili sono state parte del bagaglio del pensiero più o meno in ogni tempo e sotto ogni cielo.

Forse uno tra i più grandi drammi della società contemporanea è che a pochissimi viene ormai in mente di dubitare del proprio narcisismo e delle proprie nevrosi che, proiettate sul mondo e sugli altri, gli conferiscono un’aura tremendamente sinistra. Alla fine non viene più in mente quasi a nessuno di dubitare della stabilità delle proprie proiezioni e questo non solo impedisce di guardare al mondo secondo una prospettiva altra, ma anche di vedere la società non soltanto com’è o appare ma anche, secondo un’altra prospettiva, la visuale del poter essere. Il contrasto tra gli altisonanti annunci della nostra società, i suoi presunti grandi ideali e il comportamento degli uomini nella loro quotidianità è fin troppo stridente per non venir notato da uno sguardo scevro dai condizionamenti della propaganda dominante. La conoscenza non può che essere trasformazione interiore e quando di fronte all’ex Presidente Bush Jr. o davanti al Signor Berlumponi non si vede una persona piccola e confusa o un “vecchio malvissuto” (Manzoni), ma si pensa di avere a che fare con immagini di successo, si mostra solo la nostra incapacità di vedere davvero. La conoscenza autentica, in quanto supremo antitodo alla hybris, potrebbe insegnare nuovamente a vedere davvero ed è magari per questo che i vari potentati sono tutti uniti nel tenere il sapere autentico lontano dalla società alla quale essi purtroppo impongono la loro piccolezza. Come si fa, dopo, a meravigliarsi se le cose vanno tanto male come vanno?

(Sergio Caldarella, L’invisibilità dei sapienti, in Bollettino di Studi Contemporanei, Nov. 2011).

Wednesday, November 9, 2011

Le aspirazioni della società del contrario.


«Pare che una tra le peculiari aspirazioni di una società fondata sul capitale e orientata al consumo sia quella di ridimensionare la cultura a mera funzione di intrattenimento, falsamente interpretando come conoscenza tutto ciò che intrattiene le moltitudini. In questa società del contrario quello che viene prima di tutto è il presunto benessere materiale, ossia l´acquisizione e il mantenimento di oggetti vari per il breve periodo del vivere, e questo implica anche che la società occidentale tende e tenderà sempre più a configurarsi sul rapporto tra privilegiati e coloro che invece non godono di una posizione sociale benigna, orientandosi verso i primi e questo, oltre a creare conflitti e disequilibri, rappresenta anche il fallimento di ogni ideale di umanesimo in cui è l´essere umano il centro del vivere e non il capitale. Nessuno potrebbe negare che i presunti grandi fini di questa società, se guardati con lucidità, non solo sono facili da capire e conseguire, ma anche ben poca cosa. (...) Se in una società che si proclama avanzata è ancora e sempre il denaro a rendere misura di tutto, anche dell’uomo trasformato in una semplice somma di cose, questo è solo l'ennesimo segno di una rinnovata barbarie».

(Tratto da: Sergio Caldarella, La Società del Contrario, Zambon 2005, p. 29)

Wednesday, September 28, 2011

Count the Stars


Two among the most dangerous words in almost every language are: “What is” and “perhaps”. Even a keen thinker like Søren Kierkegaard felled in the trap by asking: “The man is the spirit, but what is the spirit?” But if the spirit is not “a thing”, how can you ask “what it is?” Those two apparently simple and innocent words make you believe there is “a something”, an essentia, that can be really “grasped” to the extent that we might “know” what it is. “What is” imply something that “is” (substantia), and “perhaps” implies the grasp of possibilities, some sort of insight on what could be or not (affirmation and negation, two cornerstones of Western thinking). This is the point where the Danish Prince Hamlet brutally asks: “to be or not to be” and, as he rightly points, “that is the question”, not “a” question, but “the” question i.e. not be on one or the other side of being, but be always in between. Prince Hamlet, a literary Socrates, teaches through example: being forever undecided, between revenge and forgetting, because if you know, there is no other way to be.
Hamlet doesn’t seem to believe in “what is”, nor in “perhaps”, he lives in between. The Prince knows, that’s why he is so lonely, he knows that every certainty, each step into one decision or another, is not a commitment, but just another name for nonsense: “words, words, words…” You can’t win against Hamlet because he doesn’t leave any room for victory or defeat. The Prince is apart because it is the only place he could be. He stands fiercely, he questions life because he knows that the deepest wisdom is in not-saying, in not-doing; “I would prefer not to” (Bartleby). “To do” is to decide to be on one side or another, erasing all the rest in between. When asked how much he loves Ophelia he can only give a puzzling answer: «Doubt thou the stars are fire, \ Doubt that the sun doth move, \ Doubt truth to be a liar, \ But never doubt I love» (Act 2, Scene 2). The Prince of Denmark can only point into a hermeneutical direction, the way where the blind will never be capable to look; Hamlet is hiding in plain sight because “naked is the best disguise” (Congreve). The blind, i.e. the materialist, can only see what’s “there”, his question is “What is”, and his answer: “How can I do that? How can I doubt that the sun doth move or truth to be a lie?” The blind is always confessing, though involuntarily, through his words and actions. If you listen to him he reveals himself and therefore fails Hamlet’s test. Hamlet is well aware of this and his words have also the scope to push away those who can’t see. If you can see, you’ll see. Do not try to count the stars with your fingers, count them in your heart, that’s the real question. Do not say what it is or what could be, read what is not there and see through it, read the absence; do not expect an answer or a decision, those are for the fools that calls themselves “smart”. The other important question here would also be: does Ophelia really love Hamlet? But that’s another matter.

At this point someone like the academic W. V. Quine would be totally lost because, contrary to his claims, in Hamlet there is no “ontological problem”. There is no “what there is?” But such academics are Aristotle’s nephews and, same as the Stagirite, whenever there is a conceptual problem, they invent a new partition. Hamlet does not divide: he asks to ponder what’s in between. The Eastern thinkers got it right in the first place: Master Dōgen did not divide being from time and taught, instead, the concept of being-time (Uji), seeing them as identical and inseparable. The Kegan Buddhism will declare that one of the ten mysteries is that all things exist in their times and in all time. Borges should probably have heard that while writing The Aleph.

Words can have many different meanings, but still fail to grasp the totality, and sometimes could even be incapable to grasp, or say, only one single thing right. You might have the words but not the keys. Words can generate paradoxes and we are so foolish to believe that paradoxes are like strange dragons waiting to be killed by an armored Knight. When a paradox is real, teaches that there is no solution, at least not through words and his real lesson is: “count the stars”.

(© Sergio Caldarella)

Sunday, September 11, 2011

I labirinti del cuore


È dalla complessità delle domande che il vivere pone e impone all’esistere che emergono quei labirinti che il cuore sente e la mente prova ad intendere. Ne I labirinti del cuore si prova a trovare alcuni tra gli accostamenti in cui si scopre che c’è un curioso rapporto tra il tempo e l’amore, tra la distanza e il significato, tra le farfalle e l’anima. È la vita ad esser vittima delle passioni o sono queste a cadere sotto i dardi del vivere e del destino? Il tentativo proposto ne I labirinti del cuore è quello di addentrarsi nel castello dei sentimenti per scoprire che è dal cuore che deve partire ogni richiesta di significato che tenda alla verità vera e che qualunque altro moto che non parta dal cuore è solo vuota inerzia.
(Tratto dalla scheda editoriale de "I labirinti del cuore", Edizioni Illo Tempore 2011).

