Mark Fisher è stato un teorico della cultura di massa (culture theorist) morto suicida il 13
gennaio del 2017, all’età di 48 anni:[1] tra le sue pubblicazioni figurano testi sulla depressione, il post-punk
ed altri temi contemporanei, fino ad arrivare al libro Capitalist Realism,[2] il suo lavoro più noto in cui analizza i modi attraverso cui
l’ideologia dominante contemporanea pretende di condensare ed appiattire il
senso e le varie forme del reale su un discourse
unicamente economico. L’essere umano ad
una dimensione, già teorizzato da Herbert Marcuse (1964), è sostanzialmente
l’homo oeconomicus per il quale non
esiste – né può esistere – altra dimensione da quella economica, un soggetto sociale
il quale, dopo essersi arrampicato sul teatro della storia globale, vuol adesso
imporre la propria visione economica monocola come la sola possibile alla quale
non è ammessa alternativa alcuna. È partendo dal presunto «realismo» di questa
visione unidimensionale che viene rivolta la critica alla modernità proposta da
Fisher la quale, muovendo dall’analisi di determinati modelli culturali del postmoderno,
giunge al capitalismo neoliberista che egli indica con il termine, ripreso
altrove, di «realismo capitalista». Nell’ambito discusso da Fisher, la
definizione di realismo capitalista è
indirettamente ispirata alla celebre dichiarazione di Margaret Thatcher secondo
cui «non c’è nessuna alternativa» al sistema economico-politico della globalizzazione
postbellica: there is no alternative, dirà
esplicitamente, ed a più riprese, l’ex Primo ministro del Regno Unito. Questa
dichiarazione della premier britannica, variamente utilizzata dai diversi
partiti conservatori, poi passata anche ad altri partiti, è il perno su cui
ruota il credo omogeneamente diffuso della politica neoliberista nell’epoca del
giro di vite contemporaneo, basato su accumulazione e concentrazione, che i
poteri forti stanno manifestamente imponendo attraverso la globalizzazione
della loro visione economicista[3] fin nel più remoto angolo terraqueo. È in proposito nota anche la sorprendente
ripresa della dichiarazione della Thatcher da parte dell’ex cancelliere
socialdemocratico (SPD) tedesco Gerhard Schröder il quale ripetè, praticamente
traslitterando la frase originaria dall’inglese al tedesco: «Es gibt keine
Alternativen...». Su questo punto viene già da chiedersi: perché il cancelliere
socialdemocratico della Repubblica Federale ripeta, pari pari, una terminologia
utilizzata da un primo ministro conservatore britannico? Che parallelismo è mai
questo? Com’è possibile che vi sia un discorso profondamente e radicalmente
politico com’è quello sull’indirizzo di una società che viene, però, utilizzato
indifferentemente da partiti conservatori e socialdemocratici, come se questo
fosse, invece, un tema neutrale? Non è già questo un elemento di una considerevole
stranezza? Così come sono anche ben sospette le politiche di privatizzazione
dei beni e servizi pubblici iniziate in un punto del mondo e poi passate agli
altri Paesi utilizzando un modello di dismembramento del pubblico e di
appropriazione privata pressoché eguali.[4] Non sono quantomeno curiose queste sincronie politiche tra partiti e
schieramenti i quali, in apparenza, non dichiarano molto in comune, ma agiscono,
poi, come se danzassero al ritmo di una stessa orchestra? È un fatto su cui
bisognerebbe vi fosse quantomeno un concreto dibattito pubblico che non c’è ed
è in particolare su quest’assenza che si basano la forza e le strategie oligocratiche
contemporanee.
Nel termine di realismo capitalista, utilizzato da
Fisher, si sente anche l’eco e l’inversione del vecchio e tristemente noto motto
di «realismo socialista», formulato da Maksim Gor’kij nel ’34, ossia all’inizio
del terrore stalinista che divenne, poi, l’imperativo in tutte le arti nel
blocco sovietico, trasformandosi in uno slogan alla base di un costrutto ideologico
che operava tramite l’imposizione di modelli estetici ben specifici e
politicamente eterodiretti. L’affinità tra «realismo socialista» e «realismo
capitalista» non consiste unicamente nel nome, in quanto il realismo capitalista pratica, in molti
campi, operazioni affini all’intenzione originaria del realismo socialista, arrivando ad utilizzare persino l’arte come
forma pubblicitaria e la pubblicità come se questa fosse arte. Dal lato apparentemente
opposto al mondo socialista, infatti, le litografie di lattine di conserve alimentari,
oppure le immagini grafiche di Topolino realizzate da Andrew Warhola – meglio noto
come Andy Wharol – sono tra le più note rappresentazioni autocelebrative del realismo artistico capitalista che,
