La società globalizzata contemporanea è un mondo in cui sempre più l’immensità della confusione, delle sciocchezze, delle informazioni false, errate o create ad hoc, serve per istupidirci e renderci mansueti di fronte a questo grande gioco manovrato da marionette di vetro.
Stephen Hawking, uno tra i tanti, ha recentemente apposto il suo nome sulla copertina dell'ennesimo libro intitolato: The Grand Design. Questa volta il nostro accademico, novello Laplace, ha bellamente deciso, avec la plume, di espungere la presenza dell'Onnipotente dall'universo. I più ricorderanno la storia riportata da Victor Hugo secondo cui già l’astronomo e matematico Pierre-Simon de Laplace, anche se con maggiore arguzia dei nostri contemporanei, alla domanda di Napoleone il quale, meravigliato, gli chiedeva a proposito de la Mécanique céleste “Comment, vous faites tout le système du monde, vous donnez les lois de toute la création et dans tout votre livre vous ne parlez pas une seule fois de l'existence de Dieu! Ma come, vi occupate del sistema del mondo, fornite le leggi di tutta la creazione e nel libro non parlate una sola volta dell’esistenza di Dio!” rispose: "Sire, je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là. Sire, non ho bisogno di quest'ipotesi". Hawking invece, e il coautore Leonard Mlodinow, che scrive anche copioni per Star Trek, dichiarano drasticamente nel loro recente libro che l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale: “does not require the intervention of some supernatural being”. Chiaramente nell'epoca intellettualmente orrenda in cui viviamo, tutti si gettano a capofitto su una tale dichiarazione, come se fosse una novità, come se non fosse un dibattito che si trascina dagli inizi della storia senziente della nostra specie. Però, si sa, il nostro è un tempo che ha sempre bisogno di novità, così le novità bisogna inventarle anche quando non ci sono e travestire con questi panni lucenti anche una dichiarazione vecchia come il cucco (o come Abacucco). Forse Hawking ha solo pensato di fare concorrenza in libreria ad un altro don dell'accademia inglese come Richard Dawkins (Hawking è a Cambridge, mentre Dawkins è ad Oxford) che da tempo blatera degli stessi temi ed ha recentemente pubblicato The God Delusion, L’illusione di Dio (2006). Non bisogna però pensare che ci sia qualcosa di errato nel discutere o prendere posizione su un tema così affascinante e complesso come quello della divinità; lo hanno fatto in molti e con ragionamenti che hanno prodotto fini elucubrazioni e profondi sviluppi intellettuali. Le idee sul divino dei Greci sono ancora proficuamente dibattute, il Dao de Ching di Lao Tzu ci pone di fronte ad aspetti inusitati del divino e del pensiero, l’argomento ontologico di Anselmo finisce per produrre risultati nella filosofia di Kant e culmina in una prodigiosa elucubrazione matematica da parte di quel genio che era Kurt Gödel. E’ un tema immenso e ricchissimo, almeno per quello che riguarda le epoche passate. Ciò che infatti desta meraviglia nelle osservazioni dei vari Dawkins e Hawking è la loro rozzezza e superficialità intellettuale. Se leggiamo il Talmud o un trattato medievale di teologia – e come non pensare in proposito a Tommaso d’Aquino o Pietro Ispano che fu anche Papa – ci accorgiamo della squisita finezza delle argomentazioni proposte, della logica rigorosa e attenta con le quali le argomentazioni sono costruite, seguite e, oserei dire, inseguite. La grande capacità con cui si trovano le ragioni del divino e si cerca di comprenderne i modi nel mondo, arrivando proprio a comprendere che c’è un punto in cui il pensare legato alle cose deve fermarsi e forse solo un’altra intuizione più fine e sottile può aiutare su quell’ardua strada. Lao Tzu lo dice con tanta chiarezza proprio all’inizio del Dao de Ching: “Il Dao che può essere nominato, non è l’Eterno Dao”, mentre Dawkins e Hawking, come due bambini viziati, strepitano proprio perché non possono nominarlo! Loro vorrebbero essere più in lá del divino, considerano se stessi come l’epitome di ogni cosa e, in questo, assomigliano così tanto al triste uomo medio di questo tempo. Tutto deve condurre a loro e se così non è, meglio negarlo – anche se poi è soltanto con un colpo di penna. Ad un certo punto del libro Mlodinow e Hawking scrivono anche “Because there is a law such as gravity, the universe can and will create itself from nothing” e sembra di essere tornati indietro di quasi duemila anni alla diatriba sulla creatio ex nihilo elaborata dai Padri per rispondere agli Gnostici, nihil novi sub sole dunque. Quello che forse c’è di nuovo è l’attenzione e la ricezione che questo tempo riserva a tali banalità. E non sfugge neppure l’arroganza di un’affermazione in cui si assume una legge fisica come la gravità, ancora non del tutto chiara (non sappiamo se c’è un mediatore della gravità, non sappiamo perché è solo attrattiva, non siamo sicuri che sia solo geometria dello spazio-tempo, non conosciamo tutte le implicazioni di essa a livelli microscopici e macroscopici, etc.), per giungere a conclusioni che non sono neanche lontanamente logicamente giustificabili.
