Copenhagen città dai sogni di vetro è il titolo dell´ultimo libro di Peter Långkvist e non c`è da meravigliarsi se lo scrittore abbia deciso di trascorrere gran parte della sua vita in questa città tranquilla e bella in cui ha avuto la fortuna di nascere. Quando arriviamo davanti alla casa di Långkvist sono già le dieci e trenta del mattino. Due uomini stanno scaricando della ghiaia da un automezzo, mentre, dirimpetto, un tizio con un grembiule grigio sta ramazzando il marciapiede. La sua abitazione, proprio al centro della zona vecchia, è una tipica casetta danese a due piani con il tetto spiovente e la vista sui canali. Vi si accede da una scalinata in mattoni rossi sovrastata da un´imponente porta d´acero con un magnifico battente in bronzo a forma di grifone. Ci sovrastano alcune nubi bianchissime che, sotto l’azzurra volta di quel cielo tranquillo, risplendono di un candore quasi irreale. Suoniamo il campanello e da lì a poco Peter Långkvist, un uomo massiccio dalla folta barba bianca, ci riceve indossando una giacca da camera verde e, dopo una brevissima presentazione in un impeccabile inglese dall’accento britannico, ci fa subito strada verso il piano superiore attraverso una scala costellata di foto e quadretti sul lato della parete.
Långkvist apre la porta del suo studio facendoci segno di precederlo nella stanza. Com’era da attendersi lo studio è stracolmo di libri, illuminato durante il giorno da un lucernario a piramide che lascia cadere la luce naturale su una rosa dei venti intarsiata sul parquet al centro della stanza; il lato che dà sull´esterno è, invece, una grande finestra a riquadri con una porta che accede su una terrazza piena di fiori.
Lo scrittore si siede su una delle grandi poltrone lasciando a noi la scelta del divanetto oppure di due altre poltrone dall´altro lato del tavolino ingombro di volumi e riviste. Nello studio tutto sembra odorare di legno buono e di libri impilati sugli incantevoli scaffali che affollano le tre pareti fino alla grande scrivania davanti alla vetrata. Långkvist, quasi scusandosi, ci dice: “purtroppo in questa stanza non ho spazio per appendere i quadri che, in verità, sistemo dove e come posso in giro per la casa”. Fin da subito, dai modi e dalle parole di Peter Långkvist, si capisce che questa intervista non sarà incentrata sui soliti temi: gran parte degli scrittori contemporanei amano parlare di se stessi e non di idee e l´unica cosa che si aspettano da un intervistatore è adulazione per quello che scrivono. Le parole, il tono e la presenza di Långkvist ci fanno invece capire da subito che l’intervista con lui sarà diversa, perché egli è l´esatto contrario di quella gente e, al di là della barba e dell´aria imponente, lo si potrebbe immaginare come un ragazzo gentile che ha appena accolto in casa due nuovi compagni di giochi.
Continuando il discorso dal punto in cui Långkvist l’aveva appena lasciato riprendo la sua affermazione a proposito dei quadri e gli chiedo: “nei suoi romanzi l´arte ha un ruolo centrale ed è come una chiave capace di aprire tutte le porte: penso, in particolare, a Jorg, il protagonista di La macchia sul viso, che, proprio attraverso l´arte, riesce persino a ritrovare sua madre e la gioia di una nuova vita accanto alla pittrice Leyla. Crede davvero nel ruolo universale dell´arte in un mondo come quello contemporaneo dove, per la maggioranza, Van Gogh è ‘Van Gogh’ solo perché i suoi quadri sono oggi quotati diversi milioni di dollari e non per la sua straordinaria capacità di dipingere?”.
Proprio mentre termino la mia prima domanda entra nello studio un’anziana signora reggendo un vassoio con una teiera e dei biscotti. L’anziana signora ci sorride, poggia il vassoio su un lato del tavolino con i libri, e immediatamente dopo si accommiata con un breve cenno del capo. Noi ringraziamo l’anziana signora e Långkvist si limita a dirle un “grazie mamma” a bassa voce.