proprio in virtù di questa rispondenza ideologica al modello dominante, resero
il loro autore una delle figure più apprezzate dalle case d’aste d’America e
dal pubblico dei Paesi satelliti degli Stati Uniti. Se, da una parte, abbiamo gli
artisti e gli intellettuali del realismo socialista, dall’altra abbiamo quelli
del realismo capitalista: cambiano i termini e l’applicazione, ma non il
risultato. È anzi singolare osservare come, su molti termini chiave e concetti
fondamentali, la simmetria tra comunismo dei Soviet e capitalismo sia
fortemente impressionante, rafforzando quella distinzione tra capitalismo di
Stato ed economia capitalista privata controllata dallo Stato borghese già
indicata da Friedrich Engels nel suo scritto: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla
scienza (1880).[5]
La vicenda del
libro di Mark Fisher sul realismo
capitalista, ma potremmo anche dire la sua biografia politica, ha inizio
durante quella fase postbellica della controriforma del capitalismo portata
avanti anche con l’insediamento della baronessa Margaret Thatcher[6] e dell’attore hollywoodiano Ronald Reagan,[7] la governante ed il maggiordomo dei «poteri superiori»,[8] sostenuti dal grande capitale e coadiuvati dal possente strumento di
manipolazione sociale rappresentato dall’ideologia del neoliberismo,[9] i quali sono stati esecutori di una svolta politica la cui portata
storica non è stata ancora valutata adeguatamente. La Thatcher e Reagan impongono,
apertamente, una riduzione delle libertà e dei diritti individuali della
maggioranza dei cittadini a favore delle oligarchie dominanti. La Thatcher e
Reagan erano la donna e l’uomo giusti per portare avanti un progetto di società
con cui si propone, sotto mentite spoglie, la diseguaglianza socioeconomica
come necessaria, poiché basata sulla
presunta, quanto naturale, «inevitabilità»
del modello economico capitalista, cioè su una trasposizione di darwinismo
sociale e realismo borghese secondo cui la differenza tra ricchi e poveri è un
fatto «naturale» e, in certi casi, persino «divino» – il tutto presentato,
ovviamente, come se venisse perpetrato nel nome dei popoli e del loro interesse
e benessere. Max Horkheimer, in un saggio del 1936 su
Autorità e famiglia,[10] scriveva già di «sofferenze causate dalla realtà che sotto il segno
dell’autorità borghese opprime l’esistenza».
La dislocazione
del potere verso il reame dell’astratto lo rende ancora più forte in quanto,
non potendolo più identificare in maniera precisa, questo viene trasformato in
un’astrazione la quale assume, concettualmente, gli stessi caratteri
genericamente attribuibili alla necessità
naturale, ossia i caratteri di una forza inevitabile, irresistibile e irraggiungibile
determinando, così, da una serie di convenzioni e regole socioeconomiche, una necessitas ordinis naturalis. Questa è
la rappresentazione ideologica della necessità
o dell’inevitabilità capitalista o
neoliberista. Contro un tale potere non incarnato, nessuna resistenza appare
più possibile giacché non vi è un soggetto concreto contro cui resistere.
Questa è proprio quell’irraggiungibilità del Castello indicata da Kafka
attraverso metafora.
Esser posti nella
condizione di non avere alternative ha, inoltre, anche un effetto retroattivo e
significa dover accettare come «naturali» tutte quelle premesse che hanno
condotto alla situazione sociopolitica attuale: una sorta di serpente che si
morde la coda.
Macabri retori del
potere come la Thatcher, Ronald Reagan – oppure,
oggi, Trump o la cancelliera Merkel – non vanno certo a raccontare di rappresentare
gli interessi di una ristretta classe privilegiata o di se stessi, ma
dichiarano, con pompa magna, di avere a cuore gli interessi di tutti,
soprattutto dei piccoli che sanno come manipolare abilmente a loro piacimento. Su
questo punto, oggi come ieri, i più esposti alla violenza ideologica dell’apparato
della modernità sono ancora gli stessi alla base della piramide sociale, ossia coloro
culturalmente indifesi di fronte ai modelli ideologici e persuasivi con i quali
l’individuo viene modellato in una massa docile agli ammaestramenti di coloro
che detengono i mezzi.[11] L’uomo-massa (hombre-masa)
è chi si propone, quale unico progetto di vita, autoconservazione e
riproduzione e l’atomizzazione dell’essere umano che lo rende un mero soggetto materiale
(homo consumens) è, in sé, propedeutica
alla sua trasformazione nell’uomo-massa il quale vive, opina ed agisce secondo
modalità omologate ed eterodirette che egli, però, ritiene illusoriamente autonome.