Questa superficiale negazione del divino da parte dei vari Hawking e Dawkins parte dalla solita confusione che domina in questo nostro tempo e non ha nessuna delle basi che magari avevano altre ben più raffinate ed elaborate critiche – almeno fino a quella di Bertrand Russell il quale, più che contro l’Eterno, aveva un ragionevole problema contro le religioni le quali hanno molto contribuito, e continuano a farlo, alla gran confusione che regna sul tema del divino. Paradossalmente, la sicumera contemporanea di argomentazioni che pretendono di negare ciò che non rientra in una sola chiave di lettura del reale è simile a quella del vecchio Cesare Cremonini che, per non far entrare nel suo limitato mondo una porzione di luce, si rifiutò ostinatamente di guardare nel cannocchiale di Galilei. Strano pensare che nel ‘600 erano gli scienziati quelli che portavano avanti la conoscenza e oggi, invece, questi titolati accademici hanno preso il posto di quelli che reggono saldamente la fiaccola dell’ignoranza, della superficialità e dell’oscurità.
Quando si pensa al passato è lieto ricordare quelle menti eccelse e illuminate e le loro meravigliose spiegazioni e interpretazioni del mondo che ormai non trovano quasi più rispondenza in questa società meschina e barbarica. Raramente l'idiozia e l'arroganza sono state con tale saldezza ed empietà al comando di una società. A meno che non si vogliano ripercorrere all'indietro millenni di storia o addentrarsi, come antropologi, nella mentalità e nella storia di certe tribù cannibali. Certo, nell'accusare un'intera società di barbarie, non si può evitare di venirne accusati indietro: del resto lo schiavo che viene bastonato è proprio quello che non si affeziona alla sua catena. L'organizzazione della tecnica dà alle pecore l'impressione della forza e allora basta sentirsi gregge per sentirsi forti. Dov'è, allora, in questa landa desolata la casa del Buono, del Vero e del Bello? Nel pecoraio? Quello che c'è in questa landa – o rimane – sono unicamente fiumi di vuoti chiacchericci. Tutto parla di cose piccole e aspirare a qualunque cosa grande agli occhi di queste genti è quasi un atto empio e rivoluzionario, per questo ogni grandezza dev'essere accuratamente bandita dal nostro orizzonte, per questo si possono impunemente scrivere libri diffamatori su Einstein, Schweitzer, Gandhi etc. Un’epoca piccolissima, infinitesima, come potrebbe mai capire, o anche lontanamente accostarsi, alla grandezza autentica? In una società di tal fatta bisogna discutere ovunque di fatterelli, di attrici, calciatori e cantanti, del numero di piedi che ha un millepiede o del tempo che farà domani. Vittorini lo diceva così bene in Conversazione in Sicilia: «Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso». Nella sua coscienza da poeta Vittorini ha bisogno di dire che il mondo è "molto offeso", non solamente "offeso" ed è proprio in quel "molto" che si celano così tanti segreti. Oggi, epoca in cui tutto sembra sia solo questione di consensus, chi può ancora arrivare a capire l'offesa del mondo? Forse solo quei pochi poeti ancora rimasti.
