Saturday, December 25, 2010

Su un’etimologia riconducibile al De Necromantica Siracusana


Risale al mese scorso la pubblicazione, da parte del saggista svedese Klaus Nýr, professore emeritus dell'università di Stoccolma, di un consistente volume dal titolo On Ancient Scandinavian Etymologies (Arcadia Publishing, Estevan), un libro estremamente complesso e impegnativo dove si accenna anche ad una versione del De Necromantica Siracusana, un antico grimorio che prende il nome da fatti avvenuti nell’antichità a Siracusa, la cui unica edizione fino ad oggi conosciuta era quella gelosamente custodita nella biblioteca dell'Università di Princeton, mentre il professor Nýr parla di un’altra copia da lui rinvenuta nella biblioteca centrale dell’Università di Mosca.
Nel quarto capitolo del suo libro sulle antiche etimologie scandinave il professor Nýr discute della possibile esistenza di un manoscritto cinquecentesco intitolato De Historia dracorum, attribuibile ad Olaus Magnus, autore dell'Historia de gentibus septentrionalibus (Romae, 1555). Nella sua dotta argomentazione il professor Klaus Nýr parte da una serie di osservazioni e immagini sulle serpi oceaniche che divorano gli equipaggi delle navi contenute nell'Hist. de gentibus septentrionalibus, insieme ad accenni similari provenienti da Saxo Grammaticus (Gesta Danorum, imprese dei Danesi) e nell'Ágrip af Nóregs konunga sögum (Compendio delle saghe dei re norvegesi, ed. F. Jonsson, Halle 1929), fino a menzionare una pergamena del XVII secolo, dove viene riportata l’esistenza, sotto forma di manoscritto rilegato, del De Historia dracorum, cenni del quale sono anche citati nel De Necromantica Siracusana.
Il professor Nýr non si limita però a dimostrare l’esistenza di questo antico manoscritto ormai perduto, ma tenta, grazie ad una molteplicità di altri riferimenti indiretti, di compiere una parziale ricostruzione del testo smarrito, arrivando anche ad ipotizzare uno scomparso "culto dracorum" praticato nei Paesi scandinavi fino al tardo periodo della cristianizzazione. A sostegno della sua affascinante tesi Nýr utilizza la Kristini Saga (Saga della cristianizzazione, ed. B. Kahle, Halle 1905) ed i Von Unaussprechlichen Kulten (Sui culti innominabili) di Friedrich von Junzt (anche se, a proposito di quest’ultimo controverso volume, c’è da ritenere per molti motivi che la citazione sia particolarmente inesatta).
Nel quinto capitolo il professor Nýr fa riferimento alla copia moscovita del De Necromantica Siracusana, di cui fino ad oggi si ignorava l’esistenza, come grimorio simbolo di alcuni culti innominabili, come quello dedicato a Dioniso Melemigis, e afferma di aver tradotto alcuni punti in duriaco e di aver trovato diverse pagine di passi in copto con gli occhiali – le menzionate “lettere con gli occhiali” sono un espediente di deformazione della scrittura che ritroviamo già negli ambienti tardoegiziani della grecità alessandrina, così come all'interno della tradizione cabalistica ebraica e negli autori arabi che si occupavano di materie occulte. L’uso copto delle lettere con gli occhiali è spesso testimoniato in molti manoscritti e in Europa Cornelio Agrippa, nel De occulta filosofia (1510), giunge a definire questo sistema di scrittura come scriptura celestis.
In questa sua raccolta di scritti il prof. Nýr anticipa – e speriamo presto – una prossima traduzione e pubblicazione di queste parti dal De Necromantica Siracusana che definisce, lusinghieramente, come “a sort of opposite Beowulf (una sorta di Beowulf al contrario)”.
Una delle rare limitazioni nel volume del professor Nýr è il fatto che egli assume l’idea del culto rivolto ai draghi solo nel suo aspetto maligno, non considerandone invece le profondità simboliche espresse anche in molte tradizioni antiche in cui il drago viene invece visto come simbolo di saggezza o come simbolo di unione della materia e dello spirito (poiché riunisce in sé l’aspetto del serpente e quello dell’uccello – in Cina il drago è ancor’oggi un simbolo interamente positivo). Il volume del professor Nýr, invece, tenta di dimostrare la trasformazione di questo concetto del “drago maligno” in una terminologia atta a descrivere oggetti e rituali magici negativi. Egli parte da una citazione contenuta nella Historia Norvegiae (Monumenta Historica Norvegiae, ed. G. Storm, Kristiania 1880) in cui viene descritta la predizione del futuro da parte degli stregoni ed in cui viene dichiarato che essa avviene per immundum spiritum quem gandum vocitant, per mezzo di uno spirito immondo che chiamano gandum (pp. 82-87 De Finnis). Nella mitologia nordica questo demone viene chiamato con il nome Gandr, che indica una molteplicità di cose da “bacchetta magica”, “magia”, “oggetto magico utilizzato da streghe”, fino a “lupo” o “mostro”. Gianna Chiesa Isnardi ha scritto in merito: “Nella varietà di significati è espresso il concetto fondamentale del demone come essenza magica che determina la qualità di un oggetto o di un animale”.
