La cultura, quando è tale, contiene sempre relazioni, connessioni,
rapporti, echi e rimandi continui: nella magione della conoscenza, che è un
castello dalle mille stanze, tutto dialoga ed ogni cosa è ricca di sensi e
significati che arricchiscono costantemente le anime di coloro che fanno delle
terre del sapere e dei libri una casa,[1] poiché la cultura cammina sempre
attraverso le gambe e le teste degli uomini buoni. Nella cultura vi sono
connessioni innumerevoli che conducono, direttamente, da Platone a René
Descartes fino a Immanuel Kant, passando magari per David Hume, così come c’è
un rapporto, magari più evidente, tra Isaac Newton, Albert Einstein e Bertrand
Russell[2] ed uno, magari meno evidente, tra Ludwig Boltzmann, il padre della
termodinamica, e Max Planck, Niels Bohr ed Erwin Schrödinger (e, naturalmente,
di nuovo Einstein). C’è una relazione, anche se non diretta e immediata, tra Charles
Dickens e Karl Marx, tra il Trattato sui
galleggianti di Archimede di Siracusa ed il Trattato sull’equilibrio
dei liquidi e sul peso della massa dell’aria di
Pascal, così come c’è nuovamente un rapporto tra Pappo di Alessandria e Blaise
Pascal (la retta di Pascal è, anche, una retta di equilibrio geometrico
presente in moltissime altre forme e figure) e si trova, qui, l’ennesimo
rapporto con il grande Archimede,[3] così come c’è ancora un tocco di Agostino d’Ippona (si fallor, sum) in Cartesio e di
quest’ultimo in John Locke ed un po’ di Charles Darwin già in Athanasius
Kircher.
Quando
Nikolaj Bucharin – finito a sua volta vittima di quella stessa “macchina
infernale, che si serve di sistemi medievali, e maneggia un potere immane” che anch’egli
aveva appassionatamente contributo a mettere in piedi – con una triste
espressione divenuta ormai parte della storia, parlava dell’uomo come di una mera
salsiccia da riempire, stava qui semplicemente riecheggiando quel topos del materialismo storico,
ereditato dal darwinismo, secondo cui è l’esistenza sociale a determinare la
coscienza, utilizzando un esempio – quello della salsiccia – che, anche coloro
non particolarmente avvezzi alla terminologia marxista, potevano immediatamente
recepire e così, quella che appare come un’espressione sociologica, vista
attraverso la lente della cultura che conosce le cose e ne intende i tanti
legami, si presenta, invece, come una semplice riduzione ideologica e
manipolativa di concetti filosofici ben più raffinati e complessi. Quando,
però, queste vaste correlazioni non si riescono più né a scorgere né a
intendere è perché siamo forse troppo distratti nel camminare impettiti e con
il nasino in aria perdendo, così, quel senso del contenuto umano e profondo
della cultura, e della vita, che consiste nel continuo dialogare con se stessa,
o perché ci è stato inculcato che l’apprendimento avviene in maniera
finalizzata, procedurale ed a compartimenti stagni.
Jorge Luis Borges, uno scrittore
dall’immaginazione mirabolante, ed un grande maestro nell’interpretare il
dialogo della letteratura con se stessa, ricordava che Robert Louis Stevenson
sognò la scena centrale de Lo strano caso
del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) e dovette poi costruire, da
sveglio, intorno a quel nucleo significante che il sogno gli aveva rivelato,
similmente al chimico Friedrich August Kekulé al quale venne rivelata, proprio
in un sogno fatto durante una penichella in tram, la struttura chimica del
benzene. Lungo sarebbe poi ricordare il complesso e antichissimo rapporto tra
sogno e mantica cui persino il grande medico empirista Sigmund Freud sarà
costretto a ricorrere per la costruzione di una tra le sue più grandi formulazioni
teoriche, ossia la teoria dell’intepretazione dei sogni, Die Traumdeutung (1899), la cui prefazione rappresentava,
all’epoca, il più approfondito studio culturale sulla teoria dei sogni
dall’antichità fino a quel momento.