Sergio Caldarella
Stephen Hawking, uno tra i tanti, ha recentemente apposto il suo nome sulla copertina dell'ennesimo libro intitolato: The Grand Design. Questa volta il nostro accademico, novello Laplace, ha bellamente deciso, avec la plume, di espungere la presenza dell'Onnipotente dall'universo. I più ricorderanno la storia riportata da Victor Hugo secondo cui già l’astronomo e matematico Pierre-Simon de Laplace, anche se con maggiore arguzia dei nostri contemporanei, alla domanda di Napoleone il quale, meravigliato, gli chiedeva a proposito de la Mécanique céleste “Comment, vous faites tout le système du monde, vous donnez les lois de toute la création et dans tout votre livre vous ne parlez pas une seule fois de l'existence de Dieu! Ma come, vi occupate del sistema del mondo, fornite le leggi di tutta la creazione e nel libro non parlate una sola volta dell’esistenza di Dio!” rispose: "Sire, je n'avais pas besoin de cette hypothèse-là. Sire, non ho bisogno di quest'ipotesi". Hawking invece, e il coautore Leonard Mlodinow, che scrive anche copioni per Star Trek, dichiarano drasticamente nel loro recente libro che l'esistenza dell'universo non richiede l'intervento di un essere sovranaturale: “does not require the intervention of some supernatural being”. Chiaramente nell'epoca intellettualmente orrenda in cui viviamo, tutti si gettano a capofitto su una tale dichiarazione, come se fosse una novità, come se non fosse un dibattito che si trascina dagli inizi della storia senziente della nostra specie. Però, si sa, il nostro è un tempo che ha sempre bisogno di novità, così le novità bisogna inventarle anche quando non ci sono e travestire con questi panni lucenti anche una dichiarazione vecchia come il cucco (o come Abacucco). Forse Hawking ha solo pensato di fare concorrenza in libreria ad un altro don dell'accademia inglese come Richard Dawkins (Hawking è a Cambridge, mentre Dawkins è ad Oxford) che da tempo blatera degli stessi temi ed ha recentemente pubblicato The God Delusion, L’illusione di Dio (2006). Non bisogna però pensare che ci sia qualcosa di errato nel discutere o prendere posizione su un tema così affascinante e complesso come quello della divinità; lo hanno fatto in molti e con ragionamenti che hanno prodotto fini elucubrazioni e profondi sviluppi intellettuali. Le idee sul divino dei Greci sono ancora proficuamente dibattute, il Dao de Ching di Lao Tzu ci pone di fronte ad aspetti inusitati del divino e del pensiero, l’argomento ontologico di Anselmo finisce per produrre risultati nella filosofia di Kant e culmina in una prodigiosa elucubrazione matematica da parte di quel genio che era Kurt Gödel. E’ un tema immenso e ricchissimo, almeno per quello che riguarda le epoche passate. Ciò che infatti desta meraviglia nelle osservazioni dei vari Dawkins e Hawking è la loro rozzezza e superficialità intellettuale. Se leggiamo il Talmud o un trattato medievale di teologia – e come non pensare in proposito a Tommaso d’Aquino o Pietro Ispano che fu anche Papa – ci accorgiamo della squisita finezza delle argomentazioni proposte, della logica rigorosa e attenta con le quali le argomentazioni sono costruite, seguite e, oserei dire, inseguite. La grande capacità con cui si trovano le ragioni del divino e si cerca di comprenderne i modi nel mondo, arrivando proprio a comprendere che c’è un punto in cui il pensare legato alle cose deve fermarsi e forse solo un’altra intuizione più fine e sottile può aiutare su quell’ardua strada. Lao Tzu lo dice con tanta chiarezza proprio all’inizio del Dao de Ching: “Il Dao che può essere nominato, non è l’Eterno Dao”, mentre Dawkins e Hawking, come due bambini viziati, strepitano proprio perché non possono nominarlo! Loro vorrebbero essere più in lá del divino, considerano se stessi come l’epitome di ogni cosa e, in questo, assomigliano così tanto al triste uomo medio di questo tempo. Tutto deve condurre a loro e se così non è, meglio negarlo – anche se poi è soltanto con un colpo di penna. Ad un certo punto del libro Mlodinow e Hawking scrivono anche “Because there is a law such as gravity, the universe can and will create itself from nothing” e sembra di essere tornati indietro di quasi duemila anni alla diatriba sulla creatio ex nihilo elaborata dai Padri per rispondere agli Gnostici, nihil novi sub sole dunque. Quello che forse c’è di nuovo è l’attenzione e la ricezione che questo tempo riserva a tali banalità. E non sfugge neppure l’arroganza di un’affermazione in cui si assume una legge fisica come la gravità, ancora non del tutto chiara (non sappiamo se c’è un mediatore della gravità, non sappiamo perché è solo attrattiva, non siamo sicuri che sia solo geometria dello spazio-tempo, non conosciamo tutte le implicazioni di essa a livelli microscopici e macroscopici, etc.), per giungere a conclusioni che non sono neanche lontanamente logicamente giustificabili.
