Nell’epoca attuale, il non prendere posizione
in un discorso filosofico dichiarando, ad esempio, che Platone aveva ben
dimostrato l’inconsistenza concettuale del relativismo protagoreo, viene
considerato come un atteggiamento “filosofico” o, quantomeno, metodologicamente
valido. Eppure, proprio dalla dichiarazione sulla presunta “neutralità” della
filosofia, nonostante i discorsi apparentemente plausibili, si può da subito
evidenziare come il “non prendere parte” sia, in realtà, già un prender parte e,
in casi estremi come quelli offerti dalla politica, la neutralità svela proprio
la propria non neutralità – si veda, quale esempio, l’astensione di voto come
supporto esterno ad un qualsivoglia Governo, malefatta o coalizione di sorta.
Quella che è immediatamente contestabile riguardo
alla pretesa di neutralità in ambito filosofico è proprio la presunta
equivalenza epistemica di ragioni contrastanti che si vorrebbe imporre in nome
di tale neutralità e risulta, invece, già innaturale e fuori luogo ad un occhio
non contaminato dai vari δισσοὶ λόγοι della retorica Sofistica. In un’epoca in
cui la Sofistica è dominante, “non prendere parte” significa, semplicemente, autorizzare
il Sofista a fare quel che vuole e determinare i discorsi nella maniera che più
gli aggrada o conviene.
A volte si utilizza quest’argomento sulla presunta
“neutralità della filosofia”, o della cultura, anche per introdurre la
necessità di una conseguente “neutralità” nei programmi scolastici, intendendo
questa come una sorta di “imparzialità” pedagogica, eppure si potrebbe subito
chiedere: imparzialità nei confronti di chi? In una realtà in cui i criteri di
ragionamento fondamentale non fossero smarriti da tempo, verrebbe impensabile
ritenere possibile una presunta “imparzialità” da parte della scuola, sia
questa pubblica o privata, a meno di non voler perpetrare la solita ideologia
dominante, poiché già il fatto che la scuola debba seguire dei “programmi
ministeriali” dovrebbe far riflettere e mostrare, quantomeno a delle menti
attente, proprio la parzialità di quest’istituzione e non il contrario: un
computer che esegue un programma, “esegue” delle direttive informatiche impostate
dal programmatore e non è certo libero né imparziale – anche se un
programmatore astuto è in grado di creare un software che dia l’impressione di
essere “imparziale” e persino autonomo o quasi.
Il maestoso tentativo del pensiero filosofico
d’interpretare il mondo in maniera coerente, escludendo o contrastando i tanti
sragionamenti che pretendono d’indossare il manto della filosofia, non equivale
a parteggiare per una fazione e la sedicente neutralità non può venire spacciata,
come avviene oggi, con l’errore o l’assenza di pensiero. Stare dalla parte di
chi dichiara che la terra non è immobile al centro dell’universo, non significa
entrare a far parte dei militanti della fazione dei galileiani, quanto
enunciare un’evidenza logica anche abbastanza semplice ponendosi, invece, dalla
parte di chi non sragiona. Che neutralità sarebbe mai quella di chi insegnasse
che l’argomento tolemaico e quello galileiano sono equamente validi? La
filosofia, inoltre, quando è tale, non è mai neutrale! La filosofia partecipa sempre dell’argomento giusto (o ritenuto tale fino a
dimostrazione contraria) e già quest’atteggiamento non è in sé neutrale. Là
fuori nel mondo c’è già abbastanza confusione senza bisogno di aggiungerne
dell’altra invocando presunti principi d’imparzialità didattica. Come potrebbe,
poi, chi dice di stare da parte della conoscenza, ossia il filosofo o il
pensatore, rimanere indifferente di fronte all’arbitrio epistemico ed alla
non-conoscenza?
Il
rifiuto categorico
Λάθε
βιώσας (vivi nascosto).
