Si racconta che il Buddha, mentre si trovava sul monte Gridhrakuta, colse un fiore di fronte ai suoi discepoli e lo tenne a lungo davanti a sé contemplandolo. Coloro che lo circondavano si attendevano una spiegazione di quel gesto, mentre Mahākāśyapa si limitò a sorridere al maestro che reggeva il fiore. Il Buddha disse allora: «le parole non possono raggiungerlo, le parole non possono insegnarlo e questa è la verità che ho appena insegnato a Mahākāśyapa». Da quel giorno Mahākāśyapa divenne il primo patriarca dello Zen poiché, proprio in questo kōan, noto come “Il Sermone del fiore” (教外別傳) (ma anche “Il Fiore e il sorriso”), è racchiusa l’origine dell’interpretazione Zen, ossia una trasmissione conoscitiva (prajñā) capace di aver luogo oltrepassando il medium della parola o della scrittura. I quattro versi più importanti in questa storia sono infatti:
教外別傳 Una comunicazione che oltrepassa la scrittura
不立文字 non fondata sulla parola scritta
直指人心 che mira direttamente alla mente umana
見性成佛 e arriva alla buddhità attraverso se stessi
In questi succinti versi della
tradizione orientale viene proposta la trasmissione di una sapienza radicale capace
di offrire accesso a realtà superiori alle forme
della comunicazione strutturata convenzionale, ma pur sempre realtà in qualche modo comunicabili che,
allo stesso tempo, racchiudono una profondità di significati irraggiungibile ai
soli schemi della parola articolata. Il pensiero orientale si nutre, fin dalle
sue origini, di verità antipodi in cui l’occidentale riesce solo a scorgere le
forme del paradosso: «Il Dao che può esser nominato non è l’eterno Dao» sarà la
maestosa frase di apertura del Dao de Ching
dichiarando, perentoriamente e fin dall’inizio, che la trasmissione di
contenuti fondamentali non è possibile attraverso il solo medium della parola che tanto affascina l’occidentale e stabilendo,
allo stesso tempo, un’irrisolvibile asimmetria tra nominabile e nominato parallela
ad una sovrabbondanza del significato rispetto al linguaggio. Nel Sermone del fiore, non soltanto la
parola non è in grado di cogliere la natura più intima dell’insegnamento del
Buddha, ma è solo attraverso il distanziamento dalla comunicazione esplicativa che
Mahākāśyapa riesce a raggiungere il cuore di quell’insegnamento silente. Allora,
parafrasando l’incipit del Dao de Ching, «Il Significato che può
esser nominato non è l’eterno Significato». Se la filosofia occidentale
contemporanea avesse recepito anche questo solo aspetto del pensiero orientale si
sarebbe risparmiata molti affanni e tante gravi fallacie che ancora l’appesantiscono
sotto il rinnovato antropocentrismo della prestidigitazione che la riduce a
linguaggio.
In un altro racconto posteriore noto
come “Quello che piace ai pesci” (魚之樂), ed i cui protagonisti sono il grande maestro Chuang
Tzu ed il suo amico Hui Tzu, si racconta che Chuang Tzu e Hui Tzu passeggiavano
nei pressi della cascata del fiume Hao, quando Chuang Tzu disse rivolto
all’amico: “Vedi come i pesci vanno in superficie e nuotano come piace a loro?
Questo è ciò che davvero piace ai pesci.” A quella dichiarazione Hui Tzu replicò
immediatamente: “Ma tu non sei un pesce, come puoi dunque sapere quello che
piace ai pesci?” [Hui Tzu si esprime qui utilizzando una struttura logica inferenziale
del tipo p→q].
A queste parole Chuang Tzu rispose: “Allora, se è per questo, tu non sei
me, quindi, come puoi sapere se io non so cosa piace ai pesci?” [Chuang Tzu riprende,
a sua volta, la struttura logica dell’obiezione proposta da Hui Tzu, invertendola
non soltanto in maniera da refutare l’argomentazione dell’amico, ma per condurre
ad una condizione di stallo tipica della logica bipolare]. Hui Tzu, non
avvertendo il significato di quell’inversione, continua, però, ad ostinarsi sulla
sua linea argomentativa, invocando ancora il principio di soggettività e aggiungendo
una staffilata che egli ritiene conclusiva: “Hai ragione, io non sono te e non
so di sicuro cosa tu sai. Comunque, tu non sei di certo un pesce e questo prova
che tu non sai cosa piace ai pesci!”
