1. Il labirinto della modernità.
La politica, almeno secondo una sua interpretazione classica, è l’arte di governare la polis secondo i criteri del bene comune da cui dovrebbe poi discendere il bene individuale che è, come avvertiva Alessandro Manzoni, un sottoprodotto del bene collettivo: «si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio». Porre una gerarchia tra bene collettivo, prima, e bene individuale, dopo, spiega perché un vago concetto del bene comune e un’opinione egotistica del bene individuale producano, socialmente, un paradosso ed una sostanziale debolezza nella progettualità politica indirizzata al bene collettivo operando una pericolosa trasformazione dal bene all’interesse.
Se il politico riesce a conquistare consenso parlando alla gente del suo ristretto interesse individuale, quando dovrebbe invece proporre il più ampio bene comune, è più o meno evidente che il suo progetto mira alla sola conquista del potere. Il populista, colui che non soltanto usa le masse ma le aizza, è solo l’espressione estrema di un’impostazione in cui gli elettori vengono assecondati e manipolati secondo criteri ristretti. Nell’Italia degli ultimi vent’anni si sono anche dati nomi immaginari come la Padania solo per assecondare le ristrettezze di vedute di una folla elettorale e si tratta pur sempre, mutatis mutandis, della solita strategia utilizzata da valvassori, tirannelli plebiscitari o meno e politicanti per compiacere certi spiriti bottegai.
Il politico deve certamente interagire con le masse e, per far questo, deve anche potersi esprimere in una lingua che esse intendono e questa è, in particolare nelle epoche buie, la sola lingua del presunto interesse individuale. Il prevalere di questa situazione genera il paradosso di una progettualità politica costruita su un ristretto concetto del bene individuale e quasi del tutto incapace di volgersi al bene collettivo. La contraddizione generatasi tra il bene collettivo e quello individuale è diventata, nel labirinto della modernità, uno tra i più pericolosi paradossi della politica. La sostanziale pochezza del nostro tempo continua ad interpretare l’azione politica nel gioco/giogo con cui i vari patriziati ingannano le moltitudini e manipolano il mondo e nello strumento attraverso cui individui di scarsa sostanza raggiungono i più alti livelli di gestione della società: Mussolini o Andreotti, Bush o Berlumponi, Bossi o Scilipoti, la storia continua a ripetersi, anche se verso il basso. In questo scenario, la borghesia che ama credersi classe dominante si palesa invece solo come una classe di controllo preposta a determinate funzioni di controllo e gestione sociale.
2. Homo reciprocans vs Homo economicus.
Nell’opinione collettiva, a dispetto delle belle parole di cui il primate umano ama circondarsi per abbellire le sue consuetudini ed i suoi vizi, il bene individuale ha sovente coinciso con la preservazione/riproduzione, il possesso, l’espansione egotistica ed un vago concetto lontano e nebuloso del bene collettivo. Il pensiero platonico, nel tentativo di dirimere quest’arbitrarietà e muovendosi nella direzione opposta all’opinione comune, era intensamente occupato nella ricerca dell’Idea del Bene, quel supremo principio anipotetico (ep'archên anupotheton) che resiste ad ogni confutazione (dià panton elenchon diexion VII, 534 B-D) e può così indicare la giusta via contro l’opinione bieca e brutale degli uomini pratici, quelli che si muovono a loro agio nella terra oscura del non-essere, “si azzuffano per delle ombre e sono in conflitto perpetuo per il potere” (520 D). L’acume e la radicalità con cui il pensiero platonico individua ed affronta i problemi della polis, lascia anche intendere le ragioni per le quali tale pensiero possa essere considerato pericoloso dai patriziati per i quali le società umane sono unicamente uno strumento per la realizzazione delle loro basse pulsioni.