Prima di rispondere alla mia domanda lo scrittore compie alcuni movimenti sulla poltrona, come se stesse usandone lo schienale per grattarsi la schiena, poi versa del caffè nero nelle tre tazze, ne prende una senza aggiungere zucchero e dice: “Se per arrivare a capire la realtà dovessimo partire dal mondo così come lo interpretano in molti, non credo che andremmo davvero lontano. Secondo me, l´arte può rappresentare, in qualunque caso, la giusta chiave per accedere ad un nuovo, diverso livello di consapevolezza sul reale così come, del resto, ogni altra cosa buona e bella”.
Cogliendo il suo spunto gli chiedo: “questo ci porterebbe anche ad un discorso sul ruolo dell’artista nella società contemporanea”.
“Un ruolo terribile” replica subito Långkvist.
“In che senso?” Chiedo perplesso.
“In una società del conformismo globale che spazio vuole vi possa essere per l’originalità e l’individualità dell’artista? Viviamo tutti schiacciati da un minimo comune denominatore che ci vuole omologati ad un modello deciso dal volgare sentire comune”.
Piacevolmente sorpreso dalle parole dello scrittore aggiungo: “condivido e capisco bene quello che intende. Del resto un altro Suo eminente conterraneo scriveva su queste cose già nell’Ottocento”.
“Sì, riprese subito Långkvist, il danese Søren Kierkegaard, il grande Kierkegaard che a quel tempo aveva già capito tutto quello che sarebbe successo dopo. In una società dell’omologazione e del conformismo l’individualità dell’artista viene percepita come una minaccia. Dobbiamo essere tutti uguali e ad ogni costo, altrimenti peggio per noi. L’arte risveglia la coscienza e in una società delle anime dormienti essa non può che essere percepita come un pericolo, anche per questo bisogna attribuire un prezzo all’arte, un’etichetta mondana per depotenziarla del suo contenuto”.
A questo punto il mio amico James interviene chiedendo: “mi pare di capire che, su questo punto, lei sia fondamentalmente socratico: il buono, il vero, il bello…”.
“Beh, sì, per me i grandi ideali della Paideia greca non hanno mai smesso di esercitare il loro richiamo”.
“Professore…”
“No, non sono un professore, la prego di non chiamarmi così”.
“Mi scusi, non volevo certo mancarle di rispetto”.
“Sì, lo capisco bene, ma è un argomento cui sono molto sensibile perché, almeno qui da noi in Danimarca, si crede che ogni intellettuale che abbia scritto qualcosa di buono debba necessariamente essere affiliato a qualche istituzione culturale ufficiale. Pensando però allo stato attuale della moderna accademia non si può che provare ripulsa per quel mondo. Oggi ai ‘professori’ è forse da attribuire il dissesto della nostra cultura più che i suoi buoni frutti. In una delle sue e-mail lei mi diceva proprio di aver scritto un libro sulla decadenza della cultura contemporanea”.
“Sì, è un libro dal titolo: La Società del Contrario, un’analisi su come la cultura sia stata tradita proprio da quelli che avrebbero dovuto difenderla e preservarla. Purtroppo non è tradotto in inglese o in danese, altrimenti gliene avrei portato una copia.