Motto
di Epicuro
Da un punto di vista filosofico non vi è, né
può esservi, alcuna equivalenza tra argomentazioni contrastanti quando da una
delle parti si trova l’errore e dall’altra vi è un ragionamento corretto e, per
questo, contrariamente alle dottrine della Sofistica, si dovrebbe insegnare che
non tutte le argomentazioni posseggono un’equivalenza epistemica, dunque
l’esatto contrario del relativismo. Tra l’opinione che dichiara la terra immobile
al centro dell’universo ed il ragionamento che dimostra che questa ruota
attorno al sole non può esservi nessuna equivalenza epistemica, eppure un
ragionamento in apparenza così semplice si smarrisce rapidamente tra i meandri
della sofistica che utilizza la retorica in funzione della “dimostrazione” che
più le aggrada o conviene.
Nell’insegnamento scolastico ed accademico contemporanei,
si utilizzano, in genere, una lunga ed estenuante serie di accostamenti
concettuali impilati cronologicamente per “insegnare” un argomento; quello che questa
presunta didattica in realtà impartisce è, invece, un metodo di comporre o
scomporre una progressione ordinata creata da altri, dando l’impressione che
questa sia una spiegazione autentica o un fatto “culturale” essendo, invece,
una mera costruzione o imposizione arbitraria finalizzata al perseguimento di
titoli e certificati, ergo un’anti-cultura. Il nozionismo manualistico appare
come una scorciatoia metodologica per raggiungere la padronanza di un argomento
nel più breve tempo possibile attraverso una schematizzazione
contenutistico-metodologica, mentre conduce, invece, verso un sapere svuotato e
normalizzato. Quest’impostazione pseudodidattica ha conquistato la cultura
ufficiale e sembra abbia ormai eliminato, soprattutto dalle scuole, proprio quel
contenuto dialettico che consente la progressione culturale autentica: ad
esempio, fin dalle scuole elementari non si studiano più i grandi teoremi
geometrici e le dimostrazioni matematiche accostandoli al nome del creatore o
scopritore di quelle concettualizzazioni matematiche – tranne, forse, per il
teorema di Pitagora. Questo è il primo passo verso l’incultura in cattedra, ma
anche verso la relativizzazione del dibattito e dei lunghi e complessi processi
culturali che hanno generato tali teoremi e dimostrazioni. I concetti
matematici vengono così presentati, dai programmi scolastici contemporanei,
come se questi fossero un insieme di regole, regolette e dimostrazioncine già
pronte, come dei cibi precotti e predigeriti, così gli studenti non riescono
più a comprendere il processo, il travaglio, gli errori, il dibattito e le
problematiche che conducono non soltanto alla scoperta, ma anche alle stesse domande
matematiche o filosofiche che hanno portato a quegli sviluppi e dimostrazioni e,
in conseguenza, ad una cultura che sia viva e vera. Non meraviglia, poi, che
l’insegnamento di una matematica ridotta a formulette sbrigative per arrivare
ad una soluzione e problemini di droghieri alle prese con mele e dozzine di
uova non riesca ad attrarre ed interessare gli studenti. Questo è a malapena
quel “sapere che istruisce soltanto” lamentato da Goethe e ripreso ed
utilizzato poi da Nietzsche in un ben noto scritto.
Le scuole e le università sono state ridotte
nell’esempio preclaro di una profonda inimicizia culturale incarnata, in
particolare, dai vari accademuncoli che blaterano e ripetono concetti mal
digeriti, ma nel momento in cui scendono dal podio non hanno neanche il più
lontano interesse al benché minimo dibattito e discorso culturale – a meno che
il loro discettare non sia, per l’appunto, in qualche modo remunerato o
fornisca qualche utile attribuzione o merito da attaccarsi al petto e
presentare in un curricolo. Questa, come si ribadiva, è anticultura allo stato
puro. L’accademico si è ormai trasformato, in larga parte, in un becchino della
cultura perché se ne occupa come se questa fosse una cosa morta e
quest’impostazione didattica segue proprio dall’impostazione concettuale della
cultura come una merce sui banchi del mercato. Inoltre, se la filosofia viene rappresentata
da affabulatori, questa diverrà mera affabulazione e non più ricerca o
pensiero. Del resto, già metodologicamente, l’accademico conosce il vizio di
rendere la cultura una merce da offrire e da cui trarre vantaggio economico,
proprio come gli antichi Sofisti verso i quali si sente naturalmente propenso.