Il Candide di Voltaire discende da Marziale
passando per gli Adagia di Erasmo e,
quando Wittgenstein scriveva “Wenn der Selbstmord erlaubt ist, dann ist alles erlaubt”,[4] stava riecheggiando, consapevolmente o meno, un altro detto che Fedor
Dostojewsky metteva in bocca a Rodion Romanovič Raskol’nikov: “se l’Onnipotente
è morto, tutto è permesso” che in tedesco era stato tradotto, per l’appunto, con
“Wenn es keinen Gott gibt, dann ist alles erlaubt”. Questo è, poi, anche un discorso indiretto sul concetto di necessità – in altre parti Dostojewsky
scriverà: “tutto è permesso. (...) quando non s’ha nulla da mangiare” e questo
discorso potrebbe facilmente condurre direttamente ad altri libri come Les Misérables di Victor Hugo, oppure
all’ispirazione filosofica di Jean-Jacques Rousseau sul rapporto tra uomo e
natura. Nella landa della cultura i discorsi sono sempre molteplici, non
univoci.
Ne
Il Maestro e Margherita, è Woland,
ossia il satanasso, a dire al Maestro «I manoscritti non bruciano», mostrandosi
come colui che si rende ben conto del peso della cultura, e Bulgakov utilizza
qui proprio la minuscola citazione del nome Woland che viene presentato una
sola volta nel Faust di Goethe che, a
sua volta, lo riprendeva da nomi antico-germanici del satanasso. Michail
Bulgakov, abilissimo nelle scelte simboliche, nel libro ricordato chiamerà
“Behemoth” il gattone satanico e bizzarro “grosso come un maiale, nero come il
carbone o come un corvo, con tremendi baffi da cavalleggero” sintetizzando,
proprio nella scelta di questo nome e dell’animale, molteplici tradizioni tutte
in un’unica figura. Innanzitutto il nome “Behemoth”, contiene il riferimento
all’antica ed ambivalente immagine biblica di un “immenso animale”, una delle
tre creature straordinarie: Leviatano, Behemoth[5] (plurale di behemah,
bestia) e Ziz, menzionate nel libro di Giobbe (40:15-24) che alcuni hanno
identificato con l’ippopotamo ed in russo il nome “Behemoth” ha un’assonanza
linguistica proprio con “ippopotamo”. Bulgakov, però, associandolo al gatto,
combina qui un’altra tradizione esoterica in cui il felino è rappresentante di
ambigue figure dell’oscurità e, magari, pone anche un certo riferimento al
gatto di Alice nel Paese delle meraviglie
o chissà se l’animale ne Il Maestro e
Margherita è la sintesi del gatto Murr di E. T. A. Hoffmann, quello di Aleksandr
Puskin e un po’ quello di Schwarz. Tutti questi riferimenti sono possibili
attraverso la scelta del carattere di un libro e di un nome, ma anche
attraverso quell’eterno e continuo dialogo che la cultura intrattiene con se
stessa; per chiunque però legga con occhi estranei al contesto significante
della cultura Behemoth è solo il nome di una creatura bizzarra: A rose is a rose is a rose, avrebbe
detto Gertude Stein.
Friedrich
Nietzsche dirà che il pensiero dell’Eterno
ritorno era stato la sua più grande illuminazione, ma questo concetto era
già presente nei Pitagorici e in Kierkegaard che, a sua volta, lo collegava
proprio all’anamnesi del pensiero greco, così il più grande pensiero di
Nietzsche, il «più abissale» come si esprimerà egli stesso, se contemplato
attraverso le prospettive della vasta landa della cultura, appare come un
pensiero che era già stato pensato e che il filosofo di Röcken veste di nuovi
panni, mentre quello straordinario personaggio che era Louis Auguste Blanqui,
ne L’Eternité par les astres (1872),
riteneva di aver persino dimostrato matematicamente
la dottrina dell’Eterno ritorno!