Volevo però chiederle qualcosa d’altro a proposito del suo ultimo libro, il primo che lei dedica alla sua città, Copenhagen città dai sogni di vetro. In quest´opera lei inaugura una teoria secondo cui la specie umana, con tutta la sua arroganza e il suo credersi al centro dell´universo, altro non è che il veicolo di trasmissione di un´altra specie che se ne serve come veicolo, ossia il gene che è in ognuno di noi. Secondo quanto lei scrive, siamo veicoli funzionali alla pura e semplice riproduzione del gene; quasi come un autobus che porta dei passeggeri da un luogo all’altro del tempo. Nel suo libro lei propone la tesi secondo cui, fin dalle origini della storia umana, ciò che nell´uomo rimane invariato è la natura fondamentale del suo gene. L´uomo di Neanderthal e l´Homo Sapiens sono diversi nella struttura anatomica e comportamentale, ma non in quella genetica; così il gene, attraverso noi, sopravvive ai millenni lasciandosi trasmettere in avanti nel tempo a nostra insaputa. Al gene non importa nulla se milioni di esseri umani muoiono in un conflitto oppure a causa di un´epidemia – esso è assolutamente amorale, o per dirla con Nietzsche, al di là del bene e del male. Al gene interessa soltanto che rimanga sempre un ragionevole nucleo umano atto a perpetrare la sua riproduzione che, poi, è la sua eterna sopravvivenza. Secondo questa teoria la specie umana, e tutte le sue fantasie di centralità e supremazia sul mondo, è soltanto il mezzo attraverso cui il gene si sposta nel tempo! Le nostre fantasie, la nostra volontà, i nostri desideri, null´altro sarebbero se non sogni che il gene ha incastrato nella nostra mente per consentirci di andare avanti e non accorgerci di essere solo contenitori o portatori di qualcosa d´altro. In sostanza non agiamo, ma siamo soltanto agiti: non agit sed agitur”. A queste parole Peter Långkvist assente limitandosi a calare varie volte il capo.
“Certo, al di là del suo intriseco nichilismo, la sua tesi confina anche con la letteratura fantascientifica, in sostanza lei ipotizza una sorta di invasione degli ultracorpi che, invece di provenire dallo spazio o da chissà dove, sono in realtà da sempre stati dentro di noi”. A questo punto del mio riassunto Långkvist, con un largo sorriso, aggiunge: “Badi bene che la teoria cui Knut (il protagonista del romanzo) fa riferimento non si ferma qui, ma va ben oltre. Egli, influenzato dalla lettura di Nietzsche e dalla teoria, fatalmente non del tutto nietzschiana, dell’Übermensch, il Superuomo, ne deduce che il pensatore tedesco avesse ragione, sbagliandosi però nel ritenere che questo Superuomo, al suo emergere nella storia, sarebbe stato ancora un “uomo” strictu sensu, ossia un essere umano come noi siamo abituati a concepirlo. Egli ipotizza che, in realtà, il Superuomo non sia altro che il compimento del gene, ossia verrà un tempo in cui il gene, stanco di abitare nelle profondità dell´uomo, o magari pronto ad entrare in una fase successiva della sua evoluzione, emergerà dall’interno noi prendendo il controllo e, paradossalmente, questo segnerà la fine della specie umana così come la conosciamo”.
A questo punto attendo che lo scrittore finisca di parlare e gli chiedo: “Posso però citarle un passo del suo libro dove l´avvocato Mathyl si rivolge pessimisticamente a Knut ma, allo stesso tempo, tenta di ridimensionarne la teoria del gene? È un passaggio che personalmente trovo molto suggestivo: ‘Cerca, cerca, in questo aggirarsi tra i giorni, e cosa trovi? Dopo aver sperimentato in lungo e in largo, verso quale terra volgere ancora il capo? È possibile scovare una ragione per cui siamo vivi? Oppure bisogna abbandonarsi al destino che ci fa schiavi dei nostri geni? Noi siamo dunque nulla ed è, secondo te, solo il gene che attraverso di noi continua la sua perversa esistenza? Se così fosse allora anche questa mano che scrive è diretta da una forza che essa ignora? Sì, ignoriamo, è vero, la totalità delle ragioni, ma da qui ad affermare di essere eterodiretti il passo è lungo, non breve, mio caro’. Questa potrebbe essere, all’interno del romanzo, una ragione in sé per rivalutare lo scopo e il valore dell’esistenza umana anche a dispetto della predominanza del gene?”.