Mentre il grande Socrate, ma se ne potrebbero chiaramente citare a centinaia,
era uno squattrinato che se ne andava in giro ad insegnare gratuitamente anche
a coloro che non lo meritavano per nulla – per non voler aggiungere il suo
gemello Cinico, detto il Socrate pazzo, che di suo aveva a malapena una botte e
quattro stracci.
Quando tutte le ragioni sembrano equivalersi,
allora nessuna ragione più vale. La filosofia sta, invece, sempre dalla parte di quelli che ritengono “giusto” l’interesse della
giustizia e della collettività ed i filosofi autentici non sono mai stati accolti
o trattati benevolmente dalle varie oligarchie proprio per questa loro
impostazione fondamentale verso il giusto
(τό δίκαιον),[1] mentre
la Sofistica sta unicamente dalla parte del gruppo d’interesse di turno o del
miglior offerente. Non è un caso che, oltre un terzo dei dialoghi platonici, siano
propriamente dedicati a mostrare pedissequamente questa differenza tra pensiero
autentico e Sofistica. Purtroppo, quest’elemento centrale del pensiero
platonico è stato edulcorato attraverso un lungo ridimensionamento della
portata e validità epistemica del pensiero del Grande Greco, partendo già dai
commenti e avversioni dello Stagirita. Aristotele è il primo genealogista e per
lui la filosofia è, nella sua forma più compiuta, una tassonomia.
Platone aveva grandemente insegnato che la
filosofia ed il pensiero autentici curano dalla πλεονεξία, l’insaziabile
desiderio dell’ingiusto di prevalere sugli altri, tanto dannosa alla vita e, se
fosse vero che non si possono migliorare gli uomini come ci tengono ad
insegnare i lupi, allora non massacrerebbero, da millenni, quei pochi pensatori
che offrono le idee necessarie a tale metamorfosi. In altre parole, se questa trasformazione
dell’uomo e della società fosse davvero così impossibile come si millanta, il
potere non avrebbe allora temuto così tanto Socrate, Gesù, Boezio, Bruno,
Campanella, Spinoza, e tanti altri al punto da doverli condannare a morte,
imprigionare, torturare, braccare ed esiliare.[2]
Quello che è contestabile nei confronti di
coloro i quali arrivano a credere nella fallace equivalenza epistemica di tutte
le ragioni, anche secondo una prospettiva didattica, è il non tenere in conto
la fallacia epistemica dell’impostazione sofistica e quanto il discorso sofistico
sia principalmente, se non sostanzialmente, politico e non conoscitivo. Se c’è
un compito del pensiero filosofico è proprio quello di smascherare ciò che ha
la pretesa di pensare. Uno tra i grandi problemi di questo discorso è che
questi accademici contemporanei i quali, per misere prebende e infinitesimi
tozzi di pane, continuano a proporre l’anticultura come cultura, stanno
giocando con il fuoco a spese di tutti e questo è e sarà sempre imperdonabile.[3]
Karl Kraus aveva genialmente intuito e scritto: «Wenn die Sonne der Kultur
niedrig steht, werfen selbst Zwerge einen langen Schatten. Quando il sole della
cultura è basso, i nani proiettano un’ombra da giganti». Si tende anche a
sottovalutare fin troppo il fatto secondo cui il non-pensiero erige barriere al
pensiero e queste mura impediscono il progresso umano e civile di cui si ha un
disperato bisogno.
C’è un frammento di Crizia in cui egli osserva
che, se Archiloco non si fosse diffamato da sé, noi non avremmo saputo che era
figlio di una schiava, etc. (fr. 44) e aggiunge che il poeta parlava male di
sé, dei nemici e degli amici e quest'ultimo passaggio è significativo poiché indica
una particolare ortoprassi degli antichi. Affermare il giusto (τό δίκαιον), o agire secondo μέτρον, significa
affermarlo sempre, anche contro se
stessi, anche contro coloro che ci sono cari. Per questo il sapiente o il
filosofo sono invisi al mondo, mentre il Sofista può ben convivere con una
società traviata e incolta. La sapienza del sapiente dipende in maniera
fondamentale anche dall’ortroprassi tra pensare e vivere – anche per questo l’accademico
contemporaneo è una figura profondamente anticulturale e antifilosofica. Qui si
potrebbe anche vedere un possibile elemento della critica di Eraclito ad
Archiloco poiché quest’ultimo, nonostante spregiasse i suoi concittadini, al
tempo stesso ne cercava e accoglieva le lodi e, anche per questo, l’Efesio lo
avrebbe voluto vedere frustato insieme ad Omero: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ
τῶν ἀγώνων ἐκϐάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως. Omero merita di
essere bandito dagli agoni e fustigato, ed egualmente Archiloco (fr. 42).[4]
Non c’è da prestare troppa attenzione a
quelle divisioni scolastiche, magari fomentate dal commento di Cicerone,
secondo cui «Socrate per primo fece scendere la filosofia dal cielo e la
trasportò nelle città introducendola anche nelle case e costringendola ad
occuparsi delle questioni attinenti la vita, i costumi, il bene e il male».