Questa superficiale negazione del divino da parte dei vari Hawking e Dawkins parte dalla solita confusione che domina in questo nostro tempo e non ha nessuna delle basi che magari avevano altre ben più raffinate ed elaborate critiche – almeno fino a quella di Bertrand Russell il quale, più che contro l’Eterno, aveva un ragionevole problema contro le religioni le quali hanno molto contribuito, e continuano a farlo, alla gran confusione che regna sul tema del divino. Paradossalmente, la sicumera contemporanea di argomentazioni che pretendono di negare ciò che non rientra in una sola chiave di lettura del reale è simile a quella del vecchio Cesare Cremonini che, per non far entrare nel suo limitato mondo una porzione di luce, si rifiutò ostinatamente di guardare nel cannocchiale di Galilei. Strano pensare che nel ‘600 erano gli scienziati quelli che portavano avanti la conoscenza e oggi, invece, questi titolati accademici hanno preso il posto di quelli che reggono saldamente la fiaccola dell’ignoranza, della superficialità e dell’oscurità.
Quando si pensa al passato è lieto ricordare quelle menti eccelse e illuminate e le loro meravigliose spiegazioni e interpretazioni del mondo che ormai non trovano quasi più rispondenza in questa società meschina e barbarica. Raramente l'idiozia e l'arroganza sono state con tale saldezza ed empietà al comando di una società. A meno che non si vogliano ripercorrere all'indietro millenni di storia o addentrarsi, come antropologi, nella mentalità e nella storia di certe tribù cannibali. Certo, nell'accusare un'intera società di barbarie, non si può evitare di venirne accusati indietro: del resto lo schiavo che viene bastonato è proprio quello che non si affeziona alla sua catena. L'organizzazione della tecnica dà alle pecore l'impressione della forza e allora basta sentirsi gregge per sentirsi forti. Dov'è, allora, in questa landa desolata la casa del Buono, del Vero e del Bello? Nel pecoraio? Quello che c'è in questa landa – o rimane – sono unicamente fiumi di vuoti chiacchericci. Tutto parla di cose piccole e aspirare a qualunque cosa grande agli occhi di queste genti è quasi un atto empio e rivoluzionario, per questo ogni grandezza dev'essere accuratamente bandita dal nostro orizzonte, per questo si possono impunemente scrivere libri diffamatori su Einstein, Schweitzer, Gandhi etc. Un’epoca piccolissima, infinitesima, come potrebbe mai capire, o anche lontanamente accostarsi, alla grandezza autentica? In una società di tal fatta bisogna discutere ovunque di fatterelli, di attrici, calciatori e cantanti, del numero di piedi che ha un millepiede o del tempo che farà domani. Vittorini lo diceva così bene in Conversazione in Sicilia: «Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso». Nella sua coscienza da poeta Vittorini ha bisogno di dire che il mondo è "molto offeso", non solamente "offeso" ed è proprio in quel "molto" che si celano così tanti segreti. Oggi, epoca in cui tutto sembra sia solo questione di consensus, chi può ancora arrivare a capire l'offesa del mondo? Forse solo quei pochi poeti ancora rimasti.
Sergio Caldarella