Una nota di costume ed un segno dei tempi.
Nel grigio torpore della cultura della nostra epoca prodiga di opinioni ma quantomai parca di pensieri, Princeton, in New Jersey, è forse uno tra i luoghi culturalmente più aridi che si possano immaginare anche se, grazie alle tante abilità della propaganda del mondo nuovo, gode, invece, di luccicante nomea di cultura. Albert Einstein, che in questa cittadina utilizzano spesso quale emerito concittadino, quando si esprimeva privatamente, scriveva con la stringata lucidità del genio: «Princeton è un piccolo luogo meraviglioso, un villaggio pittoresco e cerimonioso d’inconsistenti semidei eretti su dei trampoli ... Qui le persone che compongono quella che viene chiamata “società” godono di una libertà ancora minore rispetto ai loro omologhi in Europa. Eppure sembrano incoscienti di questa restrizione, poiché il loro stile di vita tende ad inibire lo sviluppo della personalità sin dall’infanzia» (da una lettera alla Regina Elisabetta del Belgio). In questo “piccolo luogo meraviglioso” ben poco pare sia cambiato dal tempo in cui il grande scienziato scriveva tali sferzanti commenti.
Come
molti sapranno, Princeton è anche sede di una prestigiosissimissima università
e, nonostante questo, nel villaggio c’è a malapena una libreria decente (la Labyrinth Books sulla Nassau street) ed
una deliziosa libreria indipendente (la Glen
Echo Books) ha dovuto chiudere i battenti qualche anno fa per lasciar posto
ad un modesto negozio d’abbigliamento! La scomparsa delle librerie è, forse,
proprio uno tra i più chiari segni dell’odierno abbrutimento e barbarie e
coinvolge tanto le Americhe quanto l’Europa, segnando nettamente la fase del
curioso declino della società occidentale che sembra ormai aborrisca a tal
punto il pensiero da dargli la caccia come un tempo davano la caccia alle
immaginarie streghe. Ad un angolo del campus della costosa università di
Princeton si trova la Firestone Memorial Library, la biblioteca principale il
cui accesso è però sorvegliato da una guardia che impedisce l’ingresso ai
non-clienti delle varie facoltà – da tempo in America non esistono più studenti
ma clienti e in Europa, lasciando fare a queste borghesie di miseria e
ignobiltà, arriveremo anche ad altri elementi grotteschi tipici del sistema
statunitense quali la sanità privatizzata con il paziente trasformato in
cliente ed altro ancora. A Princeton c’è anche una biblioteca pubblica, un
nuovo edificio di vetro, cemento e acciaio sulla Witherspoon che serve, per la
maggiore, da emeroteca e videoteca e la gran parte dei libri che vi si trovano,
tranne alcuni che però mettono in vendita, sono la solita carta stampata di cui
pullulano le varie liste di best seller in ogni dove. Vaghereste inutilmente
tra quegli scaffali cercando qualcosa di culturalmente valido da leggere, a
meno che non vogliate sottoporvi all’ultimo non-libro di Oprah, Patricia
Cornwell, Coelho o James Patterson – larga parte dell’imbarbarimento
contemporaneo è, del resto, il risultato del fatto che si leggono questi
non-libri ritenendo che si tratti, invece, di libri veri. In una realtà
talmente deprivata di cultura come quella contemporanea, tutto passa o può
facilmente venir fatto passare per cultura.
