Scrivere, pubblicare, una recensione, un articolo, un saggio, la morte, il sogno, una pagina scritta a metà, un racconto mai iniziato, alcune istantanee di commiato o di felicità, passione, gioco, silenzi. Tutto per ogni cosa, ogni cosa prima di tutto: errori, sviste, pianti, intrighi, momenti. Che dire, che fare? Dove andare? Cosa masticare? La tastiera non risponde e la penna non scrive, sbaglio tutto, spacco tutto, taccio, grido, torno indietro, avanzo, piango, ma non mi viene nessuna lacrima. Tutto è giusto, anche quello che è sbagliato. Basta la mano sulla leva del potere per dire, raccontare, tutto quello che si vuole, tutto quello che si pretende. Fare violenza alla carta, sentire come la materia respinge la mano, tracciare segni infedeli, scalfire il foglio come se la matita fosse una lama e trovare una vertebra per ogni ghiribizzo. Scritture come versi, versi a vanvera, persi, inabissati in un valore di drappi volgari. Tutto, niente, meno, ancor meno… oltre, ove chi segue non torna, chi torna riparte da qualcosa e si inseguono silenzi, vie, strade, momenti, incubi e succubi dominati dal caldo, sudici e suddivisi. Non so che dico, ma lo sa qualcuno? Non so dove vado, non so cosa ci sarà domani: forse un dentista che vuol cavarmi un dente, forse il nulla. Dipende sempre dal tempo, da noi, dal destino? Chi tiene le chiavi? Chi tira i fili? Chi decide le carte? Chi abita nei castelli? Dove vanno le monetine perdute? Dove, perché, come… Sempre domande che pare vogliano dire qualcosa, ma non voglion dir nulla davvero, nulla, questa è la sola verità che possiamo permetterci: nulla. Niente abbiamo e per questo, in tanti, si aggrappano alle cose come i granchi allo scoglio. La tempesta si prenderà cura di ognuno. La tempesta, il richiamo all’ordine, l’unica maestra capace di mettere a posto le nostre scarpe vecchie.
Tutto balla, e in quest’amorfa cacofonia c’è sempre un tutto e un sempre. Balla, come balla? Come un movimento o come qualcosa in sordina? Che lingua è questa? Chi parla? Che vuole? E perché, poi, dovrebbe volere qualcosa e tu, perché leggi? Che vuoi anche tu? Non basta forse il porco destino a spiarmi da sopra le spalle? C’è bisogno anche di te? Ma tanto anche tu stai sulla stessa mia barca, non lo sai, ma andiamo insieme da qualche parte e né tu né io sappiamo rispondere. Leggi pure, sbircia, tanto a me che m’importa? Ho già abbastanza guai a tenere quiete queste bestie e non so quale sia la peggiore: quella che mi porto dentro e mi mangia costantemente le budella o quel dannato demone che mi sta appiccicato al groppone. So che ha molti complici, più di quanti ne dovrebbe avere se il mondo fosse davvero giusto come hanno detto alcuni. E’ tutto sbagliato. Vedi, ho detto di nuovo “tutto”. Mi piace vedere il mondo attraverso il buco di una serrattura che è la mia vita e pensare che questo sia davvero il mondo, quello scritto con la maiuscola. Del resto per me, come per te, lo è. Se altro non abbiamo, ci dobbiamo adagiare su quelle poche pietre che compongono la nostra strada. Taci, per favore, perché anch’io voglio tacere, voglio tacere ancora, vorrei tacer sempre. Immantinente, immantinentemente. Bisogno, delirio, mistero, segno, presenza. Cose indubbie e strati di neve, parole e sabbia. Vento e silenzio. Che ne so? Ancora tu? Che vuoi? Chi ti ha chiamato? Da dove? Perché mi stai sempre addosso? Non voglio vederti. Non voglio che tu torni da lì e mi racconti ancora quelle cose. Non voglio sentir nulla, voglio pace. Pace da tutto: dai miei sogni e dalla mia coscienza, dal mio passato e dal mio bisogno, pace per ogni giorno, pace per ogni casa, pace per ogni scarabeo che attraversa la strada. Pace e silenzio, riposo e nulla. Chi lo ha detto? Lo ha detto qualcuno? Certo, ma chi? Dove? Perché? Ecco, vedi, adesso ho detto di nuovo “perché”. Ci sono parole alle quali non sappiamo sfuggire né resistere, così come non sappiamo resistere alla vita né sfuggire alla morte. “Morire, dormire”, questo lo so chi l’ha detto, ma non lo ripeto. Ma che significa morire e dormire? Che significato ha il significato che vogliamo dare a tutto quello che ci ronza attorno? Il fatto è che abbiamo troppa veglia per costruire troppo e non