
Tra i tanti effetti deleteri, questo nuovo
paradigma trasforma la visione in una
visuale sull’artefatto e conduce ad una
concezione della visione quale “visione scenica”. Dopo l’antica trasformazione
della narrazione in storia, ἱστορία, ossia racconto di cose vedute, e del mondo in rappresentazione (Vorstellung), anche il ragionamento, le idee e la conversazione
diventano ora elementi di una rappresentazione e, senza la loro bella cornice,
non si riescono quasi più ad ascoltare oppure, se mancano dell’artifizio dai
molti nomi, non vengono considerate degne di nota. Tutto si trasforma così in coreografia,
in una questione di rappresentazioni, titoli, cornici, scenografie, consensi e
artefatti vari. Questa trasformazione della percezione e, dunque, anche questa
comprensione speciosa che, in prima battuta, si presenta magari come semplice
mentalismo, è ancora e sempre il solito vecchio e tremendo egocentrismo che,
indossando nuovi panni sgargianti, ora non vuol soltanto continuare a porre al
centro di tutto la sua microbica singolarità percettiva, ma una percezione ben
regolata in una rappresentazione calibrata da ben studiate téchnai.
Uno tra i tanti risultati di questa nuova impostazione
è che tutto, dalla vita all’arte, viene ridotto alla sua rappresentazione, ossia all’effetto scenico. Basta presentare una
cosa con la giusta combinazione di frizzi e lazzi per dargli pari dignità
d’argomento con qualunque altra. Del resto una civiltà dell’immagine è anche
una civiltà dell’illusione ed è forse anche per questo che tanta parte degli
uomini contemporanei è fatalmente appesantita da illusioni di benessere,
felicità ed eternità che, con l’ausilio delle téchnai di cui sopra, vengono fatte apparire come le sole verità
possibili dell’esistenza. Un tempo saremmo forse stati avvertiti con il
proverbio: chi va appriesso a ‘o cecato
fernesce dint’o fuosso.
(Sergio Caldarella, Le colpe della rappresentazione, in Commento: Rivista di Studi Critici, nr. 7, Roma 2013, p. 48)