Saturday, August 6, 2011

Amare Platone


Se non fosse per ciò che essi amano, come si potrebbe mai arrivare a comprendere gli esseri umani? Livio Garzanti, raffinato autore ed editore, nel 2006 sorprende tutti con la pubblicazione di uno studio di rara erudizione dal titolo: Amare Platone. Una lettura del Fedro. Non è certamente un caso che Livio Garzanti intitoli il suo lavoro: “Amare Platone” e non con un semplice “studiare”, termine ormai volgarizzato da un uso scolare e decettivo. Platone non è, del resto, un autore con il quale si possa avere un approccio neutrale e Livio Garzanti questo lo sa bene. Quella che l’autore presenta, in apparenza, come una lettura del Fedro, il dialogo sulla bellezza, è invece una lettura attentissima e scrupolosa dell’intera opera di Platone e dei suoi commentatori.

Livio Garzanti, nella toccante ma perentoria dedica d'apertura, dichiara anche che questo studio su Platone è stato per lui, dopo la morte dell’amata moglie Gina, un lavoro per “ridare un senso all’esistere”. Da autentico uomo di lettere quale egli è Livio Garzanti confessa qui di ritornare alla filosofia di Platone per riconquistare, dopo una grande perdita, il significato dell’esistenza per tramite della scrittura. La finezza e la profondità di queste dichiarazioni può essere colta solo da chi intende la relazione intensa e vera tra senso ed esistenza, tra il vivere e l'esistere, quella connessione che, portata alle sue conseguenze, conduce al rapporto tra parole e lacrime che Ferdinand Ebner stabilì in ben altro libro.

Nell'opera di Livio Garzanti ci sono tutti gli elementi che un libro autentico deve contenere: c’è il pensiero e c’è la passione, i due fattori più importanti in ogni aspetto dell’esistere umano. Livio Garzanti lo dice con eleganza da gran signore: «In questo libretto ho cercato di trasmettere le mie impressioni come suggerimento per un avvio all’amore di Platone. L’amore è conoscenza, conoscenza di un’essenza, di una unità, ed è quello che chiede il molteplice che è nell’animo di Platone».

Nel mondo contemporaneo non abbiamo molta filosofia intorno a noi, abbiamo sì canzonette, paralogismi, trivialità d'ogni genere, mentre il pensiero autentico langue, anzi dire oggi di un argomento che è “filosofico”, sembra ormai un termine denigratorio. Se così non fosse, se non vivessimo in questa maniera barbara, il mondo non potrebbe andare tanto male quanto va, ma da troppo tempo si è lasciato il controllo di questa società ai peggiori tra noi e sarebbe ormai irragionevole attendersi da costoro alcunché di buono - e anche questo Platone non solo lo aveva già ben spiegato, ma ne aveva anche fornito l'antidoto. Oggi, chiaramente, la società dei peggiori arriva a definire Platone come un “cattivo maestro”, ma anche quest'epiteto è solo l'ennesima testimonianza del nostro piccolo tempo e dice più su noi di quanto non possa dire sul grande Greco. Difficilmente chi è troppo piccolo riuscirà mai a comprendere ciò che è immensamente grande e Nietzsche lo esprimerà con la sua solita grandezza scrivendo: «Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non sanno volare». In un tale contesto un libro come Amare Platone è una nota di luce nel mezzo di quest’inverno dello spirito.

Garzanti, nel suo scritto, svela tante profondità del pensiero platonico riproponendole con voce leggera, svelando, ad esempio, la contrapposizione tra l'episteme del Grande Greco, contro l’inconsistenza della volgare doxa dei Sofisti: «il pensiero si regge nella inesauribile ricerca di riferimenti a una verità che l’uomo deve porre oltre l’umano. (...) Tanto maggiore è il bisogno del vero e del giusto, quanto maggiore è l’incertezza del proprio esistere». Ecco, in frasi profonde e belle, le radici della filosofia autentica, quel pensiero che si muove sempre sul confine tra l’esistenza e l’esistere e così facendo getta uno sguardo a quei monti del vero da cui si intravvedono le forme del significato e del significante. Non è il guardare che conta, ma il “retto guardare” e Platone lo spiegherà dicendo che quando l’anima si fissa su ciò che è illuminato dall’essere, allora ne scopre la verità, ma quando si fissa su ciò che è misto di tenebra, che nasce e perisce, allora rassomiglia ad una persona senza intelletto. La vera vista, il retto guardare, è quello che coglie l’essenza delle cose e degli uomini. Tutto è dunque connesso in maniere inesplicabili, tutto canta in una musica dolce e leggera che solo orecchie finissime sanno cogliere. Bisogna allora ringraziare Livio Garzanti per aver dimostrato, con un libro da ricordare, che all’arbitrio e al delirio si può sempre contrapporre la profondità di idee senza tempo e che, anche in questa notte dello spirito, il pensiero sa come far vibrare quelle corde che rendono la vita vera esistente e significante. Liber legendus est.



(Sergio Caldarella)

Monday, August 1, 2011

Über die sogenannte Demokratie


Es ist einfacher zu sagen, was Demokratie nicht ist, als was sie wirklich ist.

Die Tatsache, dass für manche der Krieg eine Methode ist, die Demokratie zu verbreiten, zeigt, dass dieses Denksystem kein universelles System oder gar eine universelle Lösung ist. Wir dürfen nicht vergessen, dass, historisch betrachtet, die Demokratie ein System ist, das von der Bourgeoisie entwickelt wurde. Somit hat dieses System auch alle Grenzen, die deren kaufmännische Mentalität erzwungen hat. Deswegen theoretisieren manche Intellektuelle über eine sogenannte „Postdemokratie“.

Massimo Finis Buch „Gegen die(se) Demokratie. Ein offener Brief an die Untertanen“ (Zambon Verlag, 2006) kann auch dieser Strömung zugerechnet werden. Das, was wir in unserer Gesellschaft erleben, ist mit hoher Wahrscheinlichkeit lediglich der Geist der Demokratie, somit ist es ein unbefriedigendes Modell. Wie glaubwürdig kann ein sogenanntes demokratisches System sein, das gegen eine Diktatur kämpft und seine Kampfjets von Stützpunkten starten lässt, die in einem anderen diktatorischen Staat liegen? Wie glaubwürdig ist das Geschwätz von Freiheit und Gleichberechtigung in Ländern, in denen die Schwachen und Armen nicht zählen, solange sie nicht auf sich selbst zählen?

Welcher Politiker denkt ernsthaft an diese Leute, nur aufgrund von Moral und gesundem Menschenverständnis, mens rea? Nicht weil sie Wähler sind, sondern weil sie Menschen sind?

Die Demokratie ist wie die Vernunft: beide können hervorragende Instrumente sein, aber auch ungeheure Waffen. Trotzdem gilt immer noch die Frage, ob eine kapitalistische Gesellschaft eine ernsthafte Demokratie sein kann. Ob es in den Modellen einer solchen Gesellschaft Raum gibt für etwas anderes als die reine Machtausübung?

Denken wir jetzt an ein gewöhnliches Unternehmen, in dem einige Mitarbeiter von ihren Vorgesetzen schlecht behandelt wurden (Bossing). Welche Stellung werden 99% der anderen Manager einnehmen? Werden sie nur aufgrund der Ungerechtigkeit auf Seiten der Mitarbeiter sein? Oder auf der Seite ihres Kollegen? Gibt es hier noch jemanden, der so naiv ist, zu glauben, dass sie von der moralischen Frage mehr beeinflusst werden als von der Konzernzugehörigheit? Hierzulande sagt man: „Wes Brot ich ess, des Lied ich sing“. Ist das das Zeichen einer anderen perversen Moral oder nur das Zeichen der tiefen Verarmung unserer Seele?

Auf der Suche nach einem moralischen Vorbild, stieβ ein groβer deutscher Philosoph auf einen lateinischen Autor, genannt Juvenal, der in den Satiren schreibt: «Bedenke, dass es die gröβte aller Sünden ist, das Leben über die Ehre zustellen und somit im Namen des Lebens alles das zu verlieren, was das Leben lebenswert macht, summum crede nefas animam praeferre pudori et propter vitam vivendi perdere causas » (VIII, 79-84).

