Sunday, November 27, 2011

L’invisibilità dei sapienti


Se agli inizi degli anni ’20 del secolo scorso, giungendo alla stazione di Praga, un viaggiatore avesse chiesto dove si trovava la casa di Franz Kafka, pochissimi avrebbero saputo fornire indicazioni specifiche perché all’epoca, a parte un ristrettissimo gruppo di intellettuali, quasi nessuno conosceva quello che viene ormai definito come “il grande praghese” – facendo magari un certo torto ad altri grandi praghesi quali Jehuda Loew, Rilke, Jaroslav Hašek, Gustav Meyrink/Meyer (praghese d’adozione) e moltissimi altri tra cui lo stesso Max Brod senza il quale, di Kafka, non avremmo quasi nulla. Per un viaggiatore dei nostri tempi è invece diventato pressoché impossibile visitare Praga senza imbattersi in uno dei ritratti di Kafka quasi ad ogni angolo della città. Il viaggiatore immaginario di cui sopra avrebbe avuto la stessa difficoltà a reperire notizie andando a Lisbona e chiedendo di Pessoa, nell’Amsterdam di Spinoza, nella Copenhagen di Kierkegaard: poiché anch’essi erano invisibili al loro tempo. Nietzsche, altro grande invisibile alla sua epoca, diceva che se gli uomini ti acclamano, vuol dire che sei sul sentiero di qualcun altro.
Nonostante i preclari esempi di cui trabocca la storia culturale sono in molti, in particolare nell’epoca dell’immagine in cui ci è dato vivere, a ritenere che la visibilità di un pensiero nel suo tempo sia il criterio di giudizio della sua validità e per questo pongono tanta attenzione ai vari premi e conferimenti. Eppure l’invisibilità di certi scrittori alla società del loro tempo grida forte contro questi meccanismi. I nomi di Rudolf Eucken, Henrik Pontoppidan, Wladyslaw Stanislaw Reymont, sono oggi quasi del tutto dimenticati eppure, tra il 1908 e il 1924, a tutti questi è stato conferito il premio Nobel per la letteratura. Allo stesso tempo quasi tutti hanno sentito parlare o conoscono Proust, Kafka o Joyce i quali, seppur attivi nello stesso arco di tempo, non ricevettero mai il premio dell’Accademia di Stoccolma. Non dovrebbe forse questo significare qualcosa e magari insegnare a diffidare di pensieri troppo riconosciuti dal loro tempo? Da qui, però, bisognerebbe forse potersi ingegnare per riuscire ad immaginare come possa anche essere il contrario, che siano ossia proprio tali pensatori a non voler apparire con troppa evidenza nel loro tempo. L’invisibilità del sapiente può anche esser vista come un’astuzia per sfuggire al panopticon dei poteri. Troppa visibilità ha sovente attirato tanto odio, condannando questi grandi alla cicuta, alla tortura, al patibolo, alla scomunica, alla pira o alle tante altre villanie con le quali il volgo sempre affligge coloro che non gli assomigliano. Curioso pensare che prima li ammazzino e poi gli erigano statue. Ma questa non è, in fondo, la sola ragione per la quale coloro che amano il sapere se ne stanno da parte: l’amore per la conoscenza è una pianta preziosa e rara e, dunque, una cosa per pochi, mentre la società di massa impone che ci siano quelli che gridano per raccontare una verità fatta a misura di tutte le teste e il loro urlo è così forte e banale da assordare chi ha ancora orecchie fini. Pasolini diceva convinto: «La cultura media è sempre corruttrice». Tra queste grandi differenze finiamo per avere da una parte i grandi semplificatori, quelli che raccontano la fiaba di un mondo facile e banale e dall’altra quei pochi che si aggirano tra le strade notturne del sapere sussurrando: “...eppur si muove”. Spinoza avrebbe magari detto che una cosa non cessa di esser vera solo perché non è accettata dai più. La storia insegna che la conoscenza autentica non ha mai avuto bisogno delle folle, anzi in un certo modo le rifugge: la sapienza grida sì “per le vie, fa udire la sua voce per le piazze, chiama nei crocicchi affollati, all’ingresso delle porte” (Proverbi 1:20), ma è una voce sottile che poche orecchie sanno, possono o vogliono cogliere. Che senso avrebbe dunque provare a raggiungere quelli che della voce del sapere non sanno che farsene? Il califfo Omar, quando nel 640 fece distruggere quel che restava della favolosa biblioteca di Alessandria, giustificò il suo atto con un paralogismo buono per le orecchie del suo tempo: «se il contenuto di questi libri si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli» (anche se alcuni ritengono che si tratti di una storia inventata da Ibn al-Qifti e resa nota in Europa dagli scritti di Grigorios Bar Hebræus). Sia come sia il califfo Omar appare in questa narrazione come quei tanti che della conoscenza non hanno mai saputo che farsene.