«La
ripetizione rende gli uomini felici, mentre la rimembranza li rende infelici»
dirà ancora Kierkegaard, «ripetizione e ricordo sono la stessa cosa»,
continuerà sibillinamente il filosofo danese e ancora: «La rimembranza ripete e
la ripetizione è rimembranza», quale delizioso esempio di circulus in probando. Nel concetto dell’Eterno ritorno, sia questo
in Kierkegaard o in Nietzsche, si rinviene anche la traccia della metempsicosi
che era, poi, un’alternativa all’immortalità che non poteva essere richiesta dagli
umani agli dèi, poiché la memoria è un’immortalità succube e quando, infatti,
all’eroe Etalide, il messaggero degli Argonauti, il padre Ermes offrì la
ricompensa di qualunque cosa egli avesse chiesto tranne l’immortalità, Etalide
scelse un’immortalità succube, minore nel grado, ma uguale nella sostanza,
ossia di poter mantenere il ricordo di tutte le vite che avrebbe vissuto. La
leggenda racconta allora che Etalide, dopo diversi transiti sulla terra, si
reincarnò proprio nel filosofo Pitagora il cui ruolo sapienziale è ben noto:
qui il sapere arcaico del mito si interseca con il sapere filosofico attraverso
il rimando tra i due eroi. Ed eterno è, similmente, il ritorno del circolo
della cultura e della conoscenza che dialoga, costantemente, con se stessa e
con gli uomini.
Tra le tante suggestive assurdità e non sequitur del nostro tempo c’è quella secondo cui, diversamente
da ogni altra epoca, l’originalità di oggi coincide con l’allineamento al
modello di un gruppo sociale o di una classe d’interesse, mentre fino a non
troppo tempo addietro, originalità significava pensare quello che nessuno aveva
ancora pensato o creato – e questa singolare omologazione culturale vale, oggi,
tanto per il pensiero quanto per le arti o l’economia. Quando Rousseau presentò,
nel 1750, il Discours sur les sciences et
les arts, in risposta al quesito “Se il rinascimento delle scienze e delle
arti abbia contribuito a migliorare i costumi”, bandito dall’Académie des
sciences, arts et belles-lettres de Dijon, il pensatore ginevrino propose un
approccio al tema totalmente originale e contrario che, diversamente da quanto
avverrebbe ai giorni nostri, venne accolto favorevolmente e lo rese
immediatamente noto al mondo culturale del suo tempo. Nella nostra epoca,
invece, la filosofia scompare dai cataloghi degli editori e dalle pagine
culturali dei giornali solo per far spazio al vuoto della chiacchiera e della
ripetizione di contenuti noti o astutamente congegnati per distrarre.
Quest’attenzione sospetta nel soggiogare ed annichilire la cultura ha, del
resto, anche le sue ben precise motivazioni politiche poiché gli obiettivi
politici di un popolo sono anche motivati dalla cultura che vi sta alla base: i
Greci, ad esempio, quando si scontrarono per la prima volta con i Romani,
rimasero atterriti ed esterrefatti di fronte ai gladi che, essendo a doppio
taglio ed estremamente affilati, procuravano ferite che gli Elleni non avevano
mai visto, né essi ritenevano il Bellum
Romanum una condotta nobile in battaglia. L’uso di queste nuove armi capaci
di infliggere squarci disumani e in grado di provocare ferite invalidanti o
morte successiva, era sì il prodotto di una diversa strategia bellica da parte
dei Romani, ma anche il prodotto di una cultura radicalmente diversa da quella
greca. Nella cultura Romana l’uomo non è più centro in quanto tale, mentre l’anthrópos, nella sua dignità e unicità,
è l’elemento fondante della cultura greca e così lo scontro tra Greci e Romani
– così com’era già stato lo scontro tra Greci e Persiani o tra Greci orientali
e Cartaginesi – era anche uno scontro tra visioni del mondo e dell’uomo e qui
basterebbe leggere l’Iliade per
sentire quella profonda visione umana dell’epos
greco in cui l’umanità e la virtù si incontrano in una maniera unica e
straordinaria, intendendo anche come l’inizio e la fine della cultura greca siano già contenute
nella stessa Iliade.