Immanuel Kant benutzt das als Modell für seine moralische Philosophie. Andererseits wurden die Menschen in den letzten zwei Jahrhunderten der wirtschaftlichen Manipulation davon überzeugt, dass moralisches Denken zu persönlichem Schaden führen kann! Mit dieser Mentalität wählen wir die Repräsentanten der Wirtschaft und der Demokratie; und darin liegt deutlich eine Gefahr.


(von Sergio Caldarella, © Alle Rechte vorbehalten)

Sunday, July 24, 2011

L’eclissi dell’Einzelmensch e la scomparsa degli unicorni






In un paragrafo della seconda parte dell’Essenza della Filosofia (Das Wesen der Philosophie, 1907) il filosofo storicista Wilhelm Dilthey intraprende una descrizione della “Struttura della società e collocazione, al suo interno, di religione, arte e filosofia” (almeno così recita l’intestazione del paragrafo). Nella sua disquisizione Dilthey, come altri suoi compari, procede spedito e perentorio e, in un passaggio sibillino, dichiara: «Il singolo uomo, come essere isolato, è una mera astrazione: legami di sangue, comunanza nel luogo di vita, relazioni di lavoro (nella concorrenza e nel lavoro comune, nei vari legami dal perseguire fini comuni), relazioni di potere nel comandare e nell’obbedire rendono l’individuo membro della società». Il modello umano e di società di cui Dilthey sembra si renda sostenitore e propagatore, fatto di legami, obbedienza e comando, lo si trova anche in altre teorizzazioni e, in tutte, il primo elemento destinato a scomparire è ancora il “singolo uomo”, der Einzelmensch, quello che in latino avrebbe magari avuto il nome di individuum, per far posto ad un modello di società dove il singolo uomo non ha più né posto né diritto d’esistenza, neppure ontologico. In questo mondo nuovo il singolo uomo deve eclissarsi, scomparire nell’orizzonte del Brave new world in cui si è tutti parte di un grande modello ben livellato, dove si perseguono fini comuni, relazioni di potere (che poi sono semplicemente relazioni ristrette al forcipe di comandare e obbedire) e si deve dunque essere tutti omologati verso quella presunta direzione comune decisa da quei pochi traviati da una volontà cieca e iniqua. Quelli che pensano di vivere per se stessi, ma alla fine non vivono per nessuno.

Con una frase dallo scrittoio, l’hegeliano Dilthey esegue l’esecuzione immateriale dell’Einzelmensch, descrivendolo come un’invenzione dei fumi di menti deviate dall’astrazione. I dittatori del Novecento passeranno invece a metodi meno teorici, eliminando materialmente quelli che non abdicando all’Odradek della società di massa, non si riconoscevano quali astrazioni di fantasmi in un mondo spettrale. Dilthey indica bene la strada per questa dissoluzione del Mensch nel Masse-Mensch (uomo massa), una dissoluzione contro la quale, agli albori della civiltà della tecnica già Rousseau, Stifter, Kierkegaard, Nietzsche, Thoreau e molti altri avevano invece ben messo in guardia.

Wilhelm Dilthey nasce nel 1833, dunque è di vent’anni più giovane di Kierkegaard e di undici più vecchio di Nietzsche, e trascorre una tranquilla esistenza da accademico scrivendo a più non posso sull’uomo, la società e der Staat (lo Stato). Egli è uno di quei troppi cattivi maestri in pannicelli caldi che hanno contribuito a costruire l’orrore sociale, umano e culturale di cui la nostra epoca è così imbevuta da non riuscire quasi più ad accorgersene.

Dalle parole dei cattivi maestri – volontari e involontari – tra Settecento e Ottocento si è dovuti passare attraverso due mostruose guerre mondiali e ferocissimi totalitarismi verticali per giungere al contemporaneo totalitarismo orizzontale che rappresenta solo il perfezionamento di quei meccanismi di controllo orizzontale già molto efficienti nelle società a totalitarismo verticale (in proposito è illuminante e consigliabile la lettura dell’ormai classico I persuasori occulti di Vance Packard).

Il totalitarismo verticale funziona, come appare già dal nome, dall’alto verso il basso: il Re, Imperatore, Capo, Duce, Führer, Segretario Generale, etc. comanda e tutti gli altri eseguono in ordine discendente. Il totalitarismo orizzontale è, invece, un tratto specifico e specioso delle epoche buie ed ha il suo centro nell’omologazione e nel controllo ideologico che il sistema pretende e impone da ognuno trasformandolo, lo si voglia o meno, in suo fattore agente - anche in questo caso la sola scelta possibile è quella tra obbedire o morire. Dante parlerà di costoro con la sua somma poetica ponendoli tutti nel canto terzo dell’Inferno come di quella gente «che par nel duol sì vinta» e Virgilio a lui risponde: «Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo. (...) Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Coloro trasformati in fantasmi dalla loro stessa inedia spirituale sono anche i peggiori artefici di quel dominio silente che vuol imporre ad ognuno la stessa uniforme corporea e mentale. Il totalitarismo orizzontale è raffinato e suadente e certamente più pratico del totalitarismo verticale, anche se il risultato in sostanza non cambia: chiunque si opponga al modello dominante ne viene escluso e, in estrema ratio, eliminato silenziosamente o meno: basti pensare a quello che hanno fatto a Pasolini che aveva fatto della lotta all’omologazione una delle sue battaglie. Dilthey lo scriveva dalla sua comoda seggiola agli albori della Prima Guerra Mondiale: «Il singolo uomo, come essere isolato, è una mera astrazione» e come si potrebbe dunque considerare grave l’eliminazione di un’astrazione? O si può forse biasimare qualcuno che voglia ad ogni costo eliminare un unicorno?

Per tutti quelli rimasti che non sposeranno il Leviatano come luogo ove abdicare alla loro singolarità umana si apriranno i cancelli dei Lager, dei Gulag, dell’emarginazione e del silenzio. In altre parole: o riconosci di essere un fantasma oppure ti ci facciamo diventare noi.

La letteratura del Novecento spiegherà meglio della filosofia questa dissoluzione dell’uomo in un modello di società sempre più estranea all’umano, una società che vuol anzi trasformare l’umano in una “mera astrazione”. Per questo Hans Castorp, quando scende dal Waldsanatorium sulla montagna di Davos (dove oggi, per coincidenza sincronica, si tengono anche i grandi incontri dell’economia mondiale) non riesce più a riconoscere il mondo che aveva lasciato neanche un decennio addietro e, dall’altra parte, Bartleby di Melville, Oblomov di Ivan Aleksandrovič Gončarov, il Babbitt di Sinclair Lewis, Gregor Samsa di Kafka o Ulrich, ne L’uomo senza qualità, i quali, con metodi satirici, grotteschi o filosofici, cercano tutti di sfuggire ad un mondo che li vuol trasformare in vuote astrazioni. Il paradosso della società della tecnica creata, a suo dire, per servire al meglio l’uomo è che in essa proprio l’uomo non ha la tendenza a scomparire, ma deve forzatamente scomparire. E così i personaggi dei romanzi, ossia delle astrazioni, diventano quelli che, come voleva Pirandello nei Sei Personaggi, mostrano più realtà degli esseri umani a cui vorrebbe condurci la società della cogitatio caeca.

Nella notte di questa società contemporanea sembra sia quasi impossibile capire che la gravità dei problemi che affliggono il nostro mondo è profondamente umana e la scomparsa dell’individuo, e forse anche degli unicorni, è uno di questi sintomi: perdiamo sostanza e per questo diventiamo sempre più trasparenti.