La confusione tra il concetto di bene individuale e bene collettivo genera, oggi come in passato, una specifica situazione di conflittualità in tutte le società. Nel caso particolare della strabiliante situazione contemporanea, la profonda confusione a livello individuale è anche prodotta da un depotenziamento del significato che si manifesta, con forza, nella trasposizione del vivere nella sola dimensione del consumo e del possesso e dall’assenza di un orientamento esistenziale che non sia sotto ogni aspetto darwiniano o pseudotale. Da qui deriva la grottesca logica della competitività con la quale si pretende e presume di misurare le società e le vite degli uomini, nonostante la storia insegni la lezione secondo cui le collettività che riescono meglio sono quelle in cui prevale la cooperazione e non la competizione. Kropotkin farà di quest’argomento la tesi centrale del suo Il mutuo appoggio (1902). L’uomo, quando è uomo, è fatto per cooperare, non per competere: homo homini deus è un motto più autenticamente umano del brutale homo homini lupus.
Gran parte della gente (quelli che Eraclito, ma non solo, definiva come gli οἱ πολλοί, i molti), è purtroppo costantemente impegnata nella semplice autoconservazione – anche quando questa è garantita e darebbe loro la possibilità di investigare altri orizzonti – da non aver tempo o voglia per nient’altro. Questi molti sono anche i molto ingannati, ma non bisogna credere che siano per questo innocenti. È fuor di dubbio che per mantenere il loro potere e raggiungere i loro piccoli fini i vari Mussolini, Andreotti, Berlusconi e loro compari e consimili, hanno ingannato e ingannano gli italiani, ma al tempo stesso la maggioranza degli italiani si lascia ingannare in un complesso gioco di taciti consensi e ammiccamenti. Quando Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti solo gli sciocchi e gli ingenui credevano che l’Italia fascista potesse vincere contro l’America e nel 1941, all’annuncio della dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, il giornalista Giovanni Ansaldo commentò: “Ma il Duce l’ha mai visto l’elenco telefonico di New York?”. Per altro verso, però, i vari gerarchi credevano che, con qualche stratagemma, uno dei soliti, si sarebbe riusciti a farla franca anche in quel caso e se il Paese non vi fosse riuscito loro avrebbero pur sempre potuto cambiare camicia come poi fecero.
Pochi sono coloro che agiscono in conformità a quello che ritengono giusto mentre i molti pensano sempre di agire per quello che ritengono conveniente a se stessi ed è da questa banale confusione tra bene collettivo e bene individuale che sorgono gran parte delle catastrofi sociali che affliggono la nostra specie. È impossibile pensare davvero al bene individuale senza pensare prima al bene collettivo, da qui il paradosso di una società in cui si vuol partire dal bene individuale per creare il bene comune invece di seguire il percorso opposto.
3. Il pluralismo monista
La società contemporanea è riuscita nel creare un sistema che, a molte delle epoche che ci hanno preceduto, sarebbe sembrato impossibile o grottesco, è ossia riuscita nella creazione di un paradossale “pluralismo monista”: una società globale e apparentemente pluralista in cui tutti i popoli sono liberi di perseguire unicamente gli stessi fini. L’omologazione è così diventata a tal punto parte organica del sistema, che in pochi osano andarle contro. Quello che maggiormente stupisce è che, fino a quando alla gente vengono dati dei contentini materiali, questa è disposta a sottostare a ciò che alcuni chiamerebbero il “giogo dell’omologazione”; Josif Brodskij, con la lucidità dei poeti, scriveva in proposito: «un uomo liberato non è ancora un uomo libero».
Il pluralismo della società globale contemporanea, invece di fornire all’individuo maggiori opportunità di partecipazione e contributo (come vorrebbe Adrian Oldfield) pare renda invece impossibile una partecipazione diversa dai fini prestabiliti e sanciti dal suffragio universale omologato. In un certo modo questo ci riporta nuovamente al paradosso del bene individuale ed all’impossibilità, creata dall’omologazione, di veicolare un messaggio che trascenda fini immediati e particolari. Abbindolati dai paradigmi dell'esistente si finisce per seguire quello che Aristotele definiva come phainomenon agaton, il bene apparente.