Se si volesse provare ad identificare il nucleo del
dominio imposto sulla società contemporanea da parte di un’ignobile minoranza
disposta a tutto per mantenere anche il più banale dei suoi privilegi, ebbene
questo lo si potrebbe facilmente identificare nella terrificante aberrazione in
cui, seguendo un ben preciso progetto socio-politico, l’uomo viene trasformato
in mezzo e non in fine. È quello che Kant aveva colto con profonda intuizione nella
Selbstzweckformel dell’Imperativo
Categorico nella Ragion Pratica: «Handle
so, daß du die Menschheit, sowohl in deiner Person als auch in der Person jedes
anderen, jederzeit zugleich als Zweck, niemals bloß als Mittel brauchst, Agisci
in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di
ogni altro, sempre e allo stesso tempo anche come fine e mai come semplice
mezzo (429)». È strabiliante notare come, proprio agli inizi della modernità, Kant
avesse profondamente inteso la nullificazione introdotta nel mondo dalla
sostituzione del fine con il mezzo, una nullificazione che non avviene unicamente
nei confronti dell’altro, ma ha radicali conseguenze anche verso se stessi (proprio
in questa sottile opposizione alla trasformazione dell’uomo in mezzo Kant
identifica – e vi si oppone – non soltanto una delle radici della modernità ma anche
una tra le forme del protonichilismo). Il pensatore di Königsberg aveva capito
quello che poi Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler, Schweitzer,
Adorno, Marcuse, Fromm o Lukács studieranno e riprenderanno scrivendo di un
mondo trasformato in un palcoscenico vuoto in cui l’uomo, ridotto ad automaton, agisce in una cornice
svuotata di significati e, dunque, nullificata nelle sue realtà fondamentali. È
il mondo stremato e offeso
(Vittorini) di un sacrilego noli me
tangere che il borghese saluta come proprio e fondativo del rapporto con
gli altri: noli me tangere in questa
desolazione umana di cui il borghese non vuol saper nulla ed in cui non sembra
possa esser raggiunto da alcuna voce che non sia quella di fame, sete e bisogno
– Vitaliano Brancati scrisse sul tema un maestoso articolo dal titolo Il borghese e l’immensita oggi
ripubblicato in una raccolta dei suoi saggi edita da Bompiani. Non è inoltre
infondato ritenere che quest’incapacità di lasciarsi avvicinare e toccare da
pensieri autentici corrisponda al timore dello sgretolamento di
un’individualità incerta e pericolante. Se la cultura è anche voce, capacità di
raggiungere l’altro sia esso lontano o vicino, in un mondo artato in cui
bisogna eseguire istruzioni e schermirsi da tutto ciò che è profondamente umano,
emerge allora la necessità strumentale di una cultura nova che più non abbia le forme e le aspirazioni di quella
del passato e coincida con i dettami dell’homo
novus del nostro evo. Debbono allora emergere i ciambellani della cultura,
gli “avvocatucci unti di brillantina” (Pasolini), i guardiani diurni ed i
buttafuori, gli abbaiatori, i gazzettieri, gli sporcascarpe, i guardaspalle ed i
vari manutengoli che pretendono di aver trasformato la conoscenza in lenocinio
e mercimonio solo perché hanno malamente occupato una rocca.
È evidente che, in una tale situazione, c’è da
aspettarsi ben poco di buono culturalmente, socialmente o politicamente.
Bisogna forse aggiungere che a Princeton, come a Predappio, Catania o
Vattelapesca, ci sono sempre degli organizzatori di pletore di manifestazioni e
intrattenimenti con velleità di cultura, in genere ad usum dei soliti
borghesucci con l’ausilio del chierico di turno che racconta di questo o di quel
fatterello con, al termine, un rinfresco con tarallucci e vino in cui si parla
della prossima vacanza, della prossima pioggia, neve, calura, etc. È in questo
strabiliante contesto contemporaneo che si situa la Dorothea’s House, detta
anche la “casa d’incultura italiana di Princeton”, un bell’edificio posto nel
centro del villaggio, non lontano dalla biblioteca e da altre amenità locali.