Bartleby, il personaggio del racconto omonimo, diversamente dagli sciocchi umani in carne ed ossa che dicono sempre di sì alle assurdità ed ai capricci interessati del potere, si limita ad un “Preferirei di no, I would prefer not to”. Adolf Eichmann invece, come tutti gli altri “volenterosi carnefici” di ogni tempo e nazione, ai suoi ordini disumani obbedisce eccome: eccolo lì l’uomo senza astrazione, eccolo lì in divisa inamidata e in azione!

(Tratto da: Sergio Caldarella, L’eclissi dell’Einzelmensch e la scomparsa degli unicorni, in «Corsi e ricorsi», Rivista di Studi aperiodici, nr. VII, luglio 2011
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Sunday, July 17, 2011

Così è se vi pare


Dilettevoli le recenti dimissioni annunciate, in questi ultimi giorni, da Rebekah Brooks, già direttrice del tabloid “News of the world” e relative ad uno scandalo di intercettazioni. Pare che, nelle ultime ore, la signora sia anche stata arrestata e questo, invece, non diletta per nulla. Dico “dilettevoli” perché queste dimissioni hanno il solito sapore dei giochi e delle cose finte con le quali questo mondo nuovo ama trastullarsi. Se c’è una cosa che davvero non convince in questa nostra società del contrario sono proprio le sue finzioni, il voler anzi mostrare ad ogni costo qualunque finzione come realtà, lanciando finti problemi per convincere, in genere, quelli che sono già convinti.

Rebekah Brooks è forse l’ennesimo caprum emissarium di questa società fatta di quinte teatrali, specchi e parate. Quando si scopre il velo di uno degli innumerevoli orrori, falsità e atti di empietà che stanno alla base di un sistema del profitto e dell’annichilazione dell’umano, allora si grida allo scandalo perché, a dispetto di quello che sta nelle cantine, la facciata bisogna pur sempre tenerla pulita. Questo è però uno di quei tanti casi in cui il paradosso è fin troppo evidente. Sarà anche che questa Rebekah Brooks è quello di cui si dice – come avrebbe altrimenti potuto raggiungere gli alti vertici in un sistema sociale come il nostro se non fosse stata al livello della società di cui è parte? – ma questo “News of the world”, un tabloid di pettegolezzi e copertine scandalistiche, chi lo leggeva? Era forse la Brooks che ne comprava tutte le centinaia di migliaia di copie vendute? Certamente no. Se Rebekah Brooks è colpevole di essere ciò che è, non lo sono anche le centinaia di migliaia di lettori che provvedevano a decretarne il successo con il loro contributo individuale? Oppure quelli si salvano solo perché sono in tanti? Si racconta che Pilato era colpevole, ma quelli che hanno gridato "Barabba" a squarciagola, erano anch’essi senza colpa? Non è che la gente non sappia, finge soltanto di non sapere.
L’individuo omologato respira i codici non scritti della società in cui vive e per questo se nasce a Teheran sarà un fervente musulmano, a Roma un appassionato cattolico, a Manchester un fervente anglicano ed a Mosca un barbuto ortodosso. L’omologato, quello che sa sempre da che parte stare solo perché è la parte dove stanno tutti, è anche quello convinto di non avere colpe quando si tratta di una colpa o di un vizio condivisi dalla collettività. Quello che all’omologato interessa è assomigliare agli altri, perché così può convincersi di poter vivere senza colpa: una mattina grida “Duce, Duce” in piazza Venezia e, pochi anni dopo, se ne sta a contemplare lo stesso Duce appeso a testa in giù a Piazzale Loreto e in ogni circostanza si crede sempre senza colpa perché fa “quello che fanno tutti”. In ogni ambito, in ogni tempo, sotto ogni cielo, quello che all’uomo omologato importa è indossare l’abito che indossano tutti: “fare come gli altri”, ossia vivere a prestito. Impiccare un poveraccio su un patibolo al centro di una piazza è cosa deprecabile nella Roma di oggi, ma poco più di un secolo fa era ancora uno spettacolino cui portare i figli perché era proprio così che facevano tutti. Oppure poco più di un settantennio fa, in Germania, i pogrom di regime cui i soliti volenterosi partecipavano o facevano da spettatori diventavano effrazioni solo quando scannando la gente per strada si faceva troppo rumore. Anche in questo caso era quello che facevano tutti. Quello che davvero spaventa nella storia è che gli omologati non si tirano mai indietro davanti a nulla. Additare oggi l’ex direttrice di “News of the world” significa, per gli omologati, solo liberarsi della colpa scaricandola su una di loro: è lei la responsabile di tutto, loro si limitavano a leggere quello che questa tizia faceva scrivere. Peccato per Rebekah Brooks, aggressiva, rampante, sicura e in carriera, che è però finita tra le maglie dell’ingranaggio che tanto amava: lei, in sostanza, aveva solo fatto quello che fanno tutti.
(Sergio Caldarella)

Saturday, May 21, 2011

Una nota su Fernando Pessoa


Si dice che un poeta, per esser grande, deve anticipare, precorrere i tempi in virtù delle sue illusioni divinatorie ma un poeta come Fernando Pessoa non precorre né vuol preannunciare nulla, anzi, proprio perché incapace di farsi araldo di alcunché, accoglie in sé altre anime capaci, a suo modo, di esprimere più significati di quanti ne siano possibili ad una sola vita. Tra le sue pagine Pessoa definisce se stesso come «una sola moltitudine», egli è Fernando, ma anche Alberto Caeiro, Alexander Search, il signor Crosse, insieme a tanti altri, e da bambino, nel suo primo eteronimo, nomina se stesso con l’attributo di Chevalier de pas, quasi un eco dell’ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, l’antico paladino di Spagna in lotta contro i noti mulini a vento. Pessoa rappresenta – e allo stesso tempo nega – l’essenza contraddittoria del suo secolo: egli, come altri in seguito, non vuol essere coinvolto nel turbine del mondo e vorrebbe, come il suo eteronimo Bernardo Soares nel Livro do Desassossego, solo restare alla finestra contemplando, non necessariamente dall’alto, le forme colorate e la vita che le strade di Lisbona intersecano con lucenti abilità di colori e profumi. È anche per la sua grande capacità di vivere le vite che si nascondono nella vita che la scrittura di Pessoa riesce a trasportare il lettore dentro i suoi universi fatti di strade, balconi, luci e viaggi dentro l’anima del poeta. Pessoa è capace di far respirare l’aria della stanza dalla cui finestra il suo eteronimo Bernardo contempla le strade di Lisbona. Di Pessoa sappiamo pochissimo e di lui abbiamo rischiato di perdere tutto. Da vivo pubblicò un solo libro e conservò i suoi manoscritti in un baule la cui storia è ancora tutta da raccontare. Sappiamo che Pessoa era un uomo apparentemente tranquillo, una figura dell’inquietudine: scriveva perché non poteva fare altrimenti, vivendo del magma della sua arte in cui ogni nuova coscienza partorita non si riconosce mai uguale a se stessa. Fernando non trascorreva le ore sulle pagine affinché gli dessere dell’argento, ma consumava matite e inchiostro perché ignorava un modo diverso, o migliore, per fronteggiare il riflesso cangiante delle vite dentro la vita.

Nella scrittura di Pessoa e nei suoi eteronimi c’è il riflesso che il suo secolo proietta nelle anime sensibili; c’è il senso di tante disperazioni e la contrapposizione ad una realtà da cui si ritiene estraneo. Forse Pessoa rappresenta il Novecento più e meglio di altri autori perché, con il suo sottrarsi al caotico ballo, ne mostra le innumerevoli falsità e inconcludenze che trascinano i loro piedi pesanti fin nel nostro secolo. Fernando ha rischiato di trovarsi tra le pagine della storia mai scritta, sarebbe bastato veramente poco perché perdessimo tutto di lui, ma oggi egli è qui e sorride ancora di un tempo che cerca negli uomini meno di quanto essi possano dare o dire.