Non è certo casuale
che Margaret Thatcher, oltre ad aver variamente ripetuto che non vi è
alternativa al modello sociopolitico di cui ella era la benemerita rappresentante,
abbia anche dichiarato, durante il terzo mandato da Primo ministro, nel 1987,
il proprio credo secondo cui «There is no
such thing as society, Non esiste una cosa come la società».[12] Forse qualcuno all’epoca avrebbe dovuto far notare da subito alla signora
Thatcher che la storia conosce già l’assenza del concetto di società: la selva
e lo stato brado non sono sociali, così come possono dirsi, per estensione,
sostanzialmente antisociali le tirannidi, in quanto piegano e modellano la
socialità ai vari capricci ed alla volontà di uno o di pochi. L’assenza di
società non è libertà ma soggezione alla natura, oppure tirannide. Si può
legittimamente dichiarare che la società, quantomeno nella sua concezione
ideale, sia anche un tentativo di minimizzare o eliminare la brutalità e
l’arbitrio tra i propri membri e, dunque, di ricondurre la regola del più forte
alla regola del giusto. In tal senso, il darwinismo sociale o il capitalismo
rappresentano i sintomi di una chiara regressione che si esprime,
ideologicamente, nel ritiro concettuale con cui si propone che siano la forza o
la massimizzazione illimitata del profitto e non l’aspirazione a libertà,
giustizia e uguaglianza le regole «naturali» che determinano le condizioni fondamentali
dell’esistenza umana. Vi è, inoltre, qualcosa di profondamente inumano in chi
sa sempre e soltanto pensare unicamente a se stesso, intendendo la socialità
unicamente come un luogo da cui prendere, senza avere altro orizzonte; chi vive
solo per se stesso, in realtà non sta vivendo per nessuno: «Chi avrà tenuto per
sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa
mia, la troverà».[13] Dichiarare senza difficoltà che non c’è una società, come proclamava bellamente
la signora Thatcher, ossia affermare che ognuno deve sempre e solo pensare
unicamente a se stesso è, dunque, un principio radicalmente disumano.[14]
Queste asserzioni
combinate secondo cui non vi è né un modello di vita alternativo e neppure una
società esprimono, senza mezzi termini, il nucleo radicalmente antisociale ed
anti-umanista dell’ideologia capital-liberista secondo cui non vi è alcuna società, poiché l’essere umano è gettato nel mondo
come una cosa tra le cose in un ordinamento che lo sovrasta e
dal quale non può più sottrarsi. L’essere umano che arriva a trasformare se
stesso in una cosa per farsi valere
sul mercato delle cose, quello che
Marx definiva, nei Manoscritti, come
«il dominio della materia morta sull’umanità», è colui il quale «deve diventare egli stesso una merce (commodity) in modo da poter esistere
come soggetto fisico».[15] A questa terrificante riduzione della persona ad un oggetto o ad una
statistica si pretende non vi sia alternativa, né scampo: «Ciò che prima, nella
fondazione dell’ordinamento statale che si compiva in piena armonia con
l’ideale di libertà, serviva a proteggere la libertà individuale, in séguito
diventa un impedimento di questa stessa libertà, se all’ordinamento non ci si può più sottrarre»[16]
Rivolgimenti
moderni
Dennoch zeigt die ganze Geschichte der modernen
Industrie, daß das Kapital, wenn ihm nicht Einhalt geboten wird, ohne Gnade und
Barmherzigkeit darauf aus ist, die ganze Arbeiterklasse in diesen Zustand äußerster
Degradation zu stürzen.[17]
Karl Marx
È
proprio grazie a figuri imbellettati come Margaret Thatcher o Roland Reagan che,
dopo l’interregnum seguito alle due
grandi guerre mondiali, lo Stato viene progressivamente riconsegnato alle
plutocrazie, rendendo impraticabile e, in molti casi, persino impossibile, l’esercizio
di una libertà autentica per i cittadini a fronte di libertà formali garantite
nominalmente. Baruch Spinoza, il quale era anche un fine teorico politico, aveva
osservato, nel Tractatus
Theologico-Politicus, che l’autentico compito dello Stato è di garantire la
libertà, ma lo Stato cui fa riferimento il filosofo di Amsterdam non è certo
quello che hanno come progetto la governante ed il maggiordomo dei grandi
poteri ed i loro accoliti e mandanti. I
ciambellani ed i retori del potere del nostro tempo fanno poi sì che personaggi
come la signora Thatcher, Ronald Reagan, Milton Friedman, Henry Kissinger e
tutta una sconvolgentemente lunga sfilza di esecutori dei dettami delle
oligarchie e nemici della socialità vengano celebrati, a dispetto di qualunque
evidenza, tanto quanto un tempo si glorificano e si facevano santi certi
monarchi o armigeri che avevano adeguatamente servito, con cappa e spada, il papa
o l’imperatore.
La subdola trasformazione
contemporanea delle democrazie in sistemi politici a conduzione oligarchica è in
molti modi congenita all’imporsi del capitalismo poiché, in una situazione in
cui il capitalismo prevale come dottrina globale, non può esserci posto per
entrambe i poteri ed il plutocrate inghiottirà fatalmente qualunque democrazia,
trasmutandola in una mera democrazia
economica (Wirtschaftsdemokratie),[18] ossia in un’econocrazia che serve, pedissequamente, i fini dei pochi.