4. Communitas vs societas
Le società così come le conosciamo sono, del resto, qualcosa di relativamente recente: la societas degli antichi è più “comunità” che “società”. La communitas ha basi etnico-culturali, mentre la società ha un fondamento civico, ossia indipendente da fattori storico etnico-culturali. Per i Greci la base della convivenza era la polis, ossia una comunità-città-Stato formata da tutti coloro che vi appartenevano per nascita e ceto (schiavi o stranieri non erano parte riconosciuta della polis). I Romani, anche per le ragioni legate alla struttura politica di un vasto impero, passeranno dalla città-Stato alla res publica e questo è già un grande salto concettuale: se i Greci appartengono ancora al grande reame dell’antichità, i Romani sono già “moderni” e la società occidentale è, purtroppo, la diretta erede più del sistema romano che di quello greco. E’ una scelta opinabile quella di tradurre la Politeia platonica con il latino Res publica in quanto i due concetti non hanno una sincera corrispondenza diretta. Ancora più incerto ritenere che la Res publica romana abbia una qualche relazione con qualsivoglia concetto di Repubblica in senso moderno.
I Romani, nell’estensione del loro Impero, erano pur sempre una communitas estesa basata sulla civitas, la quale aveva già un dominio di applicazione etnicamente più esteso rispetto alla polis. Famosa l’invocazione di Saul di Tarso della sua cittadinanza romana per porlo nella cerchia di giudizio dei conquistatori: Civis Romanus sum. Un retaggio di queste epoche lo si ritrova ancora nel sintagma Blut und Boden, Sangue e suolo, che congiunge lo ius sanguinis con lo ius soli e verrà poi utilizzato nelle terribili ideologizzazioni dello scorso secolo.
La principale differenza tra societas e communitas è che una società è dominata/controllata dalle sue classi tanto quanto la comunità è controllata dalle sue etnie maggioritarie. In entrambe i casi abbiamo modelli sociali che tendono al conflitto: classe contro classe o etnia contro altra etnia. Il grande Platone spiega come evitare questi paradossi con frasi semplici e meravigliose: «potrai avere uno Stato ben governato solo se riuscirai a trovare, per chi vorrà governarlo, un modo di vivere migliore del potere stesso». Ma la modernità, armata dei suoi paradossi e delle sue idiote finzioni, preferisce dare al sommo Platone l’epiteto di “nemico della società aperta” e “falso profeta dell’umanità” (Popper, 1944). La quantità di scelleratezza, arbitrio, hybris e ignoranza che bisogna applicare al sommo Platone per leggerlo in questo modo è ancora un altro sintomo e segno dei tempi: o tempora, o mores!
A questo punto della storia umana parrebbe lecito chiedersi perché, a dispetto di tutti i grandi annunci, le rappresentazioni, la propaganda, le dichiarazioni ufficiali e di principio, una società migliore (nel senso di una società autenticamente umana) non è ancora stata realizzata e non sembra quasi neppure all’orizzonte? Forse perché siamo in maggioranza esseri brutali, insicuri e primitivi, troppo dipendenti psicologicamente dal gruppo e ad appena un passo dalla scimmia? Perché nonostante millenni di storia non siamo ancora capaci di comprendere la brevità della vita mortale ed elevarci al di sopra delle piccolezze e banalità del quotidiano? Se il pensiero del limite dell’esistenza fosse più presente dietro le scelte e il rapporto con gli altri, sicuramente pondereremmo ben diversamente la vita e l’esistente. Essendo, però, animali primitivi, siamo anche animali gregari e in balia del più determinato tra noi che, sovente, è anche il più primitivo e brutale. Ed è costui che, nella storia, ha infaustamente diretto il nostro destino collettivo. Basta che un individuo dalla psiche contorta e stravolta vesta i panni giusti e cominci a gridare “seguitemi” e sono quasi tutti pronti a credergli e ad andargli dietro. Così, quando le moltitudini trasformano il mondo in una distesa d’immenso vuoto, non rimane più nessun luogo dove poter ancora scappare.