(Sergio Caldarella)

Testo parzialmente pubblicato sul quotidiano «La Stampa»).

Tuesday, May 10, 2011

Nature


Nature is what cannot be changed.
(Dr. Divago)

Monday, May 9, 2011

Eternity


The eternity

is just not here.

Sunday, May 8, 2011

Just a chance


Prophets, poets, philosophers, real scientists don’t fight against the majorities; they just give them a chance.
(Dr. Divago, 2011)



Saturday, May 7, 2011

The Sickness Unto Death


Sören Kierkegaard in The Sickness Unto Death (reference to the eleventh chapter of the Gospel of John, in which Jesus raises Lazarus from the dead), talks about the three forms of despair, and the first stage of despair is “not being conscious of having a self” (the other two are: “not willing to be oneself, but also despair at willing to be oneself”) but, to the masters of wisdom, enlightenment is just “being conscious of not having a self”.

Thursday, May 5, 2011

Sometimes simplicity is just what is lost in madness…

Some people, are nowadays still raking over the cold fusion mythology, claiming that they can generate energy by a so called nickel/hydrogen nuclear reaction or pile… seems that this people they still haven’t heard the old Einstein’s quip that “A good joke should not be repeated too often.”

In brief: “The Focardi-Rossi approach considers this shielding a basic requirement for surpassing the Coulomb barrier between the hydrogen nuclei (protons) and the Nickel lattice nuclei, resulting into release of energy, which is a fact, through a series of exothermic nuclear processes leading to transmutations, decays, etc.”

A est… 10,000.0 watts power of cell
B est… 1.0 hours est. demo time
C def… 3,600.0 J/Wh
D = A*B*C 36,000,000.0 J (joules) power produced
E def… 1.60E-19 J/eV
F = C/D 2.25E+26 eV power in eV produced
G PER Nucleon:
H def… 511,000.0 eV per positron
I est… 727,000.0 eV per K-shell e-capture
J est… 103,000.0 eV per dynamics
K = sum 1,341,000.0 eV (sum) est. from physics
L = F/K 1.68E+20 num transmutations req'd.
M est… 1.0 kg est nickel mass
N def… 6.02E+23 num avogadros num
O def… 63.5 mol-g for nickel
P = 1000*M*N/O 9.49E+24 atom/kg
Q = L/P 1.77E-05 ratio fraction of Ni transmuted
R =… 17.7 ppm same, in part/million


Their major claim is therefore that they are going to be able to produce “large amounts of energy by a nuclear fusion process between nickel and hydrogen, occurring below 1000 K” http://newenergyandfuel.com/http:/newenergyandfuel/com/2011/03/09/updating-the-rossi-focardi-cold-fusion-reactor/


In their cumbersome approach they claim, among other things, that in the experiment the energy is released from the hydrogen nucleus binding into the nickel. Unfortunately On the other hand every College student is aware that there is no known matter in the universe with binding energy higher than 8.7946 MeV/nucleon (which is the case for 62Ni). As far as we know there is nothing higher! The energy from the so called Nickel/Hydrogen cold fusion reaction would not enough to lead to an extra proton being bound in with an atom where the nucleons have av. 8.7 MeV binding energy! So there is no way that a 62Ni nucleus could be transformed exothermically into anything!

In simple terms:
Isotopic mass of nickel-62 N(n) = 61.9283451(6) u
Isotopic mass of hydrogen-1 H = 1.00782503207 u
Sum: 62.9361701

But sometimes simplicity is just what is lost in madness…

Wednesday, May 4, 2011

I pericoli della democrazia


Forse, come vogliono molti suoi critici, il concetto di democrazia, almeno nelle sue manifestazioni attuali, è davvero un’idea perniciosa e magari, giudicando dai fatti, nessun concetto è mai stato, sul lungo periodo, tanto pericoloso ai fini della sopravvivenza della nostra specie. Come non fidarsi allora del grande Platone quando fa di tutto per metterci in guardia da quest’idea? Certo, oggi più che mai si sono escogitati pseudoantidoti alle idee del grande Greco e allora gli si contrappongono libracci tanto raffazzonati quanto celebrati in cui lo si chiama “nemico della società aperta” e altre cosucce. Chiaramente un attento lettore dei Dialoghi sorride di quest’ennesimo vituperio che la vile modernità vuole imporre alla grandezza attraverso i crismi della sua piccolezza. La ragione del sorriso da parte di un conoscitore dell’opera di Platone è data dal fatto che, già a suo tempo, accusarono il sublime maestro Socrate di voler corrompere la gioventù di Atene e schernire gli dèi della polis, così l’accusa di nemico di una società falsamente aperta che riecheggia oggi nei confronti del discepolo appare ancor più insensata e banale, persino nella sua rozza mancanza di originalità. Denigrare una mente eccelsa significa solo affermare qualcosa sulla propria piccolezza. Quando si parla di menti eccelse bisogna temere le parole ardite, perché dicono su noi stessi molto più di quanto crediamo. Chi ha la scempiaggine di proclamare frasi del tipo “Einstein era uno sciocco” in realtà, per le orecchie di chi sa ascoltare, sta solo dicendo “io sono un cretino”. Gilles Deleuze lo dirà benissimo durante un colloquio: «La fisima degli uomini di oggi è di non saper ammirare nulla: o sono “contro”, o situano tutto al proprio livello, mentre chiacchierano e giudicano di tutto. Questo non è il modo di procedere. Si deve procedere sulla via a ritroso, verso quei problemi che un autore di genio ha posto, tutta la strada all’indietro su quello che non dice in quello che dice, al fine di estrarre qualcosa che appartiene ancora a lui, anche se lo si rivolta contro di lui. Devi essere ispirato, visitato dai geni che denunci». Nell’epoca dell’idiocrazia globale, e dunque nell’epoca del giudizio di tutti, la pesantezza di queste frasi non si fa sentire come dovrebbe. In democrazia del resto non sono le idee migliori quelle che si impongono, ma le più votate ergo i concetti più semplici, diluiti, comuni e, in un certo modo, claudicanti. Eppure quando si pensa di mettere ai voti “l’idea migliore” o il libro più degno di questo o quel premio non si pensa neppure per un attimo che se nel loro tempo avessero esposto al ludibrio del plebiscito le idee di Cristoforo Colombo, Copernico o Galilei (la triade degli eretici) questi ne sarebbero usciti molto male e nessuno sarebbe mai partito per gli oceani o alzato davvero gli occhi al cielo. Ma il cinismo del bruto e il qualunquismo del vile sono ormai assurti a verità universali che, a solo metterle in dubbio, si finisce tra le schiere degli eretici e degli esiliati. Oggi si dice anche “selling your ideas” che è, poi, l’esatto contrario dell’antico motto dell’Aquinate: bonum est diffusivum sui, ma ad un’epoca perduta nella follia della hybris come si può avere l’ardire di parlare del bene.



© Sergio Caldarella, 2011

Monday, May 2, 2011

The writer, not even a story.


To write a good page you need at least a friend and a naked woman, lot of lies and lot of booze. You have to walk through fire with minor burnings, or jump from a cliff without breaking your legs; find a rose and don’t take it; being able to feel the breeze in the hottest desert and the warm of a summer night even in the mid of a Midwest winter. If you’re a writer you can, probably is the only thing you really can. You see through things, that’s what writers do. You have eyes capable of seeing through time and people and you’re able to let it go. All you really need is a dirty room at the end of the world with a “do not disturb” sign in red letters hanging in front of the door. You have to write and then forget what you wrote, forget even yourself, and then you’ll start to remember.



© Sergio Caldarella, 2011

Monday, April 11, 2011

Life will tell


Life cannot be mean by itself; it is like a blank slate, depending on what we write on it. Depends on what side we let win, prophets calls it the battle between good and evil, philosophers use instead to call it the battle between the noble and the ignoble. We see the battle, but we can't understand the reason, probably because it is not our task to understand it right now. Life contains the answer, life itself will tell...