In una realtà che rifugge dal senso, l’allontanarsi del filosofo diventa allora un avvicinarsi al significato e il suo silenzio un incommensurabile atto d’accusa. Quelli che si ingegnarono a tormentare e poi uccidere il grande Manlio Severino Boezio non capivano che con lui stavano mettendo a morte l’ultimo dei grandi Romani, sancendo la fine di quell’Impero di cui essi erano ormai solo ombre. Dalla sua cella Boezio scrisse la Consolatio Philosophiae, un maestoso commiato e un indelebile atto d’accusa poiché anche un uomo solo può ergersi contro un mondo intero. Nella Consolatio Boezio arriva anche a spiegare, con una lucidità commovente, l’irrealtà del male: «I cattivi, i quali sono la maggioranza tra gli uomini (ut malos, qui plures hominum sunt), non sono (…) Io non contesto, infatti, che i cattivi siano, appunto, cattivi; ma nego nettamente e semplicemente che essi siano. Infatti, allo stesso modo che un cadavere potresti chiamarlo “uomo morto”, ma non semplicemente “uomo”, così son disposta a riconoscere che i viziosi siano, appunto, cattivi, ma non potrei mai ammettere che essi, in assoluto, siano». Dopo Boezio, come ci si poteva aspettare, giunse il Medioevo.

Nella tradizione ebraica esiste il concetto dei lamed-vav (ל"ו צַדִיקִים‎‎), i trentasei giusti sui quali si racconta riposi il destino del mondo e il Talmud spiega che, se una sola di queste trentasei persone venisse a mancare in una generazione, il mondo cesserebbe di esistere (Sanhedrin 97b; Sukkah 45b). Un altro modo per chiamare i trentasei in ebraico è Nistarim, coloro che vivono nascosti e sono, in genere, invisibili ai molti: questi possono essere portatori d’acqua, lustrascarpe, barbieri, perché ciò che essi sono non è in ciò che fanno e in questo si annida una grande lezione anche per il nostro tempo, semmai il nostro tempo fosse in grado di capire alcunché. Il libro del Genesi riporta una concezione affine quando ad Abramo viene chiesto di trovare un certo numero di sapienti onde risparmiare Sodoma. L’esistenza del mondo è, nella tradizione etica dell’ebraismo, garantita dall’esistenza dei sapienti – è quando Abramo non riesce a trovare nessun sapiente che Sodoma viene condannata alla distruzione. Maimonide utilizzerà questo tema sotto altra forma quando scriverà che l’esistenza del mondo si basa sul respiro dei bambini che studiano affermando, implicitamente, che il fondamento del mondo sono i bambini, ossia l’innocenza, e lo studio. Pavel Florenskij condurrà ancor oltre questo discorso scrivendo: «A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè “una convinzione di cose invisibili”. Il pensiero può essere sano soltanto entro i limiti di questa fede, fuori dei quali diventa deforme» (Le porte regali: saggio sull’icona). La meraviglia di queste parole è riservata a chi le intende e intendere è una tra le forme del sentire e per questo nelle nostre società ove gli esseri umani vengono manipolati quasi al limite dell’inesistenza e dell’inconsistenza il sentire dev’essere la prima vittima del sistema.