(Sergio Caldarella, Paradossi del bene individuale vs bene collettivo in «Marginalia» genn. 2011)
La politica, almeno secondo una sua interpretazione classica, è l’arte di governare la polis secondo i criteri del bene comune da cui dovrebbe poi discendere il bene individuale che è, come avvertiva Alessandro Manzoni, un sottoprodotto del bene collettivo: «si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene e così si finirebbe anche a star meglio». Porre una gerarchia tra bene collettivo, prima, e bene individuale, dopo, spiega perché un vago concetto del bene comune e un’opinione egotistica del bene individuale producano, socialmente, un paradosso ed una sostanziale debolezza nella progettualità politica indirizzata al bene collettivo operando una pericolosa trasformazione dal bene all’interesse.
Se il politico riesce a conquistare consenso parlando alla gente del suo ristretto interesse individuale, quando dovrebbe invece proporre il più ampio bene comune, è più o meno evidente che il suo progetto mira alla sola conquista del potere. Il populista, colui che non soltanto usa le masse ma le aizza, è solo l’espressione estrema di un’impostazione in cui gli elettori vengono assecondati e manipolati secondo criteri ristretti. Nell’Italia degli ultimi vent’anni si sono anche dati nomi immaginari come la Padania solo per assecondare le ristrettezze di vedute di una folla elettorale e si tratta pur sempre, mutatis mutandis, della solita strategia utilizzata da valvassori, tirannelli plebiscitari o meno e politicanti per compiacere certi spiriti bottegai.
Il politico deve certamente interagire con le masse e, per far questo, deve anche potersi esprimere in una lingua che esse intendono e questa è, in particolare nelle epoche buie, la sola lingua del presunto interesse individuale. Il prevalere di questa situazione genera il paradosso di una progettualità politica costruita su un ristretto concetto del bene individuale e quasi del tutto incapace di volgersi al bene collettivo. La contraddizione generatasi tra il bene collettivo e quello individuale è diventata, nel labirinto della modernità, uno tra i più pericolosi paradossi della politica. La sostanziale pochezza del nostro tempo continua ad interpretare l’azione politica nel gioco/giogo con cui i vari patriziati ingannano le moltitudini e manipolano il mondo e nello strumento attraverso cui individui di scarsa sostanza raggiungono i più alti livelli di gestione della società: Mussolini o Andreotti, Bush o Berlumponi, Bossi o Scilipoti, la storia continua a ripetersi, anche se verso il basso. In questo scenario, la borghesia che ama credersi classe dominante si palesa invece solo come una classe di controllo preposta a determinate funzioni di controllo e gestione sociale.
2. Homo reciprocans vs Homo economicus.
Nell’opinione collettiva, a dispetto delle belle parole di cui il primate umano ama circondarsi per abbellire le sue consuetudini ed i suoi vizi, il bene individuale ha sovente coinciso con la preservazione/riproduzione, il possesso, l’espansione egotistica ed un vago concetto lontano e nebuloso del bene collettivo. Il pensiero platonico, nel tentativo di dirimere quest’arbitrarietà e muovendosi nella direzione opposta all’opinione comune, era intensamente occupato nella ricerca dell’Idea del Bene, quel supremo principio anipotetico (ep'archên anupotheton) che resiste ad ogni confutazione (dià panton elenchon diexion VII, 534 B-D) e può così indicare la giusta via contro l’opinione bieca e brutale degli uomini pratici, quelli che si muovono a loro agio nella terra oscura del non-essere, “si azzuffano per delle ombre e sono in conflitto perpetuo per il potere” (520 D). L’acume e la radicalità con cui il pensiero platonico individua ed affronta i problemi della polis, lascia anche intendere le ragioni per le quali tale pensiero possa essere considerato pericoloso dai patriziati per i quali le società umane sono unicamente uno strumento per la realizzazione delle loro basse pulsioni.