I sistemi politici
moderni e contemporanei non possono esser sinceramente detti oligarchie pure, quanto sistemi oligarchici mediati da democrazie
formali (econocrazie), ossia svuotati di quasi ogni autentico contenuto
democratico, tranne quello dell’episodico conteggio numerico dei voti. Qualunque
sistema di potere mira, inoltre, a determinare sempre la visione del mondo di coloro che vi sottostanno [19] e, per ottenere tale risultato, necessita di un apparato che sia
tanto materiale quanto ideologico, poiché senza la concomitanza di questi due
elementi non può darsi un controllo sociale efficiente ed effettivo. Da questo
punto di vista i sistemi oligarchici contemporanei utilizzano efficientemente
la mediazione – e giustificazione – offerta dalle democrazie formali grazie
alle quali è possibile motivare, efficacemente, l’apparato sociale e, al tempo
stesso, nullificare eventuali resistenze interne offrendo, per l’appunto, una
parvenza di legittimità democratica convenzionale: quella che viene qui
definita come econocrazia. Ogni
quattro o cinque anni si ripete il rito dell’urna elettorale e, in virtù di
questa convocazione, chi carpisce il consenso[20] si proclama legittimato ad imporre qualunque norma ed ogni decisione
presa dalla maggioranza partitica viene così investita dal crisma della
sacralità democratica. Inoltre, come hanno evidenziato raffinati teorici del
calibro di Hans Kelsen, anche se il meccanismo democratico non fosse gestito
dall’alto, siano questi partiti e gruppi d’interesse ad essi correlati, «nel
momento in cui la democrazia fa progredire
l’ordinamento – sorto secondo l’idea di libertà (in via ipotetica) per contratto e
quindi per unanimità – con deliberazione di maggioranza, essa si accontenta di
una semplice approssimazione all’idea originaria».[21]
Le ragioni per le
quali il blocco sovietico crolla non sono, come vorrebbero far credere gli
strilloni ed i menestrelli dell’ideologia dominante, unicamente economiche, ma sono
legate più al fatto secondo cui al tipo di società dei Paesi del Patto di
Varsavia si contrapponeva sì un modello sociopolitico in grado di offrire, in
quel particolare momento storico, un benessere materiale non comparabile, ma aveva
anche, alle spalle, un apparato ideologicamente più sottile e pervasivo – basti
pensare all’enorme influenza che il cinema hollywoodiano ha avuto e continua ad
avere sull’immaginario collettivo dei cittadini nei Paesi allineati alle
politiche degli Stati Uniti d’America. Le società del credito e delle merci,
contrapposte al blocco sovietico, avevano a disposizione un modello di realtà ben
costruito cui i residenti dell’Est potevano far riferimento per mostrare ai
loro carcerieri che un altro tipo di mondo era possibile tanto negli assiomi quanto
nei fatti. La guerra fredda ha rappresentato un progressivo irrigidimento delle
posizioni politiche di ognuno dei due blocchi in cui si è manifestata l’impossibilità
di convivenza di due visioni del mondo formalmente divergenti: in questo
conflitto tra ideologie, ognuno dei contendenti lottava per la sopravvivenza,
ossia per il prevalere del proprio modello
di realtà, ma questo significa anche indirettamente – e contrariamente al
diktat della Thatcher – che altri modelli di società sono possibili ed il fatto
che il modello mercantile-capitalista sia prevalso su quello
leninista-sovietico non significa che da questa vittoria dipenda,
necessariamente, ogni universo possibile,[22] ma soltanto che ha trionfato un economicismo più sottile ed
efficiente.
Per molti versi,
il benessere economico dei cittadini nel blocco occidentale dipendeva dal
malessere dei cittadini dei Paesi del blocco comunista in quanto, vista la
minaccia dall’altro lato, non era efficiente, per le oligarchie occidentali,
inasprire la disuguaglianza e irrigidire le condizioni sociali a favore di una totale
massimizzazione del profitto, poiché questo giro di vite prematuro avrebbe
potuto generare delle svolte politiche indesiderabili per coloro al potere. Il
lato grottesco e drammatico di questa vicenda è che, nel
momento in cui i cittadini occidentali hanno celebrato la caduta del muro di
Berlino come un evento che avrebbe favorito una maggior libertà per tutti,
stavano, in realtà, celebrando un momento da cui le oligarchie dominanti d’Occidente
avrebbero lentamente iniziato a limitare e restringere nuovamente le libertà di
tutti. Per molti versi si può anche dire che, a partire dagli eventi del
1989, è ripreso quel processo di soggiogamento delle società che aveva visto un
rallentamento e, in alcuni casi, una pausa seguita al 1918 ed alle varie
rivoluzioni e rivolgimenti dell’epoca, dalla rivoluzione russa a quella tedesca
con cui si giunse alla deposizione dello Zar e della monarchia degli
Hohenzollern, il 9 novembre 1918, e lo stato tedesco divenne una repubblica
parlamentare. La caduta del muro di Berlino si è allora rivelata non come un
punto di svolta nella direzione di una libertà maggiore per tutti, quanto come
il punto d’avvio verso la direzione contraria, ossia la data in cui, dagli
artigli delle oligarchie occidentali, sono stati rimossi i legami di rivalità
con altri sistemi concorrenti.
Nei Quaderni, Simone Weil aveva già avuto
modo di osservare: «I poteri non faranno nulla per diminuire se stessi: anche
se lo volessero, non lo potrebbero, a causa della rivalità»;[23] cascata però la rivalità, nulla può più porre freno alla follia
efficiente che si è impossessata del metodo.
Nel novembre del
1989, i bravi cittadini d’Europa pensavano di celebrare, a Berlino, la fine del
totalitarismo duro della Germania dell’Est e del blocco comunista mentre stavano,
invece, concelebrando l’inizio della lenta fine delle loro libertà e del loro
mondo.
Non avrai altro Dio all’infuori di me.
Once unquestioning
obedience, once fully enslaved, / Once fully enslaved, no nation, state, city
of this earth, ever / afterward resumes its liberty.