Questa lettura non tiene nella giusta considerazione il fatto secondo cui
Socrate costruisce su una filosofia etica preesistente, un pensiero che aveva
già connotazioni religiose, mitiche, poetiche che verranno proseguite nell'insegnamento
socratico/platonico. L’intero ἔπος greco arcaico è una maestosa
rappresentazione/insegnamento sulle questioni dell’esistenza, dei costumi, del
bene e del male da cui lo stesso Socrate (e Platone) trarrà insegnamento e
dottrina. Purtroppo la storiografia filosofica è stata viziata dal filtro
aristotelico che definiva i preplatonici come physikoi e limitava la filosofia a quattro gatti posti in una
progressione ordinata tagliando fuori culti misterici, mantica, poesia/letteratura,
etc. Sotto quest’aspetto è condivisibile l’aver posto l’uomo di Eleusi, ossia
Eschilo, nel novero dei filosofi come ha proposto Emanuele Severino. L’onnicomprensività
del sapere degli antichi è un aspetto che la storiografia filosofica, in gran
parte influenzata dai tedeschi dell’Ottocento, ha preteso di trascurare o annullare
sotto una cappa di lunghe quanto discutibili classificazioni in genere dal
sapore hegeliano. Queste divisioni e preconcetti non aiutano certo ad intendere
le strabilianti profondità del pensiero antico che è, per sua natura,
fondamentalmente esoterico ed iniziatico, un tratto che eredita da tradizioni
ancora più antiche, sempre presenti sullo sfondo della grecità. Basti pensare
ai Pitagorici che passavano da discepoli acusmatici (ἀκουσματικός) ad amici nella sapienza (μαθηματικός) solo
dopo aver oltrepassato la tenda che celava il maestro. Pensiamo, poi, anche alle
assurde suddivisioni tra “pre-”, “post-” o correnti inesistenti, nonché l’arbitraria
divisione tra pensiero teologico e filosofico. Ogni sapere che possa dirsi
filosofico è un sapere fondamentale e, in quanto tale, non restringibile a
categorie monotematiche. Utilizzando una terminologia prettamente logico-matematica
si dovrebbe poter dire che, come quei difficili problemi offerti dalle
discipline matematiche, il sapere filosofico è “intrattabile”.
Sovente ci si perde in questa spiegazione del
termine filosofia come amore della
sapienza, ma questa è una lettura molto riduttiva di una parola tanto antica
quanto complessa. Quando si intende la filosofia nel senso ristretto di amore
della sapienza si può allora dire che il pensiero è filosofia, ma la filosofia non è sempre pensiero.[5]
Da qui la famosa frase secondo cui la filosofia si è trasformata in storia
della filosofia e questa trasformazione è possibile solo quando s’intenda la
filosofia unicamente come amore della sapienza e non più Sapienza. Hegel pretendeva
persino di farla finita con la filosofia e condurre alla Sophia. La filosofia è, però, troppo grande e maestosa per venire
ridotta o ristretta ad una mera categoria del pensiero. La filosofia non può
essere ridotta ad alcun termine unico poiché ogni esclusione determina, a sua
volta, un nuovo ambito filosofico. La filosofia non è etica, né epistemologia o
critica e neppure amore per la sapienza,
come viene ingenuamente tradotto dal greco, poiché anche l’odio della sapienza
può avere un carattere filosofico: πόλλ' οἶδ' ἀλώπηξ, ἀλλ' ἐχῖνος ἓν μέγα,
Molte cose sa la volpe, ma una sola e grande il riccio (Archiloco, XXIV).