La confusione tra il concetto di bene individuale e bene collettivo genera, oggi come in passato, una specifica situazione di conflittualità in tutte le società. Nel caso particolare della strabiliante situazione contemporanea, la profonda confusione a livello individuale è anche prodotta da un depotenziamento del significato che si manifesta, con forza, nella trasposizione del vivere nella sola dimensione del consumo e del possesso e dall’assenza di un orientamento esistenziale che non sia sotto ogni aspetto darwiniano o pseudotale. Da qui deriva la grottesca logica della competitività con la quale si pretende e presume di misurare le società e le vite degli uomini, nonostante la storia insegni la lezione secondo cui le collettività che riescono meglio sono quelle in cui prevale la cooperazione e non la competizione. Kropotkin farà di quest’argomento la tesi centrale del suo Il mutuo appoggio (1902). L’uomo, quando è uomo, è fatto per cooperare, non per competere: homo homini deus è un motto più autenticamente umano del brutale homo homini lupus.
Gran parte della gente (quelli che Eraclito, ma non solo, definiva come gli οἱ πολλοί, i molti), è purtroppo costantemente impegnata nella semplice autoconservazione – anche quando questa è garantita e darebbe loro la possibilità di investigare altri orizzonti – da non aver tempo o voglia per nient’altro. Questi molti sono anche i molto ingannati, ma non bisogna credere che siano per questo innocenti. È fuor di dubbio che per mantenere il loro potere e raggiungere i loro piccoli fini i vari Mussolini, Andreotti, Berlusconi e loro compari e consimili, hanno ingannato e ingannano gli italiani, ma al tempo stesso la maggioranza degli italiani si lascia ingannare in un complesso gioco di taciti consensi e ammiccamenti. Quando Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti solo gli sciocchi e gli ingenui credevano che l’Italia fascista potesse vincere contro l’America e nel 1941, all’annuncio della dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, il giornalista Giovanni Ansaldo commentò: “Ma il Duce l’ha mai visto l’elenco telefonico di New York?”. Per altro verso, però, i vari gerarchi credevano che, con qualche stratagemma, uno dei soliti, si sarebbe riusciti a farla franca anche in quel caso e se il Paese non vi fosse riuscito loro avrebbero pur sempre potuto cambiare camicia come poi fecero.
Pochi sono coloro che agiscono in conformità a quello che ritengono giusto mentre i molti pensano sempre di agire per quello che ritengono conveniente a se stessi ed è da questa banale confusione tra bene collettivo e bene individuale che sorgono gran parte delle catastrofi sociali che affliggono la nostra specie. È impossibile pensare davvero al bene individuale senza pensare prima al bene collettivo, da qui il paradosso di una società in cui si vuol partire dal bene individuale per creare il bene comune invece di seguire il percorso opposto.
3. Il pluralismo monista
La società contemporanea è riuscita nel creare un sistema che, a molte delle epoche che ci hanno preceduto, sarebbe sembrato impossibile o grottesco, è ossia riuscita nella creazione di un paradossale “pluralismo monista”: una società globale e apparentemente pluralista in cui tutti i popoli sono liberi di perseguire unicamente gli stessi fini. L’omologazione è così diventata a tal punto parte organica del sistema, che in pochi osano andarle contro. Quello che maggiormente stupisce è che, fino a quando alla gente vengono dati dei contentini materiali, questa è disposta a sottostare a ciò che alcuni chiamerebbero il “giogo dell’omologazione”; Josif Brodskij, con la lucidità dei poeti, scriveva in proposito: «un uomo liberato non è ancora un uomo libero».
Il pluralismo della società globale contemporanea, invece di fornire all’individuo maggiori opportunità di partecipazione e contributo (come vorrebbe Adrian Oldfield) pare renda invece impossibile una partecipazione diversa dai fini prestabiliti e sanciti dal suffragio universale omologato. In un certo modo questo ci riporta nuovamente al paradosso del bene individuale ed all’impossibilità, creata dall’omologazione, di veicolare un messaggio che trascenda fini immediati e particolari. Abbindolati dai paradigmi dell'esistente si finisce per seguire quello che Aristotele definiva come phainomenon agaton, il bene apparente.