Come la Villa Riemann di Siracusa, anche questa casa pare sia il frutto di una
donazione che risale al 1913 ed agli inizi questa era un’associazione a scopo
benefico. Coloro i quali credono basti avere un bell’edificio per creare cultura
non hanno mai capito che la cultura autentica si regge sempre sulle gambe degli
uomini e non su stucchi e colonne di marmo: Socrate era un artigiano squattrinato,
Spinoza faceva il pulitore di lenti, Pessoa o Kafka erano degli impiegati e
nessuno tra costoro – per limitarsi a questi pochi – ha mai avuto in dono
edifici da cui propalare un qualunque verbum. Curioso che, proprio la
dimensione più propria ed autentica della cultura, ossia di qualcosa che
avviene attraverso le menti, sfugga quasi completamente a coloro i quali
credono che la cultura consista, invece, di begli edifici, denari, facce
imbellettate ed un sacco di pezzi di carta da incorniciare, confondendo così
proprio la distruzione della cultura con il suo sostegno. Il Duca de La
Rochefoucauld faceva ben notare: «Coloro che si applicano troppo alle piccole
cose, diventano solitamente incapaci delle grandi» (41). E, proprio poiché
costoro si applicano troppo alle piccole cose, non soltanto non sanno più come
applicarsi ad alcuna cosa grande, ma finiscono per vedere tutto sempre e solo
sotto una luce piccola, illudendosi di sfuggire alla responsabilità umana che
richiede riflessione autentica e finendo per pensare solo a se stessi, o almeno
così credono, perché in realtà quella forma di pensare a se stessi è, a
malapena, un altro modo per non pensare a nulla. Del resto c’è sempre molto da
imparare anche sulla pochezza e la cecità di coloro che portano i pesi di un
sistema il cui fine è l’annientamento della loro stessa personalità. Quando ci
viene concesso il dono d’intravedere anche delle piccole verità diventiamo più
liberi, quando invece quello che crediamo di conoscere è pura semplificazione,
falsità o propaganda, questo ci tarpa le ali e incatena ancor più all’illusione
ed alla vita inautentica. Il problema fondamentale di un mondo istintivamente
anticulturale è che le strutture socioculturali di una società in cui quest’impostazione
è dominante, invece di conferire senso all’esistenza, congiurano nell’inumano
tentativo di deprivarla da questo. È proprio questo il dramma contemporaneo
contro cui, chiunque voglia dirsi morale, dovrebbe, necessariamente e suo
malgrado, levare la propria voce.
Nei tempi antichi era ben nota l’infatuazione
del tiranno di Siracusa per il grande Platone o di Nerone per Seneca e di come
tali rapporti siano finiti male o tragicamente, proprio perché questi grandi e
nobili maestri si rifiutarono di acconsentire alle piccole volontà dei tiranni
e di assecondare le loro manie e vezzi. Certo che se il Dionisio
fero o il dedicator damnationis avessero capito a quel tempo che,
per venir assecondati, gli sarebbe bastato mettere un paio di stallieri o
citaristi stonati in un bell’edificio di marmo e chiamarli professori, non si
sarebbero forse presi tanta pena contro Platone ed il povero Seneca. L’Imperatore
Caligola ci era andato vicino nominando Senatore il suo equino, ma nella sua
epoca non gli era ancora balzato in mente che avrebbe anche potuto nominarlo
chiarissimo Rettore o presidente di qualche altisonante istituto. Oggi, invece,
i potentati questa lezione l’hanno ben recepita e per questo, oltre ai tanti
diplomifici distinti per classi di reddito, sovvenzionano, di tanto in tanto,
anche questi covi di conformismo e mediocrità che si arrogano il nome di
istituti “culturali” e ad altro non servono se non a rafforzare la potenza del
sistema di annientamento della cultura proprio in nome della cultura – Ah!
Quale strabiliante epoca di orwellianerie e paradossi! Tale sistema di
annientamento della cultura erge così una muraglia anti-culturale favorendo il
solo emergere di pseudospiegazioni funzionali al sistema di potere: non è un
caso che ad individui come Milton Friedman, tanto per limitarsi ad un solo
esempio eclatante, abbiano persino assegnato il Premio Nobel insieme a molteplici
altre prebende. Se gli intellettuali, i sapienti, i filosofi e tutti gli altri
uomini buoni hanno in passato dato tutto al mondo, anche le loro vite spesso
atrocemente terminate, questi sono invece coloro che sanno sempre e solo
prendere.
La Dorothea’s House di Princeton è il preclaro esempio dell’ennesimo bell’edificio trasformato in mausoleo della cultura. La prima cosa che colpisce di questo dopolavoro della cultura è che, già a partire dalla brochure a stampa di presentazione, questi mal illuminati luminari fanno proprio grossolani errori di grammatica italiana in un testo banale e di pochissime righe! L’ironia più grande è che offrono anche corsi d’italiano o, per meglio dire, d’“italiota”, variante illetterata della bella lingua italiana (nel loro sito web infatti preferiscono evitare l’italiano). Le iniziative che organizzano sono poi ancora più ilari e stravaganti del loro bizzarro idioma: ogni tanto proiettano qualche pellicola proveniente dal Grande Paese ed altre volte organizzano magniloquenti conferenze invitando amici, parenti, conoscenti e consociati vari. La casa d’incultura italiana di Princeton è uno tra i tanti luoghi nei quali la nostra epoca contrabbanda chiacchiere e banalità per elevatissima cultura e, se vi dovesse capitare di partecipare ad uno di questi eventi, vi accorgerete che, già dall’atmosfera tetra di questa grande sala senza storia, si prova l’impressione di trovarsi in un fumetto di Alan Ford in cui Luciano Secchi e Roberto Raviola, dal ‘69 alla fine degli anni ‘80, mettevano alla gogna e facevano il verso a questa piccola borghesia polverosa e imbellettata che odora contraddittoriamente di stantio e naftalina.