Se la filosofia si occupa del giusto (τό δίκαιον), allora il giusto è la sua parte e non il
presunto interesse. Il massacro delle argomentazioni prodotto da un’artata
equivalenza loro imposta per motivazioni politiche, produce anche l’immensa
confusione culturale e intellettuale della modernità di cui siamo vittime o
spettatori inermi. Oggi tutte le ragioni sembra si equivalgano, tanto come un
tempo a tutti sembrava che la terra
fosse al centro dell’universo, ma come si potrebbe mai dire che la ragione di
Galilei e l’opinione del suo tempo siano, anche remotamente, equivalenti? Come
si potrebbe mai affermare tale principio senza scadere nella Sofistica o nel
grottesco? Eppure, sotto troppi aspetti, questo è quanto oggi avviene quasi costantemente
ed ovunque. Facciamo in merito un esempio che, nonostante la sua non
indifferente rilevanza pubblica, è però passato inosservato: negli Stati Uniti,
durante le elezioni presidenziali del 2012, la contesa elettorale è stata tra Barack
Obama e Mitt Romney, ma quasi nessuno – certamente non i media generalisti – ha
evidenziato la paradossalità del credo religioso cui Romney appartiene, ossia
il mormonismo, e questo non soltanto in virtù del fatto che la stampa di larga
diffusione ripete contenuti autocensurati o prodotti in altre sedi, ma proprio
per via della presunta equivalenza epistemica di ragioni contrastanti e
inconciliabili che si è ormai fatta strada in quasi tutti gli strati della
società contemporanea. L’esempio del mormonismo riguardo alle elezioni è un
tema in cui l’elemento dell’equivalenza epistemica emerge prepotentemente: il
mormonismo, oltre ad essere un credo tanto banale quanto paradossale, inventato
di sana pianta da un piccolo truffatore ottocentesco di nome Joseph Smith, non
appartiene al canone delle religioni cristiane, giacché proclama una teologia
immaginaria in cui tutti i concetti cristiani non soltanto vengono
riposizionati e ridefiniti in chiave pagana (gli uomini diventeranno dèi, lo
stesso Onnipotente era una volta un uomo e vive su un pianeta chiamato Kolob,
Gesù è fratello di Satana e molte altre simili perle immaginative), ma offre
anche una storia evangelica alternativa di un personaggio chiamato dai mormoni
“Gesù” che, però, visita l’America precolombiana e diffonde il “cristianesimo”
tra gl’indigeni. Insomma una serie colossale di sciocchezze che non vengono
confutate perché teologicamente, “ognuno crede a quel che vuole” e questa è
sicuramente una prerogativa religiosa e un diritto rispettabile, ma non un
criterio oggettivamente valido – è anche questo uno dei principi alla base
della necessaria separazione tra Chiesa e Stato. Credere in qualcosa non le
conferisce de jure uno statuto
epistemico. La vicenda diventa grave non soltanto quando si pretende di
spacciare la truffa e la fantasia per verità rivelate e oggettive, ma anche quando
colui che proclama o crede in tali sciocchezze e, dunque, non ha evidentemente
una mente della cui validità di giudizio ci si possa davvero fidare, finisce
per avere il controllo sui codici di lancio dell’arsenale nucleare – come
sarebbe stato il caso se Romney avesse vinto le elezioni. Avere, invece, una
chiara idea della differenza tra lo statuto epistemico delle idee e della non
equivalenza tra idee ed opinioni, aiuterebbe a chiarire subito certe questioni
ed evitare il pericolo che uno che crede che un sedicente “profeta” nello Utah
gli possa impartire direttive sulla volontà divina, finisca per avere il dito
sul pulsante nucleare che può mandare per aria l’intero pianeta. Questa è una
tra le moltissime ragioni per le quali è fondamentale mantenere salda la
differenza tra idea ed opinione ed è più che mai necessario prender parte nel
campo delle idee, altrimenti l’aumento della confusione coinciderà con la mera
distruzione della nostra specie. Oggi non si capisce quasi nulla proprio perché
si è convinti di capire quasi tutto, ma da sempre il mondo può tollerare solo
una certa quantità di follia, quando questa supera un certo limite, la storia
mostra quali mostruosi personaggi emergono e quali spaventosi orrori ne
conseguono. Quello che la storia è capace di mostrare è dove conduce questa
strada perché eventi comparabili sono già avvenuti in forme diverse; quello che
la storia questa volta non ci può aiutare a capire è dove finirà questo
percorso, perché mai prima d’ora la follia degli uomini ha avuto in suo
possesso armi di distruzione di massa capaci di annientare molte volte l’intera
specie.