C’è
una relazione culturale tra i Dialoghi
dei morti (II sec. d.C.) di Luciano di Samosata e L’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters, tra i Sonetti del Petrarca e quelli di Thomas
Wyatt e di Shakespeare, così come c’è una somiglianza strabiliante tra il Decamerone ed i Racconti di Canterbury di Chaucer o, senza Hemingway, non può
esserci quel particolare modo di scrivere tipico di Charles Bukowsky ed il
discorrere del suo alter ego Chinasky. C’è un po’ di Nicholas Hilliard
nell’autoritratto di Van Gogh e ancora un riflesso di entrambi in Klimt. Similmente si trova una relazione tra il poeta elisabettiano
Christopher Marlowe, Johann Wolfgang Goethe, Michail Lermontov, Fernando Pessoa
e Thomas Mann (tutti questi hanno scritto un Faust e sono solo alcuni tra coloro che si sono cimentati con
questo antichissimo tema), tra Giordano Bruno e Shakespeare, anch’egli
influenzato da Marlowe, tra Kant, Schopenhauer ed Heidegger, tra Sesto Empirico
e Wittgenstein, così come c’è un rapporto
tra Cuore di tenebra di Joseph Conrad
ed il film Apocalypse Now di Francis
Ford Coppola, ma queste sono tutte relazioni
delle quali sarebbe impossibile riuscire a parlare nelle scuole poiché queste
relazioni fondamentali e interdisciplinari, anche in virtù del loro dialogare
fuori da uno schema determinato, trascendono ampiamente il curriculum,
monocromo e monocolo, dell’insegnamento schiacciato dal peso dei programmi ministeriali;
non se ne parla nelle accademie, dove si pensa per concorso pubblico o
attraverso le condizioni imposte dalle oligarchie che dirigono tali luoghi[6] e non se ne parla quasi in nessun’altra sede perché oggi è diventato
pericolosamente difficile ogni discorso che trascenda l’immensa banalità ed
assenza di pensiero dell’epoca contemporanea. Il livello delle nostre accademie
è, del resto, ben evidente dal livello della nostra cultura ufficiale. Paradossalmente,
l’epoca della comunicazione globale si è rivelata come l’epoca del più tragico
silenzio culturale che la storia abbia mai conosciuto. Neppure nelle epoche
della più violenta barbarie si era mai giunti ad un tale soffocamento della
cultura e della conoscenza autentica che è, poi, quel sapere che si pone
costantemente domande e non sommerge la verità sotto il peso di certezze
autoritarie e illusorie. Quando contempliamo il desolante panorama della
società contemporanea sorge anzi spontanea la meraviglia per il fatto che la
cultura e la conoscenza non soltanto siano potute sorgere, ma si siano anche
potute tramandare. La vera novità del nostro tempo è la quasi totale assenza di
percezione di quest’immane catastrofe culturale che si è abbattuta sulla storia
umana con il trionfo sociale e assoluto dell’opinione (δόξα) e della
vociferante ignoranza in cattedra. Se già Leopardi parlava della sua epoca come
di un «Secol superbo e sciocco, / Che il calle insino allora / Dal risorto
pensier segnato innanti / Abbandonasti, e volti addietro i passi, / Del
ritornar ti vanti, / E proceder il chiami» la nostra epoca è, a sua volta,
segnata dal ghigno di un’intelligenza cieca e insensibile, abile nel percepire
solo cose da manipolare senza capire
nient’altro che non sia materia, ossia un’epoca schiacciata sotto la pesante
condanna di Efesto.
(Sergio Caldarella, Il dialogo della cultura, in «Semata.
Rivista di Studi Semiotici», nr. 35, Roma, luglio 2016).
[1] Will Durant intitolò The Mansions of Philosophy, Le
magioni della filosofia, un corposo volume didattico, pubblicato nel 1929,
che si proponeva una “consistent philosophy of life”, ossia una visione
culturale dell’esistenza come egli provò a promuovere in tutta la sua opera
come aveva già provato a fare in precedenza il critico e poeta vittoriano Matthew
Arnold.
[2] Russell, ad esempio, utilizzerà nel 1910, il
titolo di Principia Mathematica per
il suo opus majus, scritto insieme a
Whitehead, con chiaro riferimento al titolo di Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica utilizzato da Newton
nel 1687.
[3] Cfr. Ch. Müntz, Das Archimedische Prinzip und der Pascalsche Satz in «Mathematische
Annalen», vol. 74, 1913 pp 301-308.
[6] Cfr. anche
l’ormai classico T. Veblen, The Higher
Learning in America. A memorandum on the conduct of universitites by business
men, B. W. Huebsch, NYC 1918.