Walt Whitman
Quando Margaret
Thatcher, dall’alto della sua carica istituzionale, dichiarava che non poteva
darsi altra alternativa al modello sociale da lei patrocinato, ossia quando affermava
proditoriamente che il modello di mondo cui essa apparteneva si era imposto
come dominante, nessuno dei minatori britannici in protesta (1984-1985) che le
si trovavano di fronte potè replicare altrimenti. Similmente, nessuno degli 11.345
controllori di volo licenziati in blocco da Reagan, nel 1981, e banditi a
vita da qualunque altra attività lavorativa con implicazioni federali per
aver osato scioperare nel Paese della libertà condizionata, aveva potuto
opporre alcunché al latrato del fantoccio imbrillantinato delle oligarchie a
stelle e strisce. Il cosiddetto realismo
capitalista che si palesa in questi eventi e discorsi è ancora il vecchio paradigma
di quella collaudata logica di sferza, bastone e pugnale con la quale, tranne
rarissime eccezioni, vengono dominati gli esseri umani dagli inizi delle
società storiche. È ovvio che, dopo millenni di vicissitudini e, si potrebbe
dire, anche di resistenza, questa logica antica deve proporsi con abiti nuovi e
sgargianti, ma basta prestare un po’ di attenzione per capire che c’è troppo di
vecchio in questo nuovo fiammante.
Ignacio Ramonet,
autore, tra l’altro, dei libri La
Tyrannie de la communication (1998) e Propagandes
silencieuses (2000), aveva già definito, in un celebre articolo apparso su Le Monde
diplomatique del gennaio 1995, l’assioma neoliberista secondo cui l’unica alternativa è l’assenza di
alternativa come «pensiero unico» (pensée
unique), ossia «la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono
universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente
di quelle del capitale internazionale».[24] Nell’articolo in questione, Ramonet denunciava l’ideologia espressa nell’iperbole
formulata all’epoca da Alain Minc secondo cui «il capitalismo non può crollare,
poiché è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale
della società. Il mercato lo è». Ventitré anni dopo questa rocambolesca
dichiarazione, lo stesso Alain Minc, in un’intervista su Libération, aggiungerà: «Il capitalismo è il sistema più efficace e
più inegualitario».[25] Associando qui, con chiarezza, efficienza ed ineguaglianza!
Nel celebre
articolo su Le Monde diplomatique, Ignacio
Ramonet definiva la paccottiglia ideologica con cui si stordiscono le masse contemporanee
come un «nuovo oscurantismo», perseguito con la complicità di un apparato di «docenti di economia, giornalisti, saggisti, uomini politici [i
quali] si richiamano ai principali comandamenti di queste nuove tavole della
legge e, attraverso i grandi mezzi di comunicazione di massa, li ripetono a
sazietà, ben sapendo che, nelle nostre società mediatizzate, la ripetizione
equivale alla dimostrazione».[26] Anche qui, ossia nell’idea secondo cui ripetere molte volte uno
slogan equivalga già a «dimostrarne» la tesi, ritorna un vecchio topos del
solito Machiavelli: come dicevamo, c’è troppo di vecchio e stantio in questo «nuovo»
fiammante con cui vengono indirizzate, manipolate e costantemente soggiogate le
comunità umane.
Una società
soggiogata non possiede più una dimensione politica autentica: contrariamente
al concetto greco di essere umano come animale
politico, ζῷον πολιτικόν, al soggetto contemporaneo non si può
davvero chiedere di possedere una dimensione politica. Per la gran parte,
l’essere umano integrato contemporaneo è ormai un essere soggiogato da norme
sociali determinate da una precisa oligarchia economico/politica della quale
egli accetta il diritto divino o temporale al dominio. Questo è uno dei chiari
punti in cui si dimostra il nostro esser tornati indietro socialmente,
culturalmente e, dunque, umanamente.
Nel
particolarissimo periodo storico contemporaneo, l’opera di Mark Fisher ha una
sua rilevanza in quanto egli è stato una tra quelle poche recenti figure
intellettuali del mondo anglosassone nel quale predomina, invece, una finta
resistenza culturale ben inquadrata, ben pagata e riparata tra i torrioni del
sistema di potere contemporaneo. Aver ripreso e rielaborato i temi della
critica sociologica al capitalismo contestualizzandoli al discorso sociale e
culturale attuale in cui si tende, invece, alla sistematica rimozione di tali
argomenti, rende la critica di Mark Fisher ancor più rilevante poiché rende
accessibili, al mondo di lingua inglese, temi che, in particolare in tali
Paesi, vengono accuratamente espunti dal discorso culturale. L’opera di Mark Fisher
offre un argomento valido a coloro i quali, tra le tante semplificazioni
proposte nel mondo di cultura anglosassone, proclamano che esiste un solo modo
per guardare al reale, ossia la visuale favorevole alle oligarchie capitaliste
che la determinano. È del resto impossibile per l’autorità entrare in conflitto
con il «reale» poiché il potere, proprio in quanto tale, detiene i mezzi per indirizzare
le moltitudini su cos’è reale e cosa non lo è e questa capacità di manipolare
l’immaginazione collettiva rappresenta la forza più grande di coloro i quali
mantengono il controllo sulle società umane. Il fatto che si pretenda poi, o venga
imposto, l’adattamento ad una sola visione del mondo la quale conduce ad un
solo modello di realtà è già, in sé, una richiesta totalitaria. Un sistema come
quello capitalista il quale si pone, intenzionalmente, come dimensione
totalizzante rappresenta, al contempo, una visione del mondo nullificante e può,
dunque, ben essere presentato anche come una forma di nichilismo.[27]
Mark Fisher
definiva le sue ricerche sul Realismo Capitalista come «un progetto di negatività opposto al
pessimismo» e questo poiché «il pessimismo spesso si riduce a vedere cose
cattive dove non ce ne sono, mentre la negatività consiste, per altro verso, nell’esplicitazione
di strutture, atteggiamenti e convinzioni che sono già presenti, ma che tendono
ad essere tra-sparenti o addirittura misconosciute».[28] La rivelazione dell’aspetto macabro di una communitas eterodiretta da una minoranza che, detenendo i mezzi,
modella la socialità a proprio favore, rappresenta, nella teoresi di Fisher, un
«progetto di negatività opposto al pessimismo».