A
questo punto, Chuang Tzu replica con una richiesta che conduce all’argomento finale:
“Torniamo per favore alla domanda originale. Tu mi hai chiesto come so cosa
piace ai pesci, allora tu già sapevi che lo sapevo quando mi hai posto la
domanda. Ed io lo so semplicemente stando qui vicino al fiume Hao”. Chuang Tzu,
riferendosi indirettamente al principio taoista del wu-wei (無為), l’agire senza agire, propone la via di una comprensione libera da quelle
costrizioni in cui il linguaggio ingabbia la mente capace di intendere solo
relazioni consequenziali. Il Dao de Ching
riporta: «Il Dao è sempre non-agente (wu-wei)
e, nonostante questo, nulla rimane incompiuto» (37); l’azione che proviene
dalla non-azione, un principio inconcepibile per l’impostazione materialista
occidentale in cui l’azione, il patire del mondo, è la sola forza agente
riconosciuta e riconoscibile.
Ad
una lettura poco attenta del racconto “Quello che piace ai pesci”, può apparire
che Hui Tzu abbia confutato logicamente la dichiarazione di Chuang Tzu
semplicemente invocando il principio di soggettività, chiedendo, ossia, come
potesse egli, visto che Chuang Tzu non è un pesce, sapere cosa davvero piace ai
pesci. Se, però, si indaga meglio la struttura di questo racconto, ci si
accorge che Hui Tzu, diversamente da Mahākāśyapa, perde qui l’opportunità di
imparare proprio da quanto il maestro non dice – poiché con un maestro bisogna soprattutto
considerare quello che fa e non quello che dice o, come dirà il Piccolo Principe, “il ne faut jamais
écouter les fleurs. Il faut les regarder et les respirer, non bisogna mai
ascoltare i fiori. Bisogna guardarli e respirare il loro profumo”.
Nonostante
Chuang Tzu provi ad indirizzare l’amico mostrandogli la gabbia della sua stessa
logica quando rivolta l’argomento osservando: “tu non sei me, quindi, come puoi
dunque sapere se io non so cosa piace ai pesci?”, Hui Tzu, invece di ascoltare
il messaggio celato nell’osservazione del maestro, prova ancora ad incalzare
utilizzando una logica fattuale e consequenziale che si potrebbe ben dire di
tipo occidentale: “tu non sei di certo un pesce e questo prova che tu non sai
cosa piace ai pesci!” (a ¬ a ⇒ ¬ b).
Chuang Tzu, come ogni maestro, non volendo evidenziare apertamente la fallacia
dell’amico, gli chiede allora bonariamente di tornare all’argomento iniziale e
risponde invocando la comprensione per prossimità: “lo so semplicemente stando
qui vicino al fiume Hao”, nuovamente una risposta, come nell’insegnamento del
Buddha, che non può essere verbalizzata o riassunta unicamente attraverso il
suo contenuto di causa ed effetto. L’essenziale in questo kōan è che per capire è anche
necessario riuscire a sentire. Essere pienamente accanto al fiume Hao, sentire il fiume ed i pesci nel suo
greto, smarrendo la distinzione fallace tra Io e mondo che allontana invece di
avvicinare: la causa determina l’effetto tanto quanto l’effetto determina la
causa. Un occidentale qualunque, di fronte ad una tale argomentazione, si
ostinerebbe anch’egli nella fallacia di Hui Tzu, strillando pestiferamente a
sua volta: “tu non sei di certo un pesce e questo prova che tu non sai cosa
piace ai pesci!” Del resto, l’incapacità di comprendere si barrica sempre
dietro rigide formulette e filastrocche di cause e conseguenze rimanendo fatalmente
estranea ai segreti celati nella comprensione che partecipa del compreso.
Quanto più l’uomo si addentra nelle terre della rigida consequenzialità tra
causa ed effetto, nome e cosa, tanto
più accede anche al mondo della separazione, ad una realtà fredda dove esistono
soltanto determinazione e negazione, a
e ¬ a, allontanandosi fatalmente dal
sentire e dalla comprensione autentica capace di contenere, nel suo abbraccio,
osservatore ed osservato, significante e significato.