For Nietzsche the essence of human life is in justice in a very Heraclitean sense: the forging of time capable of giving the real measure of all things. Giving the proper time, what is small will be seen in his own size and vice versa, time is the horizon that gives the proper weigh. Our contemporary society has instead a dangerously insane fascination for what is futile and stupid (just turn on any TV in any part of the world and you can see what they talk about: all that is futile and has no meaning but to sell you something from a dietary product to cheap religious interpretation and manufactured news). Unfortunately for the dons of the contemporary society we are all humans and therefore all mortals, and in spite of all this apparatus they created to manipulate and control others for their benefit, there will be a time when all questions will find their proper answer, there will be a time, even for the one who believes himself powerful and at the center of the world, where he will have to answer that last question and there, even the wicked and powerful populist, will have to succumb to the truth of life. At that moment no propaganda helps anymore, no makeup protects, no nice smile will hide greed and cruelty. Most people run all their life just to escape the real question and few others just spend all of life waiting for that question. All the rest is diversion. Those who understand that life is more than just “things” are also open to the power of feelings and beauty; the others will never get that.

Saturday, March 12, 2011

Perché Berlusconi piace alla gente?


Qui di seguito un articolo pubblicato nel 2003 che sembra ancora oggi tanto attuale...







L´ultimo decennio di vita politica italiana ci ha mostrato, innegabilmente, almeno un fatto: Silvio Berlusconi piace alla gente, piace davvero! Il consenso che Berlusconi ottiene dalle masse è prima un consenso personale, epidermico e, poi, semmai, un consenso politico. Chiaramente Berlusconi ha decine di consulenti d´immagine che lo aiutano nella creazione di questo suo consenso elettorale, ma se lui non piacesse questo non potrebbe certo bastare. Nixon aveva anche i suoi consulenti e, a dire il vero fu il primo ad applicare in politica i metodi dei consulenti d´immagine che, fino ad allora, avevano solo lavorato per i venditori di sigarette e detersivi eppure John Kennedy, nonostante tutto, piaceva alla gente così Nixon perdette. Allora perché Berlusconi invece piace e piace così tanto da destare, in alcuni dei suoi elettori, un fanatismo quasi religioso e far sfiorare, ma che dico sfiorare, oltrepassare ampiamente, la soglia del ridicolo al direttore del TG 4 Emilio Fede (all'epoca dell'articolo non c'era ancora Minzolini da associare a Fede)con le sue iperboli relative al suo amatissimo Presidente del Consiglio? Beh, Fede pare proprio un buon esempio con cui poter cominciare per tentare di capire le ragioni di questo fenomeno: Fede non assomiglia all´uomo medio, Fede è l´uomo medio che dirige un telegiornale. Chiaramente, come ogni uomo medio, Fede non è uno sprovveduto: dapprima è stato alla Rai dove, come sempre avviene in Italia, ha sicuramente avuto accesso solo per i suoi grandi meriti e per le sue ottime capacità giornalistiche. Inutile ricordare che all´epoca del suo ingresso alla Rai il pentapartito imperava e la Rai non era, e non lo è, una sede apolitica. Tralasciamo questi dettagli; Fede, quando era alla Rai, non si era mai lanciato in una difesa senza quartiere di un leader politico o di un altro, non aveva mai detto di amare Craxi, Andreotti, Longo, Lama o Mariano Rumor mentre oggi dice – e non solo - di amare Silvio Berlusconi, perché? Fede è una vecchia volpe e in genere quelli della sua specie non si sbilanciano così allora perché lo fa? Direte che ormai non ha niente da perdere? No, per quelli come lui la cautela e la circospezione sono dei modi d´essere e proprio per questo il suo sbilanciamento totale a favore di Berlusconi è meritevole di più attenta analisi perché ci fa capire quanto l´attuale Presidente del Consiglio (sì, Berlusconi è davvero Presidente del Consiglio!) faccia presa sull´uomo medio portandolo a mettere da parte la sua naturale cautela. Innanzitutto la differenza che più colpisce tra Berlusconi e, per fare un esempio, Andreotti è che il primo non è solo un politico e il capo di un movimento ma ne è anche il proprietario! Se Giulio Andreotti si fosse trovato in minoranza all´interno del suo partito qualcuno avrebbe anche potuto chiedergli di mettersi da parte: Berlusconi invece non può trovarsi in minoranza all´interno del suo partito perché il partito è il suo! Questo all´uomo medio piace: che se ne fa di queste complicate chiacchiere sulla democrazia, dell´analisi delle idee degli altri, della scelta di un modello, etc. quando qualcuno può dire, come i sovrani di un tempo, “qui è tutto mio e si fa come dico io!”. Non mi meraviglierei di scoprire che Emilio Fede, sotto sotto, nutre convinzioni monarchiche che, per traslazione psicologica, ha proiettato sul suo Silvio. Alla gente questo piace perché gli da un´ingenua sicurezza, ma non è certo solo per questo. Berlusconi è diventato famoso anche perché è l´unico leader che, d´un tratto, inizia a raccontare barzellette ai meeting internazionali con grave imbarazzo dei traduttori (perché Berlusconi mastica solo un po' d´inglese e questo ovviamente lo rende ancora più simpatico) millanta di aver composto canzoni in napoletano, racconta freddure sulla propria moglie (e questo già piace un po´ meno si spera almeno alle donne). Per Berlusconi poi il mondo è bianco o nero: da una parte, quella del bianco ovviamente, ci sta lui e i suoi e dall´altra quella del nero, o del rosso, se si vuole, ci stanno i comunisti con Stalin, Bertinotti, Benigni e compagnia bella. Questa è una visione facile del mondo: si capisce subito e per questo piace. Immaginate un Romano Prodi che va in televisione e cerca di spiegare alla gente i complessi sistemi di equilibrio politico internazionale ed un Berlusconi che sorridente gli dice “sì, sì, ma in verità la colpa è tutta dei comunisti”. Ah, che bella spiegazione! Facile, facile! Bastano tre parole! Che sollievo! Così, dopo aver capito tutto della politica, si può risparmiare tempo prezioso per cambiare canale e andare a vedere quegli intelligentoni del Grande Fratello che a loro volta illumineranno il mondo con qualche altra favoletta. Eppoi c´è qualche idiota a sinistra capace ancora di lamentarsi che, continuando così, le cose andranno sempre peggio: ma cambia canale! Tanto sono tutti del Presidente del Consiglio così troverai solo facce sorridenti che ti spiegano tutto di tutto e magari ti fanno anche comprare qualche bel ventilatore o materasso, che poi siano tutte balle beh, questa è ben altra storia....

(Sergio Caldarella, Perché Berlusconi piace alla gente?, pubblicato sul settimanale Tam Tam nel 2003).

Monday, March 7, 2011

Il sussurro della bellezza


La rosa non è ancora la più bella fino a quando non è la più bella delle rose.

(Dr. Divago)

Saturday, March 5, 2011

La guerra alla bellezza


Per quello che riguarda le umane vicende, capire non serve e non è mai servito a nulla, oggi forse ancor meno di prima. È sinistramente suggestivo quando si pensa che gran parte di quanto avviene nel nostro tempo sia già stato preannunciato, spesso con una preoccupante dovizia di particolari, in special modo nell’Ottocento, da pensatori quali Kierkegaard, Stifter, Marx, Nietzsche, Freud ed altri e, in seguito, da Spengler, Ortega y Gasset, Albert Caraco, Adorno, Marcuse, Horkeimer, Fromm, Cioran, etc. Ebbene, tutti questi acuti pensieri e analisi dell’uomo moderno e contemporaneo non hanno per nulla impedito i terribili eventi ed i crimini perpetrati negli ultimi due secoli con una precisione ed una rabbiosità forse mai incontrate prima nella storia. L’uomo medio, le nuova belva inventata dal tempo, è stato dissezionato e compreso fin nei dettagli; ci è stato detto con chiarezza dove ci avrebbe portati e nonostante tutto non è stato possibile fermarlo, anzi è lui che ha fermato tutti e sta pian piano fermando anche il mondo. Ha puntato su di sé tutti i riflettori e per questo l’unica norma di questa società sembra sia la sola banalità che la pericolosissima medietà impone a tutto e a tutti.