Le magniloquenti
conferenze presentate con squilli e schiamazzi alla Dorothea’s House sono, in genere, discorsi raffazzonati
tenuti da scalcagnati relatori che s’improvvisano grandi e mirabili esperti di
questo o quell’autore, di questa o quella materia, solo perché sono passati dalle
forche caudine di un concorso pubblico da qualche parte o perché hanno
presentato il giusto numero di lettere di raccomandazione! E questo scenario
che si ripete e ripercuote in questa minuscola conventicola di provincia che è la
Dorothea’s House è, mutatis
mutandis, lo stesso che ormai si ritrova dalle più note
istituzioni dette culturali fino al più lontano circolo del bridge di
Vattelaspesca. L’addomesticamento della cultura che produce la desertificazione
era del resto già stato preconizzato da Nietzsche nell’Ottocento e noi siamo
spettatori dell’avverarsi di profezie con le quali eravamo stati ben ammoniti!
Si rimane comunque increduli contemplando il livello di arroganza ed ignoranza
mostrato in queste pseudoconferenze ed è inevitabile chiedersi chi saranno mai
quelli che dirigono un tale circo e così si arriva alla direzione della casa d’incultura.
La gran dama di corte è, al momento, una tal Linda che sa di cultura tanto
quanto un ciabattino sa di astrofisica e, insieme a quattro fidati consigliori,
decide del bello e del cattivo tempo alla casa d’incultura, tendenza questa
diffusa nella gran parte degli istituti della cultura nova: a
Francoforte sul Meno, tanto per aggiungere un solo altro esempio, c’era alla
direzione della Literaturhaus una certa Maria Gazzetti che, sapendo ancor meno di questa, faceva ancor peggio. Del resto ben poche altre epoche possono dirsi nostre pari
nell’incompresione e rigetto per ogni pensiero che non sia un ringhio o un
belato. La società dell’abundantia produce manichini ben curiosi:
mala tempora currunt.
La società globale
contemporanea ha un disperato bisogno di un nuovo modello sociale che soltanto
la cultura autentica sarebbe in grado di concepire e, se poco più di un secolo
addietro, il mondo si trovava nelle mani di una follia criminale che ha
condotto a due orripilanti guerre mondiali, oggi è sotto il saldo controllo di
una stolida idiozia dal ghigno sorridente di cui i piccoli menestrelli dell’incultura
non sono che nere epitomi. Una cultura resa monca da mezze figure e caudatari
che nulla hanno da offrire non soltanto non sarà più capace di proporre delle
soluzioni valide alla dissoluzione sociale imposta dai poteri ciechi delle
mediocri borghesie di dominio, ma renderà anche impossibile veicolare un
messaggio che possegga contenuti culturali validi. In tal modo, l’impostazione
del modello accademico/culturale contemporaneo che sembrava unicamente
funzionale al meccanismo di dominio si sta invece mostrando quale elemento
chiave del processo di disfacimento sociale e di distruzione planetaria. Di
fronte a tale sfacelo alcuni si tranquillizzano credendo, erroneamente, che
questi borghesucci che pretendono di reggere il timone della cultura almeno non
sono esiziali, senza capire che sono invece tanto pericolosi quanto lo erano i
loro predecessori con la torcia o il manganello, almeno quelli, quando
sentivano la parola cultura, rivelavano la loro autentica natura mettendo mano
alla rivoltella, mentre questi se ne vanno in giro tronfi e paonazzi,
propagando una voce che grida “cultura, cultura”, ma contiene a malapena uno
squittio d’immenso silenzio: o tempora, o mores!
(Sergio Caldarella, Una nota di costume ed un segno dei tempi, «Il Pungolo» 29 novembre
2013).