sappiamo staccarci da questa gabbia che è la vita; per questo aborriamo tutto quello che se ne discosta. Per quanto mi riguarda potrei anche essere una pietra, anzi vorrei davvero essere una pietra, meglio se in fondo al mare, lontano da tutto, anche dalla sabbia o dagli scogli. Una pietra sospesa in un fondale buio e silenzioso ignara di quella maledetta resistenza delle cose alla nostra volontà di volerle. Così potrei dimenticare ogni pretesa, finire di pensare, evitare di guardare al porco mondo che non ti risponde se non con uno schiaffo. Evitare tutto, anche la vita. Questa è la saggezza vera. Al resto non badare, non dire nulla agli altri, non far sapere niente di te e se proprio devi inventa, fingi, confondi le tracce, copri le impronte, cancella il tuo nome. Curati di te stesso quanto ti curi di un’ameba, questa è la sola sapienza. Taci ancora, taci ancora, taci…
Tutto balla, e in quest’amorfa cacofonia c’è sempre un tutto e un sempre. Balla, come balla? Come un movimento o come qualcosa in sordina? Che lingua è questa? Chi parla? Che vuole? E perché, poi, dovrebbe volere qualcosa e tu, perché leggi? Che vuoi anche tu? Non basta forse il porco destino a spiarmi da sopra le spalle? C’è bisogno anche di te? Ma tanto anche tu stai sulla stessa mia barca, non lo sai, ma andiamo insieme da qualche parte e né tu né io sappiamo rispondere. Leggi pure, sbircia, tanto a me che m’importa? Ho già abbastanza guai a tenere quiete queste bestie e non so quale sia la peggiore: quella che mi porto dentro e mi mangia costantemente le budella o quel dannato demone che mi sta appiccicato al groppone. So che ha molti complici, più di quanti ne dovrebbe avere se il mondo fosse davvero giusto come hanno detto alcuni. E’ tutto sbagliato. Vedi, ho detto di nuovo “tutto”. Mi piace vedere il mondo attraverso il buco di una serrattura che è la mia vita e pensare che questo sia davvero il mondo, quello scritto con la maiuscola. Del resto per me, come per te, lo è. Se altro non abbiamo, ci dobbiamo adagiare su quelle poche pietre che compongono la nostra strada. Taci, per favore, perché anch’io voglio tacere, voglio tacere ancora, vorrei tacer sempre. Immantinente, immantinentemente. Bisogno, delirio, mistero, segno, presenza. Cose indubbie e strati di neve, parole e sabbia. Vento e silenzio. Che ne so? Ancora tu? Che vuoi? Chi ti ha chiamato? Da dove? Perché mi stai sempre addosso? Non voglio vederti. Non voglio che tu torni da lì e mi racconti ancora quelle cose. Non voglio sentir nulla, voglio pace. Pace da tutto: dai miei sogni e dalla mia coscienza, dal mio passato e dal mio bisogno, pace per ogni giorno, pace per ogni casa, pace per ogni scarabeo che attraversa la strada. Pace e silenzio, riposo e nulla. Chi lo ha detto? Lo ha detto qualcuno? Certo, ma chi? Dove? Perché? Ecco, vedi, adesso ho detto di nuovo “perché”. Ci sono parole alle quali non sappiamo sfuggire né resistere, così come non sappiamo resistere alla vita né sfuggire alla morte. “Morire, dormire”, questo lo so chi l’ha detto, ma non lo ripeto. Ma che significa morire e dormire? Che significato ha il significato che vogliamo dare a tutto quello che ci ronza attorno? Il fatto è che abbiamo troppa veglia per costruire troppo e non sappiamo staccarci da questa gabbia che è la vita; per questo aborriamo tutto quello che se ne discosta. Per quanto mi riguarda potrei anche essere una pietra, anzi vorrei davvero essere una pietra, meglio se in fondo al mare, lontano da tutto, anche dalla sabbia o dagli scogli. Una pietra sospesa in un fondale buio e silenzioso ignara di quella maledetta resistenza delle cose alla nostra volontà di volerle. Così potrei dimenticare ogni pretesa, finire di pensare, evitare di guardare al porco mondo che non ti risponde se non con uno schiaffo. Evitare tutto, anche la vita. Questa è la saggezza vera. Al resto non badare, non dire nulla agli altri, non far sapere niente di te e se proprio devi inventa, fingi, confondi le tracce, copri le impronte, cancella il tuo nome. Curati di te stesso quanto ti curi di un’ameba, questa è la sola sapienza. Taci ancora, taci ancora, taci…
(Tratto da: Sergio Caldarella, L'algebra degli scacchi, Zambon Editore, Verona 2008)