Il
Genesi descrive l’epoca astorica precedente
alla caduta come quel tempo in cui il nome è
la cosa, mentre i Greci intuivano
questa ricongiunzione nella più possente delle loro forme, ossia il simbolo (symbolon),
l’unione, il mettere insieme (symbállein)
che coincide anche con la comprensione
nel suo significato di abbraccio (opposto a diaballein,
dividere). Cogliere il significato di
qualcosa, per l’antica Grecia e l’antico oriente, significa allora abbracciarla. Il symbállein, ricompone ciò che è spezzato, mette insieme quel che
appariva diviso e il sommo Platone vedeva in questa ricomposizione il simbolo
supremo dell’Amore in cui ciò che è spezzato torna, finalmente, ad essere
intero, una profonda riappacificazione tra il cuore e la vita espressa con
grandiosità stilistica nelle parole di Diotima di Mantinea secondo cui l’Amore
unisce l’universo a se stesso: “Ogni aspirazione al Bene meriterebbe il nome di
Amore”, ponendo qui l’Amore non solo come symbolon,
ma anche come synolon fondamentale tra
l’infinito del Bene e l’infinito del cosmo. L’altra grande conseguenza di
questa profondissima metafisica è che la separazione è il solo dolore.
Secoli dopo, Arthur Schopenhauer,
il primo filosofo occidentale a riconoscere nella sua opera il valore
concettuale della tradizione dell’estremo oriente, nei Parerga und Paralipomena, scriveva un aforisma che potrebbe ben
fare da corollario al racconto Quello che
piace ai pesci: «L’uomo che sale in una mongolfiera non si sente come se
stesse ascendendo; vede solo la terra sprofondare sotto di lui.
C’è un
mistero che capiranno solo coloro che ne sentono la verità». Un grande
riconoscimento filosofico del rapporto tra il sentire e la verità. Il Piccolo Principe, riecheggiando certe
argomentazioni di Pascal, lo rivelerà annunciando la semplicità del suo
segreto: Voici mon secret. Il
est très simple: on ne voit bien qu’avec le cœur. L’essentiel est invisible pour les yeux, Ecco
il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore, l’essenziale
è invisibile agli occhi. Un’affermazione
incomprensibile alla mente giudicante e calcolante per la quale tutto è sempre
e solo una questione di pesi e misure.
Quando proviamo a comprendere
l’oriente attraverso le categorie dell’occidente in realtà ce ne allontaniamo,
come quei discepoli che pensavano vi potesse essere una spiegazione al sorriso del Buddha che non partisse da noi stessi.
L’oriente non può esser compreso appiattendolo nell’occidente perché il suo
pensiero non è un’epitome del pensiero occidentale, ma un grandioso compimento
concettuale parallelo ed esterno alle categorie dell’occidente. Quando si prova
ad afferrare l’oriente riducendolo all’occidente, allora tutto ciò che ci si
trova di fronte è, a malapena, uno specchio deformante, offuscato da categorie
imposte ad un pensare reso irriconoscibile dall’identificazione con strutture
concettuali e categorie improprie. Per fare un esempio, nella letteratura
sull’argomento si ricorre spesso al termine “paradossi Zen” perché certe
storie, poesie e pensieri dell’oriente parlano
attraverso una struttura che l’occidentale riconduce a quella del paradosso. Quello
che noi però chiamiamo “paradosso”, l’orientale lo chiama “rivelazione”. Il
pensiero del lontano oriente, attraverso insegnamenti “paradossali”, prova ad oltrepassare la forma logica delle
parole e del significato per ricongiungersi a questa su un livello di
comprensione più ampio o più profondo – il pensiero orientale, così come il
pensiero occidentale arcaico e antico, preferisce sempre la profondità
all’altezza. Sono modi lontani di intendere: se l’occidentale è ossessionato
dalla definizione e dalla manipolazione, vuol sempre dividere, “chiarire”
(l’altra sua ossessione è quella della luce come disvelamento), frazionare e
sezionare, il pensiero orientale antico sente e insegna che questa è vanità o
follia dell’uomo. Cogliere il reale,
termine in sé sempre ambiguo, attraverso il sentire,
significa allora avvicinarsi alle molteplicità della realtà in modi che la separazione introdotta dalla distanza tra noi
e il mondo non è in grado di intendere. Bisogna imparare a respirare la verità
per capire che essa è cosa vera.
(Tratto da: Sergio
Caldarella, Digressione Zen: il dicibile
nell’indicibile, una lezione per l’occidente in «Studi Collaterali. Rivista
di Cultura e Pensiero», Nr. 43, Vol. IV, Milano, 2014).