A questo punto Peter Långkvist, tira un leggero sospiro, si gratta il mento con la mano sinistra e poi dice: “Beh, è chiaro che l´avvocato, essendo un religioso, prova ad opporsi filosoficamente alla tesi di Knut ma, alla fine del libro, accorgendosi che il suo amico viene proprio ucciso da una malattia che nessuno riesce ad identificare né tantomeno a curare, collega questa situazione alla scoperta dell’amico e ne diventa un fervido sostenitore”.
A questo punto intervengo nel discorso di Långkvist chiedendogli: “Allora, se dobbiamo seguire la tesi di Knut, l´uomo, in quanto essere autonomo, non è mai esistito o, per dirla meglio, tutto ciò che di lui esiste ha ben altro fine, così, la sua esistenza ha tanto senso quanto quella di un vaso che trasporta del vino: non è il vaso che conta, ma il vino che c´è dentro”.
“No, non direi, a mio avviso la situazione è un po´ più complessa, poiché è vero che Knut dice anche queste cose però lui le ha scoperte, dunque è un po´ come una macchina senziente – in questo caso l´uomo – che si ribella al suo padrone – il gene. Sarebbe come se domani uno dei nostri elaboratori elettronici cominciasse ad aver coscienza di essere ciò che è: a partire da quell´istante non sarebbe più una macchina e basta, ma una nuova entità con cui dovremmo confrontarci. Ecco, in realtà Knut è l’autentico Messia o il novello Socrate se vuole: colui che scopre la verità dentro l´uomo e nel momento in cui gli esseri umani prendono coscienza di questa verità possono finalmente dirsi liberi”.
A questa sua frase ribatto: “Sentire la prigione, per capire la libertà... In un certo modo assomiglia alla tesi fondamentale del film Matrix dove Neo è un Messia in versione cyber che porterà a compimento la riappacificazione tra gli uomini e le macchine”.
E Långkvist prontamente aggiunge: “In un certo senso... Ma la tesi del film che lei cita appartiene, in realtà, ad un discorso ben più antico: quando Neo viene risvegliato dalla pillolina e scopre che quella realtà da lui vissuta fino a quel momento era solo un sogno che una macchina aveva creato elettronicamente nel suo cervello egli riecheggia un concetto platonico mischiato con pensieri di Berkeley, Cartesio e la teoria dei cervelli in una vasca”.
Sorpreso dall’accuratezza della risposta di Långkvist aggiungo: “Ha certamente ragione: Platone per quanto riguarda il mito della caverna, Berkeley per l´esse est percipi e Cartesio?”.
Långkvist sorride nuovamente e dice: “Cartesio poiché è lui che pone il dubbio assoluto relativo al mondo esterno e fonda l´unica certezza nel pensiero di pensare, lo stracitato cogito ergo sum…”.
“Capisco, davvero interessante questo discorso. In sostanza sembra proprio che l´umanità non faccia altro che ripetere sempre le stesse cose”.
“No, non direi – aggiunge ancora Långkvist – perché un pensiero, anche se apparentemente assomiglia ad un altro, ma viene espresso altrimenti o in un’epoca molto diversa, in quel momento coglie un angolo della realtà che era rimasto ancora inesplorato anche se non ignoto, un lato che solo da quella prospettiva può essere visto in quella sua particolare luce. Proprio adesso abbiamo parlato di Platone, di Berkeley o Descartes i quali dicono ognuno cose diverse eppure, in fin dei conti, dicono pur sempre la stessa cosa”.
Lieto di quell’incontro con Långkvist aggiungo timidamente: “Pare che ci muoviamo sempre nello stesso alveo concettuale e forse, con Platone, un giorno riusciremo a guardar fuori da questa caverna delle apparenze e tornare a riveder le stelle”.
“Sì, un giorno, sperando magari di trovare un bel cielo là fuori…”.
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