La banalità della mediocritas contemporanea sembra sia ovunque e ormai in una funzione totalmente dominante: o ti adegui ad essa o ti adegui ad essa, tertium non datur. Se un tempo si diceva disce aut discede, questi invece dicono o sei omologato come lo siamo noi o sei contro di noi e allora te la faremo pagare. Magari questa è anche una tra le ragioni per le quali la bipartizione amico/nemico, intellettualizzata dal teorico nazista Carl Schmitt, affascina così tanto questa gente. Uno tra i tanti lati terribili dell’epoca contemporanea è che l’autenticità sembra non conti più nulla e per giustificare e giudicare di tutto e su tutto si ricorre ad un cinismo banale e ad un nichilismo volgarizzato. Forse lo stesso cinismo che Calamandrei faceva rientrare tra i segni del "disfacimento morale" della società del tempo. In questo contesto uno dei più preoccupanti prodotti della contemporaneità è proprio la guerra che essa sembra aver dichiarato alla bellezza. Il bello sembra sia stato bandito dalle case del mondo: tutto è stato omologato, “pratico”, senza più curve né sostanza, senza più anima, ogni cosa è copia di qualcos’altro, anche le idee, anche gli esseri umani. Cos’altro è la globalizzazione se non l’estensione planetaria dell’omologazione? Tutti “uguali” ma non quell’uguaglianza buona, quella dei diritti e della dignità, no, anche quella è stata bandita. Quello cui la medietà aspira è l’omologazione chiamandola uguaglianza. Se tutti gli uomini sono e devono essere uguali nei diritti e nella dignità, questo non significa che debbano diventare delle copie di carta carbone gli uni degli altri: uguale ma diverso, questo è invece un motto autenticamente umano.

Ormai si può invece fabbricare tutto: basta solo un accordo tra i molti determinato da interessi monetizzati. Così basta che un gruppo più o meno nutrito – ma compatto – decida una cosa o un’altra ed essa può venir facilmente fabbricata nelle menti della gente. Tra le più antiche e persistenti fabbricazioni di questo genere figura anche l’antisemitismo.

Dal tradimento della fondazione umanistica della filosofia consegue anche l’abbandono di un ideale umano ispirato al Buono al Vero e al Bello in virtù di un modello umano oeconomicus e superficiale. La superficialità è del resto una conseguenza necessaria di un pensiero che ha rinunciato a pensare sull’uomo e sulla sua natura.

Se un’epoca si dichiara illuminata, multiculturale e apparentemente democratica e non chiede ai suoi appartenenti un miglioramento della loro dimensione umana, ma solo una generica obbedienza e la separazione egoistica dagli altri, può essa davvero dichiarare questi altisonanti ideali? Il problema reale consiste nell’avere eletto il mercantilismo ad unica regola d’esistenza e giudizio. Anche su questo punto siamo stati avvertiti alle origini della storia quando grandi sapienti e profeti mettevano in guardia dall’impoverimento che la cupidigia produce: la povertà della ricchezza contro la ricchezza della povertà. Ma anche quest’avvertimento è stato lasciato passare inascoltato.

Questo modo contemporaneo di leggere il mondo porta con sé un’immensità di pene e dolori di cui a prima vista non ci si avvede: crea esseri umani storpiati, uomini che non sembrano più neppure tali, almeno se abbiamo in mente il concetto di uomo delle epoche classiche e dell’Umanesimo. L’uomo del mondo nuovo è un individuo che non osa neppure lontanamente chiedere a se stesso “chi sono io?”.

Senza luce non può darsi nessuna vita e, come dichiarava il sommo Platone «Possiamo facilmente perdonare un bimbo che ha paura del buio, mentre la vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce». Gli umani dovrebbero avere in se stessi la luce del bello, almeno così ci conferma Immanuel Kant al termine della sua Critica della Ragion Pratica, ma quando il mondo intero è in guerra permanente contro la bellezza, quando esso vive nella suprema menzogna di falsi ideali beceri, quali titaniche forze sono allora richieste agli esseri umani per superare la barriera del buio? Le società hanno sì degli scopi materiali, ma pensare che essi siano lo scopo primario e finale è una negazione implicita della società stessa, almeno della società nel suo significato umano e non mercantile. Per il predatore tutto è solo preda, ma l’uomo può dirsi umano proprio in quanto abbandona lo stadio primitivo della belva dirigendosi verso altre sfere. Pirandello argutamente scriveva: «i figli della lupa nascono con i denti». Una società che, invece di portarti verso la luce, ti prende per mano per spingerti ancora più nelle profondità della terra è una società per le belve non per gli uomini ed esser uomini è sempre stato il nostro valore più grande. Senza la luce dello spirito gli esseri umano diventano anch’essi espressione della tenebra. A tutti sarà data un giorno la possibilità di capire, magari con l’ultimo respiro, ma perché aspettare l’ultimo giorno quando tutta la vita è una continua catena di possibilità? Un antico proverbio dice che tutto è porta: ci sono porte verso infiniti e aspettano solo un nostro gesto, la nostra mano che scosti quella barriera per guardare oltre. Perché rinunciare dunque ad uno dei più preziosi doni, limitandosi ad impilare giorni nella collana del tempo? Per assomigliare a chi? Se proprio dobbiamo decidere di assomigliare a qualcuno, perché non scegliere i migliori tra noi? Forse perché la prima cosa che l’uomo smarrisce diventando materia è proprio la capacità di vedere davvero.



(Tratto da: Sergio Caldarella, La guerra alla bellezza, Il Pungolo, Roma, 3 marzo 2011)

Friday, March 4, 2011

Just a note about the poet as a writer and the writer as a poet.


Excellent words are rare, good words not easy and perfect words unique like a passionate kiss between two lovers. Somehow I believe there is always a relationship between love and words, but only a poet can make such a statement or really see or feel everywhere this relationship. For the people there is usually no difference between the poet and the writer, probably because there are so many writers that are writing poetry and so few poets writing novels. But how many of those authors, even among the biggest, are really diving in both oceans of the soul? The poet believes that all in a life rotates around love, and the writer that all in life rotates around words. That's probably the main difference between them. The poet walks next to a lake even when he is in a crowded street surrounded by gray buildings, while the writer should always knows where he is, because after all he needs to describe it. All that matters for the poet is inside of him, all it counts is the beat of his heart when he feels the shine of beauty or suffer the slings and arrows of the adverse world. The writer needs to look around to get inspired, he needs to see people in the face to capture their expressions, like a painter that uses ink instead of oil colors. For the poet all of this is irrelevant, all he needs is inside of him.

Somehow this also recalls the difference between a theoretical physicist and the experimental one: the later needs big expensive labs and machines, while the first just needs pencil, paper and a good library around. Whoever can dig deeply enough inside himself does not really need the world, does not really needs anything but being. That’s probably why in Defence of Poetry (1819) Shelley wrote that Poets are the unacknowledged legislators of the world.
(Dr. Divago)

Wednesday, February 16, 2011

There is


There is pain
even in the brightest rose.
There is joy
even in the darkest silence.
There are wounds
that cannot be seen.
And there is a dawn
that still has to arrive.

(Dr. Divago, 2011)

Wednesday, February 2, 2011

Cordelia’s love.


Three are the daughters of King Lear: Goneril, Regan and Cordelia. Three, like the stages of life in the riddle of the Greek Sphinx.