Mark Fisher, da
teorico della cultura di massa, si occupava molto dell’influenza di fenomeni
specifici dell’epoca contemporanea come i cosiddetti «social media», di
elementi di costume diversi, dalla depressione quale elemento endemico alla
società contemporanea e persino dell’effetto dell’uso dei telefonini sulla
psiche, ma anche delle esperienze psichedeliche come modi per accedere a realtà
alternative[29] e di molto altro ancora. Nello sviluppo delle sue analisi, Fisher è
stato influenzato, in particolare, da autori recenti come Gilles Deleuze e
Félix Guattari,[30] dal testo di Frederic Jameson, Postmodernism
or the cultural logic of Late Capitalism,[31] così come dai romanzi cyberpunk di William Gibson e da parecchia
filmografia. Oltre al tema centrale del realismo
capitalista, nel pensiero di Fisher emergono altri concetti chiave come
quello della «produttività simulata» (“the appearance of work is ‘new work’”), con
la quale si «crea una simulazione burocratica della produttività (simulated productivity)», un tema sul
quale pochissima attenzione è stata dedicata dai vari istituti ed istituzioni
che si occupano del tema dell’economia. La produttività simulata è una tra le
molte affezioni della società contemporanea costretta costantemente a mentire
creando continue simulazioni per giustificare il proprio procedere e mantenere
lo status quo.
È importante che Mark
Fisher abbia reiterato, a fronte dell’apologetica proposta dai mezzi di
comunicazione dominanti, il concetto secondo cui: «i veri parassiti della
nostra società sono la classe dirigente»,[32] la quale determina la simulazione burocratica della produttività,
determinando simulazioni di realtà proprio a partire dal mondo del lavoro
passando, così, dalla produzione alla simulazione di questa, diventata ormai
parte di qualunque processo produttivo burocratico, una conseguenza di cui i correnti
epigoni del taylorismo e del postfordismo non si avvedono. Mark Fisher fa anche
osservare, insieme ad altri studiosi, la connivenza della scuola, ed il tradimento
dell’istruzione, in un sistema capitalista dove gli studenti «vengono modellati
per un posto di lavoro».[33] Un tema/problema che emergeva già dagli scritti di Wilhelm von
Humboldt ed è espresso anche nelle preoccupazioni di molti intellettuali e pensatori
della modernità, ma che viene, al tempo stesso, escluso quasi per intero dal
dibattito culturale ufficiale,[34] mostrando come vi sia una chiara direzione politica intesa a non
disturbare il manovratore che ci porta allo sfacelo.
La malattia mentale come problema collettivo.
In dem Augenblick, in dem ein Mensch den Sinn und den Wert des Lebens
bezweifelt, ist er krank.[35]
Sigmund
Freud
Ponendosi, anche
sotto quest’aspetto, nell’alveo di una consolidata tradizione culturale la
quale ha antecedenti eminenti in pensatori del calibro di Freud o Fromm, in Capitalist Realism, Mark Fisher identifica
la malattia mentale come problema collettivo: «la
pandemia dell’angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere
adeguatamente compresa, o guarita, se considerata come un problema privato
sofferto da individui traumatizzati».[36] Questa è una visione generale della società moderna e degli individui
in essa che si trova già in Sigmund Freud, Erich Fromm, Paul Goodman,[37] o R. D. Laing, un discorso che, anche in questo caso, svanisce
lentamente dalla letteratura sociologica ufficiale della nostra epoca. Erich Fromm
scriveva: «Parlare di una società intera come psichicamente ammalata comporta,
implicitamente, l’accettazione di un’ipotesi controversa e contraria alle
posizioni del relativismo sociologico condivise dalla maggior parte dei
sociologi contemporanei. Essi presuppongono che ogni società possa esser detta “normale”
giacché funziona, e che la patologia possa esser definita soltanto nei termini
di un mancato adattamento individuale al tipo di vita proprio di tale società».[38] Se, del resto, la sociologia viene determinata nelle aule dei
dipartimenti universitari, ossia sotto il controllo dello Stato o di privati e
non attraverso un dibattito culturale ed intellettuale generalizzato, come si
può ritenere che coloro i quali si trovano all’origine del problema dell’assenza
di un dibattito culturale possano, poi, analizzarlo propriamente e indirizzare
verso delle soluzioni? Sarebbe come pretendere che un virus studi la propria
cura: «al processo della gallina, la volpe non dovrebbe far parte della giuria»,
avrebbe magari aggiunto lo storico Thomas Fuller.