In On Ancient Scandinavian Etymologies il professor Nýr collega il termine Gandr ad un’antica etimologia del nome usata per indicare l’aspetto nefasto del drago e deriva persino l’origine della magia nera presso i popoli scandinavi da quest’associazione. Egli descrive poi anche alcune tribù vichinghe dell’era di Vendel (la più antica era vichinga cui appartengono le navi tomba ritrovate nell’Uppland – Svezia centrale) interamente dedite a “culti neri”: queste tribù erano, non a caso, le più temute tra le popolazioni vichinghe (cenni a queste tribù si trovano anche nel volume del 1959 di E. G. Oxenstierna, Die Wikinger). Queste tribù furono autrici, nelle loro scorrerie sui mari, di ferocissime stragi e persino atti di cannibalismo rituale. Alla fine il professor Nýr suppone (come già Jones) che queste tribù, combattute anche dagli altri Vichinghi, si siano rifugiate, insieme ai loro “culti innominabili”, al di là dell’Atlantico sostenendo anch’egli, seppur indirettamente, la tesi della conquista vichinga dell’America.
Tornando al tema del Gandr è doveroso osservare che, pur nella sua monumentale erudizione, il professor Nýr non si avvede che nel De Necromantica Siracusana si parla di una denominazione Ittita per indicare un demone capace di assumere anche la forma di un grande serpente marino la cui trascrizione, riportata in un greco approssimativo, è γανδυς (a meno che questa parte del De Necromantica manchi nella copia russa)! Oltre alla sconcertante similarità fonetica si può anche arrivare ad ipotizzare una linea di contatto linguistica tra cultura ittita e culture nordiche, spiegando l’origine del termine sulla base di una serie di trasmissioni linguistiche. La lingua celtica continentale infatti, insieme al greco o, per l’appunto, all’hittita del caso in oggetto, appartiene al gruppo linguistico indoeuropeo centum (contrapposto al satem per una differenza tra consonanti palatali); è attraverso la mediazione della vastissima area culturale celtica che il termine può esser giunto, trasformato foneticamente ma non del tutto semanticamente, nelle aree delle culture scandinave.
Il rapporto e l’interscambio culturale tra popolazioni del Nord e del Sud Europa, oltre ad essere archeologicamente ben documentato, è attestato nel tessuto mitologico come, ad esempio, quando Sigurdr si dirige verso il Paese dei Franchi, dove scioglie l’incantesimo della valchiria Sigrdrifa (Brunilde), destandola dal suo lungo sonno e ricevendo, come ricompensa, la sua promessa d’amore e la saggezza trasmessagli dalla valchiria con l’insegnamento delle rune. Questo mito, e diversi altri, testimoniano proprio un passaggio diretto di contenuti culturali. Forse prendendo anche spunto da questo contesto il professor Nýr suppone che la copia moscovita del De Necromantica Siracusana sia arrivata fino in Russia al seguito di popolazioni scandinave dirette verso la Mongolia o la Siberia: quello che egli assume per certo è che il volume contenga interpolazioni appartenenti alle popolazioni scandinave e sarebbe giunto in Danimarca prima, e immediatamente dopo in Svezia, nel periodo delle guerre galliche, insieme ad un gruppo di superstiti del Popolo Scuro degli Averoni menzionati negli Annales di Flavio Alesio. Queste popolazioni, secondo Nýr, erano depositarie di un “grimorio errante” rappresentato dal De Necromantica Siracusana. In effetti la tematica relativa alla tribù degli Averoni (Averones) è più complessa di quanto non appaia, poiché in molti hanno utilizzato questo popolo anche con fini fantastici (come nel caso di Clark Ashton Smith ed altri). Il professor Ludwig Rachenarren, citato da Nýr a sostegno della sua ipotesi, riporta a sua volta una citazione non specificata di un erudito americano: «la tribù degli Averones (...) portò con sé un grimorio infernale conosciuto in epoche successive come Liber Ivonis o Livre d’Eibon. Erano una razza scura dedita al culto di Tsathoggua, Sodagui o Sadoqua, che imposero nella regione in cui si stabilirono; come conseguenza, in epoca gallo-romana la regio Averonu, o Averonia, fu temuta come il luogo in cui si praticava una forma di terribile negromanzia. Particolarmente aborrite erano le città di Simaesis (Ximes) e Avionum (Vyones), dove fiorivano nell’oscurità culti particolari. Timidi riferimenti agli averoni e ad Averonia si trovano in autori gallo-romani poco conosciuti. (...) Nell’orrendo poema negromantico De Noctis Rebus (circa 390 d.C.), Treviro allude in questi termini agli averoni: Niger. Informisque. Vt. Numen. Averonum. Sadoqua., che nella traduzione inglese di Teobaldo, stampata privatamente nel 1711, suona così: Nero e informe come zolla d’inferno. L’aborrito Sadoqua, dio di Averonia”. Nelle leggende merovinge e carolinge esistono oscuri riferimenti agli averoni» (p. 357). Anche questa parte della ricostruzione presenta purtroppo non pochi problemi di storicità e autenticità sui quali è forse superfluo dilungarsi al momento.
E' probabile che una delle città di cui si fa cenno fosse la città fortificata di Alesia, sul monte Auxois, in quella che i Romani chiamavano Gallia Transalpina, città assediata da Cesare nel 52 a. C. e difesa da Vercingetorige (De Bello Gallico, VII, 69 sgg.); alle falde di quel monte sorge oggi il villaggio di Alise-Sainte-Reine nel dipartimento della Côte-d’Or. Le ipotesi che lo scritto del professor Nýr contribuisce a creare sono molte e suggestive e il tempo sarà, in proposito, certamente foriero di nuovi ed interessanti sviluppi.

Sergio Caldarella