King Lear daughters are portrayed by Shakespeare from the riddle their father use in order to test the sincerity of their love. King Lear wants to know if he is really loved and to investigate their hearts he is carefully scrutinizing their words: Goneril, the first one to answer, reveal her insincerity through her arrogance. Goneril’s speech is full with flattery and deceit; as though she praised her father for the sake of personal gain. Regan is the second one to claim love for her father; she, too, reveal the truth through her insincerity. Her egocentric behavior is clearly reflected as she egotistically uttered her love and claim, through comparison, that is greater than Goneril’s love. Cordelia is the last one to speak. She’s a delicate girl not trying to deceive her father that’s why through her words King Lear can glimpse into the truth. She did not try to impress Lear, and she is not indiscreet as her sisters who are too open in what they say. Shakespeare uses a clear metaphor for her: “my love’s more richer than my tongue” (Act I, Scene I), because words are incapable to tell the authentic depth of love. Every word is an attempt to conceive the real truth that only facts can reveal.

King Lear, on his side, is deeply unfair because he tries to put a price tag on his daughter’s affection, he clearly test them with the promise for his wealth. Love versus gold, another impossible conversion, although so common. Cordelia’s speech comes from her depths, from the source of all truth, therefore her words are meaningful: honesty speaks a language that is sharper than swords. At the end, it is not Lear testing Cordelia, but is her true love that puts King Lear on the bench. Cordelia’s love, “richer than her tongue”, teaches Lear that there is something way deeper than words: the deep simplicity of love. “Unhappy that I am – says Cordelia –, I cannot heave. My heart into my mouth. I love your majesty. According to my bond; no more nor less.” For Cordelia life is not “a box of chocolate where you never know what you’re gonna get” as in the unwise advice of Mrs. Gump to his son. Life is always about meaning, not about what you can get. Those who forget this important lesson, forget at the same time what true life is.

Cordelia's key word is in her apparently simple reply: “Nothing,” a word that will reappear several times throughout the play. “Nothing” is as a reminder to King Lear that he really does understand “nothing”, and when he finally sees the truth, he realizes that it is into the depth of nothingness that truth is to be searched for. It seems that the most touching part of the play is in this apparently simple word “Nothing”, which is echoed at the end of the play. The word “Nothing” comes again in Macbeth when the nobleman will say that the entire life is a story “Told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing.” Well, Cordelia’s answer is then both for Lear and for Macbeth: life could “signifying nothing” when love cannot be richer than your tongue.
(Dr. Divago)

Tuesday, January 25, 2011

Kalon kakon


Beauty is the only way that leads to the truth.
(Sergio Caldarella)

Monday, January 17, 2011

The Galileian Paradigm

The Scientific Revolution of the 16th and 17th centuries was grounded in a new way of asking questions about the physical reality and found one of its most eminent representatives in Galileo Galilei.
The Galileian Paradigm discussed within this abstract consists of a picture of the world where the domain of science coincides with and is entirely reduced within the domain of measurement and quantities. For Galilei, “Whatever cannot be measured and quantified is not scientific,” and according to this worldview quantities are objective, impersonal and absolute. In post-Galileian science this statement has shifted further, as Laing stated, as: “Whatever cannot be quantified is not real.”
Beginning in the 16th century, the invention of new measuring instruments (telescope, microscope, thermometer, accurate clocks, etc.) brought forth and materialized the paradigm of an absolute measurability of reality. In the 300 years that followed, this paradigm dominated every instance of thought that aspired to be “scientific.”
It is with the third-class patent office clerk Albert Einstein that the new science started and the Galileian Paradigm began to fade. Einstein proved that measurement, the cornerstone of Galileian science, is not an impersonal event that occurs with impartial universality, but “a human act carried out from a specific point of view in space and time, from the one particular viewpoint of the observer.” After Einstein’s first contribution in 1905-06, Niels Bohr, Werner Heisenberg and the Copenhagen interpretation opens, in the mid ’20s, the road for a universe that is neither determinable nor quantifiable in any absolute way. It is the end of absolute measurement from the subatomic to the cosmological universe. Times are then mature for the passage from the matrix interpretation of Heisenberg to the wave interpretation of Schrödinger where the universe “exists” only as a series of indefinable approximations and within the limits of our relationship with it. As Heisenberg simply stated: “Natural science, does not simply describe and explain nature; it is part of the interplay between nature and ourselves.” In quantum mechanics the whole universe is considered not anymore as the sum of measurable quantities, but as an emerging property of the relationship between the observer and the observed. It is within this framework of the formulation of the Quantum Theory and the birth of this new science that we see the beginning of the separation of modern science from what we call here the Galileian paradigm. The aim of this paper is to discuss some of the aspects of the Galileian Paradigm, its breakdown in modern science, and how the new science on the large scale defines its validity against the conceptual categories of the so-called Galileian Paradigm.

(Abstract from: Sergio Caldarella, The Galileian Paradigm, in AA.VV. Physics in Context, Princeton 2011, pp. 136-49)

Friday, January 14, 2011

Posteri e storia


È curioso riflettere, oggi, sul fatto che i posteri saranno costretti a riscrivere la nostra storia purgandola delle truffe, manipolazioni, menzogne, occultamenti e mirabolanti scoperte di cui vanno tanto fieri i nostri contemporanei. Questi poveretti del futuro ai quali è demandato l’ingrato quanto titanico compito si troveranno di fronte all’oceano di pula delle parole inutili dalle quali dovranno pazientemente filtrare le gemme rimaste. Parte del lavoro di scrematura, come sempre avviene, sarà già stato compiuto dal tempo, anche se la particolarità della nostra terribile epoca e il delirio che essa ha imposto alla bellezza sarà, nonostante l’aiuto del tempo, difficile da scrostare. Nessuno, del resto, può dirsi innocente; né quelli tra noi che si sono astenuti dal correre nella maratona della stupidità e del delirio né, chiaramente, coloro che ne sono stati artefici e tedofori. I primi perché, di fronte al delirio, hanno esaurito le forze, riuscendo a malapena a ripararsi nel silenzio di una caverna di libri o nell’esilio, gli altri perché hanno voluto imporre al mondo ogni goccia della loro violenza e arroganza, pretendendo di abbassare qualunque cosa all’arbitrio della loro volgare miopia. Alla fine, dunque, nessuno potrà davvero dirsi innocente e chiamarsi fuori, così come non era innocente neanche Josef K., nonostante il libro che ne narra la storia inizi proprio dicendo il contrario. Di fronte al dilemma dell’agire impossibile, o del non agire, altro non rimane se non la colpa. E forse è proprio dalla misura della nostra colpa che dipende il senso della nostra redenzione. Forse, e spero che il peso dell’avverbio sia qui ben chiaro, espieremo nel ravvedimento dell’ultimo respiro oppure, finché saremo uomini, nessuna grazia ci verrà concessa o donata.

Ci sono però tra noi coloro i quali lottano anche senza lottare, non solo come Mr. Bartleby il quale, davanti alle richieste del mondo, risponde «I would prefer not, Preferirei di no», ma coloro i quali, di fronte a quest’immenso delirio, ergono una parola che nasce proprio con l’intenzione di esser celata all’anarchia dei molti, come già fece agli albori della storia del pensiero il grande Eraclito di Efeso. Paradossalmente, quelli che rifiutano con ogni forza di banchettare al tavolo della stultitia sembrano assenti ai molti ma, poiché questi ultimi vedono sempre il mondo al contrario, ciò che essi considerano assenza è, in verità, presenza. Sarà dunque demandato ai posteri l’arduo compito di scoprire le innumerevoli presenze in un mondo stracolmo di assenti.

(Da: Sergio Caldarella, Spunti per una cosmologia del delirio, «Il Pungolo» 13 gennaio 2011)