Quello sulla «malattia
della cultura» è un tema che sorge proprio dall’istituzionalizzazione di questa,[39] giunge fino a Spengler (1918) o all’ultimo Freud de Il Disagio della civiltà (1930)[40] e continua nel Fromm della Fuga
dalla Libertà (1941) e della Psicoanalisi
della società contemporanea (1955),[41] ma si affievolisce fino a svanire dal dibattito culturale ufficiale dell’epoca
contemporanea in cui non soltanto «there is no alternative», per tornare a
Fisher, ma quest’assenza di alternativa, secondo i suoi apologeti, è anche buona,
giusta e indiscutibile. Fisher non intende però l’assenza di alternative in
maniera rigida, ma come visione di una «realtà che è infinitamente plastica,
capace di riconfigurare se stessa in qualunque momento»[42] e questo è uno dei sintomi di una società che si è separata dal reale
e, essendo in grado di sposare qualunque finzione, interpreta la realtà come
infinitamente plastica.
La fatale presa che
le ideologie hanno sulla società contemporanea e la morsa sull’individuo e
sulla sua psiche che queste determinano, deriva primariamente non dall’astuta
veste con cui vengono imposte, ma dall’assenza di un solido retroterra
culturale capace di spiegare e denunciare la costruzione di questi apparati
ideologici fornendovi un antidoto culturale cui far riferimento per rispondere
alla sfacciataggine ed alla mediocrità dei retori della modernità.
Gli
studi di autori come Mark Fisher hanno un valore culturale e sociale particolare
poiché introducono una lettura alternativa al discorso dominante sul capitale
proprio nel mondo anglosassone dove esiste un sottile apparato propagandistico mai
visto prima nella storia documentata della nostra specie e teso interamente
alla creazione dell’incoscienza ed al soggiogamento della dissidenza culturale.
Quando Mark ha deciso di sbattere la porta, togliendosi la vita, il mondo di
lingua inglese in particolare ha perso uno dei suoi rari grilli parlanti.
(© Sergio Caldarella, Mark Fisher: dal postmodernismo cyberpunk al
postcapitalismo, in «Rivista di Studi Critici e Letterari», n. 211, maggio
2019).
[1] Il 7 gennaio del 2019, a non appena un mese
dalla scomparsa, un curioso riconoscimento della sua scomparsa è apparso
persino sul Financial Times che gli
ha dedicato l’articolo K-Punk — in
recognition of Mark Fisher’s lasting influence a firma di Murray Withers.
[2] Trad. it. Realismo
Capitalista, Nero, Roma, 2009.
[3] K. Polanyi ha osservato in merito:
«Sintetizzare l’illusione fondamentale di un’età in termini di un errore logico
raramente si rivela un modo di procedere adeguato; eppure dal punto di vista
concettuale è per forza di cose impossibile descrivere altrimenti l’illusione
economicistica». (La sussistenza
dell’uomo, trad. it. Einaudi, Torino, 1983). Cfr. anche K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini
economiche e politiche della nostra epoca, trad. it. Einaudi, Torino 1979 e
AA.VV., Il sofisma economicista. Intorno
a Karl Polanyi, trad. it. Jaca Book, 2011.
[4] Un caso per tutti è quello riguardante la
privatizzazione delle acque potabili portato avanti pressappoco seguendo lo
stesso modello politico/commerciale dall’America Latina agli Stati Uniti fino
all’Europa o all’Africa.
[5] Inizialmente pubblicato, nella traduzione di
Paul Lafargue, con il titolo di Socialisme
utopique et socialisme scientifique (1880) e seguito dall’edizione tedesca:
Die Entwicklung des Sozialismus von der
Utopie zur Wissenschaft (1883). L’edizione italiana venne tradotta dalla
quarta edizione rivista da Engels nel 1891.
[6] In carica dal 4 maggio 1979 al 28 novembre
1990.
[8] Quelli che, in inglese, vengono sussurrati nei
corridoi come «The powers that be».
[9] Cfr., in proposito, anche, D.
Harvey, A Brief History of Neoliberalism,
Oxford University Press, 2007.
[10] Max Horkheimer, Studien über Autorität und Familie. Forschungsberichte
aus dem Institut für Sozialforschung, Librairie Félix Alcan, Parigi 1936.
[11] Tra le recenti pubblicazioni in merito cfr., R.
Mausfeld, Warum schweigen die Lämmer?:
Wie Elitendemokratie und Neoliberalismus unsere Gesellschaft und unsere Lebensgrundlagen
zerstören, Westend Verlag, Frankfurt am Main 2018.