4. Communitas vs societas
Le società così come le conosciamo sono, del resto, qualcosa di relativamente recente: la societas degli antichi è più “comunità” che “società”. La communitas ha basi etnico-culturali, mentre la società ha un fondamento civico, ossia indipendente da fattori storico etnico-culturali. Per i Greci la base della convivenza era la polis, ossia una comunità-città-Stato formata da tutti coloro che vi appartenevano per nascita e ceto (schiavi o stranieri non erano parte riconosciuta della polis). I Romani, anche per le ragioni legate alla struttura politica di un vasto impero, passeranno dalla città-Stato alla res publica e questo è già un grande salto concettuale: se i Greci appartengono ancora al grande reame dell’antichità, i Romani sono già “moderni” e la società occidentale è, purtroppo, la diretta erede più del sistema romano che di quello greco. E’ una scelta opinabile quella di tradurre la Politeia platonica con il latino Res publica in quanto i due concetti non hanno una sincera corrispondenza diretta. Ancora più incerto ritenere che la Res publica romana abbia una qualche relazione con qualsivoglia concetto di Repubblica in senso moderno.
I Romani, nell’estensione del loro Impero, erano pur sempre una communitas estesa basata sulla civitas, la quale aveva già un dominio di applicazione etnicamente più esteso rispetto alla polis. Famosa l’invocazione di Saul di Tarso della sua cittadinanza romana per porlo nella cerchia di giudizio dei conquistatori: Civis Romanus sum. Un retaggio di queste epoche lo si ritrova ancora nel sintagma Blut und Boden, Sangue e suolo, che congiunge lo ius sanguinis con lo ius soli e verrà poi utilizzato nelle terribili ideologizzazioni dello scorso secolo.
La principale differenza tra societas e communitas è che una società è dominata/controllata dalle sue classi tanto quanto la comunità è controllata dalle sue etnie maggioritarie. In entrambe i casi abbiamo modelli sociali che tendono al conflitto: classe contro classe o etnia contro altra etnia. Il grande Platone spiega come evitare questi paradossi con frasi semplici e meravigliose: «potrai avere uno Stato ben governato solo se riuscirai a trovare, per chi vorrà governarlo, un modo di vivere migliore del potere stesso». Ma la modernità, armata dei suoi paradossi e delle sue idiote finzioni, preferisce dare al sommo Platone l’epiteto di “nemico della società aperta” e “falso profeta dell’umanità” (Popper, 1944). La quantità di scelleratezza, arbitrio, hybris e ignoranza che bisogna applicare al sommo Platone per leggerlo in questo modo è ancora un altro sintomo e segno dei tempi: o tempora, o mores!
A questo punto della storia umana parrebbe lecito chiedersi perché, a dispetto di tutti i grandi annunci, le rappresentazioni, la propaganda, le dichiarazioni ufficiali e di principio, una società migliore (nel senso di una società autenticamente umana) non è ancora stata realizzata e non sembra quasi neppure all’orizzonte? Forse perché siamo in maggioranza esseri brutali, insicuri e primitivi, troppo dipendenti psicologicamente dal gruppo e ad appena un passo dalla scimmia? Perché nonostante millenni di storia non siamo ancora capaci di comprendere la brevità della vita mortale ed elevarci al di sopra delle piccolezze e banalità del quotidiano? Se il pensiero del limite dell’esistenza fosse più presente dietro le scelte e il rapporto con gli altri, sicuramente pondereremmo ben diversamente la vita e l’esistente. Essendo, però, animali primitivi, siamo anche animali gregari e in balia del più determinato tra noi che, sovente, è anche il più primitivo e brutale. Ed è costui che, nella storia, ha infaustamente diretto il nostro destino collettivo. Basta che un individuo dalla psiche contorta e stravolta vesta i panni giusti e cominci a gridare “seguitemi” e sono quasi tutti pronti a credergli e ad andargli dietro. Così, quando le moltitudini trasformano il mondo in una distesa d’immenso vuoto, non rimane più nessun luogo dove poter ancora scappare.
(Sergio Caldarella, Paradossi del bene individuale vs bene collettivo in «Marginalia» genn. 2011)