La società del contrario intorno a noi, ossia un’epoca che vive nella più profonda contraddizione e dimenticanza di sé, ha sostituito il fare all’agire e quando l’uomo vive unicamente nella dimensione del fare, sente come se non avesse più nulla da cercare nella dimensione del pensare e allora vive abbandonato al narcisismo e alla vanità. In breve, vive abbandonato alle nevrosi della materia, mentre proprio uno dei grandi insegnamenti, da Socrate a Freud, è quello secondo cui il pensiero cura o, meglio, la cura è nel pensiero. L’appiattimento sul fare ci ha anche disabituati a pensare in termini diversi da piccoli canoni e secondo il folle principio di “pensa solo a te”, ci ha ossia disavvezzati a pensare realmente in termini di valori umani e individuali, trasponendo tutto nella dimensione dell’omologazione e del collettivo: “lo fanno tutti” ha il significato intrinseco di “...allora va bene farlo”. Pare proprio si sia allora riusciti nel creare una società che è, al tempo stesso, massificata e narcisista: due termini apparentemente inconciliabili che trovano, invece, impossibile conciliazione nella triste omologazione contemporanea. Un paradossale narcisismo massificato è quello in cui tutti aspirano a ciò cui aspirano tutti gli altri e, poiché il narcisista adora non solo la proiezione della propria immagine, ma anche la sua sproporzionata riproduzione, egli non potrebbe mai riuscire a comprendere colui che invece si ritrae dal ballo, le lodi e le mete comuni. Come potrebbe del resto il rospo intendere che al falco non interessano le pantegane? La tradizione ebraica è fin troppo chiara sul ruolo umile dei sapienti che Christoper Morley spiega in maniera eccellente ne La Libreria Stregata scrivendo: «i veri amanti dei libri si trovano di solito tra le classi più umili. Chi ha passione per i libri non ha tempo il né la pazienza di studiare piani per ingannare i suoi simili in vista della ricchezza ».
Il contemporaneo moloch del “successo” viene anche interpretato, al di là del solito appetito di cose accumulate e da consumare, come l’imposizione della propria immagine attraverso schermi televisivi o cinematografici ed a pochi viene in mente la vacuità di quest’ennesimo delirio. Un antico detto ripeteva che anche sul trono più alto si logora il fondo dei calzoni, questo per indicare che la caducità delle umane cose si applica forse più al potere e al possesso che non al pensiero. Socrate avrebbe magari ricordato che l’ἀρετή, approssimativamente tradotto come “virtù”, consiste nella conoscenza (e pratica) del Bene che è, poi, conoscenza propria di sé.
Accettando le vacue logiche dela società contemporanea si entra in una mentalità da spettatori/consumatori anche di fronte al mondo delle idee e, conseguentemente, di fronte alla vita. Si crede che le idee debbano venire a noi ed i pensatori debbano trasformarsi nei nostri giullari proponendoci il pensiero come se fosse uno tra i tanti prodotti di consumo sugli scaffali: del resto una società mercantile vedrà mercanti ovunque. L’unico sforzo che rimane da fare è allora premere un tasto su un telecomando per veder apparire quel che si vuole sullo schermo che raggiunge tutti, ma puo’ esser raggiunto e gestito solo da pochi furboni dietro le quinte. Il pensiero, però, non è mai stato un prodotto di consumo, esso è una pianta sacra e rara che richiede una profonda attenzione alla vita e non la distrazione da essa. I filosofi autentici, quelli che un tempo venivano chiamati maestri, trovano anche un sottile gusto nel vivere celati agli sguardi dei molti e Fernando Pessoa, che dell’invisibilità aveva fatto uno dei segni della sua arte, scriveva: «Un uomo di genio sconosciuto può godere della voluttà soave del contrasto tra la propria oscurità e il proprio genio e, pensando che sarebbe celebre se lo volesse, può usare come metro del proprio valore la migliore misura: se stesso» (1915). Se, del resto, uno scrittore autentico com’era Pessoa andasse oggi in televisione e iniziasse a parlare davvero di cultura la gente non capirebbe quello che dice perché è troppo abituata ad un linguaggio sciocco, modellato su convenzioni e trucchetti di poco conto. Chiaramente in un sistema corrotto bisogna solo far parlare quelli che non hanno nulla da dire o sono interamente organici al sistema dell’idiocrazia e da qui a pensare che questo sia il solo sistema possibile il passo è fatalmente breve. Sadr âl Dîn Shîrâzî (1571-1640) scriveva già a suo tempo: «Ho dovuto constatare di persona che oggi, a voler istruire gli ignoranti e gli incolti, ci si attira solo ostilità. Ho visto brillare in tutto il suo fulgore il fuoco infernale della stupidità e dell’aberrazione (...) Ho urtato contro l’incomprensione di genti cieche alle luci ed ai segreti della saggezza (...) genti i cui sguardi non hanno mai oltrepassato i limiti delle evidenze materiali e le cui riflessioni non si sono mai innalzate al di sopra degli abitacoli delle tenebre e della loro polvere (...) Questo soffocamento dell’intelligenza, questo congelamento delle qualità naturali, questa ostilità della nostra epoca alla conoscenza, alla gnosi, alla spiritualità, al bene nostro e di tutti m’hanno consigliato infine di nascondermi a loro, e di coltivare la saggezza e la via mistica nei ritiri nascosti e sublimi». Considerazioni simili sono state parte del bagaglio del pensiero più o meno in ogni tempo e sotto ogni cielo.