[12] «I think we have gone through a period when too many
children and people have been given to understand “I have a problem, it is the
Government's job to cope with it!” or “I have a problem, I will go and get a
grant to cope with it!” “I am homeless, the Government must house me!” and so
they are casting their problems on society and who is society? There is no such
thing! There are individual men and women and there are families and no government
can do anything except through people and
people look to themselves first. It is our duty to look after ourselves and
then also to help look after our neighbor and life is a reciprocal business and
people have got the entitlements too much in mind without the obligations.» (Margaret Thatcher)
«There is no such thing as society. There is living
tapestry of men and women and people and the beauty of that tapestry and the
quality of our lives will depend upon how much each of us is prepared to take
responsibility for ourselves and each of us prepared to turn round and help by
our own efforts those who are unfortunate.» (Margaret
Thatcher).
[14] Questo per quanto riguarda i modi in cui
l’umanità prodotta dalle società storiche ha imparato a pensare se stessa fino
in tempi recenti: la modernità sta, invece, procedendo ad una radicale
trasformazione dell’essere umano in quello che è ormai possibile definire come
un homo novus. Cfr. anche S.
Caldarella, L’Ultima dea d’Occidente.
Saggio sulla razionalità inesorabile, Edizioni Illo Tempore, 2008.
[15] H. Marcuse, Neue Quellen zur Grundlegung des
Historischen Materialismus in Die Gesellschaft, 1932, trad. ingl. The Foundation of Historical Materialism in Studies in Critical Philosophy, Beacon Press, Boston, 1972.
[16] H. Kelsen, Essenza
e valore della democrazia, trad. it. G. Giappichelli Editore, Torino 2004,
p. 10.
[17] «Tutta la storia dell'industria moderna mostra
che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e
senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia nella più profonda
degradazione.» (K. Marx, Lohn, Preis und
Profit, §13 (1865)).
[18] Quella che oggi
alcuni chiamano anche: dollarocrazia.
Cfr. Robert W. McChesney, John Nichols, Dollarocracy: How the Money and Media
Election Complex is Destroying America, Nation Books, New York 2012.
[20] Karl-Otto Apel dirà che l’assenso non è ancora consenso.
[21] H. Kelsen, Essenza
e valore della democrazia, trad. it. G. Giappichelli Editore, Torino 2004,
p. 9.
[22] Questa considerazione deve anche basarsi sul
fatto, ormai evidente a molti, secondo cui il modello socioeconomico corrente
sta conducendo l’ecosistema del pianeta al collasso. Se un tempo erano
unicamente le nostre città ad esser rese invivibili dal meccanismo sociale
capitalista il quale, per le sue ragioni di massimizzazione del profitto,
concentrava in queste la produzione richiamando la popolazione rurale per
trasformarla in una popolazione operaia creando, in tal modo,
sovrappopolazione, smog, crimine, incremento della divisione sociale, etc.,
adesso questo processo di distruzione della vivibilità si è esteso all’intero
pianeta in quanto risultato della produzione tecnica e delle modalità del
consumo.
[25] «Le capitalisme est le système le plus
efficace et le plus inégalitaire» Laurent Joffrin, Alain Minc: «L’inégalité est trop forte, nous risquons une
insurrection», «Libération», 8 luglio 2018.
[27] La definizione di capitalismo che,
personalmente, trovo più appropriata è quella di
una follia efficiente che si è impadronita del metodo.
[28] «For whereas pessimism often comes down to
seeing bad things where there are none, negativity, on the other hand, is about
explicating structures, attitudes and beliefs that already are present but that
tend to be trans-parent or even disavowed.» (Jon Lindblom, Mark
Fisher in Memoriam, Part 1. Capitalist
Realism and Beyond Modernism, Unbound, 2018).
[29] Un tema che era già in Aldous Huxley ed il suo
libro Porte della percezione (The Doors of Perception, 1954) in cui
egli esperimentava in prima persona con la mescalina ed il cui scritto divenne
uno dei classici della generazione del Sessantotto insieme a Tolkien, Huxley e
Marcuse.
[30] In particolare il
loro Capitalisme et schizophrénie,
ossia L'Anti-Edipo (1972) e Millepiani (1980).
[31] Originariamente un saggio pubblicato sulla
«Left Review», nel 1984, e poi in volume presso Verso nel 1991.
[32] «The real parasite of our
society are the managerial».
[33] «being fitted for a
workplace».
[34] Cfr. anche: S. Caldarella, La Società del Contrario. Uno scritto sulla
cultura di massa e i suoi intellettuali, Zambon, Verona 2005; The Empty Campus. Education and Miseducation in the New Global Age, Edizioni Illo Tempore,
Princeton 2016.
[35] «Nel momento in cui un individuo dubita del
significato e del valore della vita, egli è malato».
[36] «The pandemic of mental
anguish that afflicts our time cannot be properly understood, or healed, if
viewed as a private problem suffered by damaged individuals».
[37] Paul Goodman, La gioventù assurda, trad. it. Einaudi, Torino 1971.
[38] E. Fromm, Psicoanalisi della società
contemporanea, Edizioni di Comunità, Milano, 1964.
[39] Cfr. anche le Considerazioni inattuali (Unzeitgemässe
Betrachtungen, 1873-76) di F. Nietzsche.
[40] S. Freud, Das
Unbehagen in der Kultur, 1930.
[42] «reality that is infinitively
plastic, capable of reconfiguring itself at any moment» (M. Fisher, Capitalist Realism, Zero Books,
Alresford p. 54).