Alla luce di queste considerazioni, il
presunto compito della filosofia, da molte parti invocato quale indirizzo alla
comprensione di “interessi” per tutti è, per ragioni molteplici, non
applicabile sotto tali forme ad una società tecnologicamente avanzata, prima
tra tutte a causa della competenza specifica necessaria di fronte ad argomenti
tecnicamente complessi e strutturati: non si possono educare tutti i cittadini a “comprendere
adeguatamente” tutti gli aspetti di una
società tecnologicamente avanzata, a meno di non voler banalizzare ogni cosa
come si fa di solito e, dunque, riducendo nuovamente la complessità alla mera
Sofistica. Non si può “spiegare” la fisica nucleare a tutti rendendoli in grado di “comprendere adeguatamente” se sia
giusto votare a favore o contro l’energia nucleare o sulla biologia a proposito
delle cellule staminali, etc. perché si finisce semplicemente con il dar
credito al miglior retore di turno – è già scorretto porre questioni così
altamente tecniche e strutturate nei termini di “questa è la soluzione giusta”,
perché, tra l’altro, tale “soluzione” potrebbe anche non esistere ed ogni
scelta ha conseguenze tecniche diverse e non valutabili in sedi collettive. Si
può, invece, rendere l’anima umana capace di esprimere se stessa affinché il
fisico, il biologo, il carpentiere o il macellaio, posti di fronte alla domanda
da parte del pubblico: “Cos’è meglio? Il nucleare da fissione o quello da
fusione? Le cellule staminali o gli OGM?” possano rispondere secondo coscienza
ed onestà intellettuale e non veicolare l’interesse del gruppo cui appartengono
o da cui sono stipendiati. Già i Romani si ponevano l’annosa questione: Quis custodiet ipsos custodes?
(Giovenale, Satira VI).
La pseudocultura si trasforma rapidamente in
corruzione spirituale, una degenerazione più sottile ed elevata di quanto non
lo sia la mera corruzione dei fini perché tocca quegli elementi di difesa della
società e dell’uomo, trasformandoli in strumenti al servizio del delirio. La cultura
autentica non partecipa mai alle aberrazioni della propria epoca e, pur pagandone
le conseguenze, mantiene l’integrità intellettuale necessaria per consentirle
di stare dalla parte degli eliocentrici quando i soliti altri strepitano,
minacciosi, dalla parte dei geocentrici.
Sergio Caldarella
[1] Ricordando qui anche la καλοκαγαθία platonica di vero, bello e buono.
[2] Questa è la più triste prova che si possa fornire della potenza e
validità del pensiero filosofico.
[3] A tal proposito basterebbe solo ricordare le invettive di Montaigne o
Schopenhauer. In merito, cfr. anche S. Caldarella, La Società del Contrario, Editore Zambon, Verona 2004.
[4] Alcuni credono che questo rigetto di Eraclito nei confronti di
Archiloco dipenda dalla versificazione allegorica del poeta giambico, anche se
questa pare una lettura debole. Forse perché Archiloco riprendeva certi
concetti di Esiodo che Eraclito aveva già avuto modo di rigettare. Sicuramente
l’avversione eraclitea verso Archiloco (Omero ed altri) ha un carattere
gnoseologico. Archiloco era un poeta vilipeso da molti e persino Pindaro, nella
Pitica II dichiara con forza: «Debbo
evitare il morso veemente dell’ingiuria. Pur di lontano ho veduto il maledico
Archiloco, spesso in miseria, impinguarsi nell’insulto e nell’odio» (52 sgg.).
[5] Vedi il «colpo di pistola» della Fenomenologia.