Forse uno tra i più grandi drammi della società contemporanea è che a pochissimi viene ormai in mente di dubitare del proprio narcisismo e delle proprie nevrosi che, proiettate sul mondo e sugli altri, gli conferiscono un’aura tremendamente sinistra. Alla fine non viene più in mente quasi a nessuno di dubitare della stabilità delle proprie proiezioni e questo non solo impedisce di guardare al mondo secondo una prospettiva altra, ma anche di vedere la società non soltanto com’è o appare ma anche, secondo un’altra prospettiva, la visuale del poter essere. Il contrasto tra gli altisonanti annunci della nostra società, i suoi presunti grandi ideali e il comportamento degli uomini nella loro quotidianità è fin troppo stridente per non venir notato da uno sguardo scevro dai condizionamenti della propaganda dominante. La conoscenza non può che essere trasformazione interiore e quando di fronte all’ex Presidente Bush Jr. o davanti al Signor Berlumponi non si vede una persona piccola e confusa o un “vecchio malvissuto” (Manzoni), ma si pensa di avere a che fare con immagini di successo, si mostra solo la nostra incapacità di vedere davvero. La conoscenza autentica, in quanto supremo antitodo alla hybris, potrebbe insegnare nuovamente a vedere davvero ed è magari per questo che i vari potentati sono tutti uniti nel tenere il sapere autentico lontano dalla società alla quale essi purtroppo impongono la loro piccolezza. Come si fa, dopo, a meravigliarsi se le cose vanno tanto male come vanno?

(Sergio Caldarella, L’invisibilità dei sapienti, in Bollettino di Studi Contemporanei, Nov. 2011).

Wednesday, November 9, 2011

Le aspirazioni della società del contrario.


«Pare che una tra le peculiari aspirazioni di una società fondata sul capitale e orientata al consumo sia quella di ridimensionare la cultura a mera funzione di intrattenimento, falsamente interpretando come conoscenza tutto ciò che intrattiene le moltitudini. In questa società del contrario quello che viene prima di tutto è il presunto benessere materiale, ossia l´acquisizione e il mantenimento di oggetti vari per il breve periodo del vivere, e questo implica anche che la società occidentale tende e tenderà sempre più a configurarsi sul rapporto tra privilegiati e coloro che invece non godono di una posizione sociale benigna, orientandosi verso i primi e questo, oltre a creare conflitti e disequilibri, rappresenta anche il fallimento di ogni ideale di umanesimo in cui è l´essere umano il centro del vivere e non il capitale. Nessuno potrebbe negare che i presunti grandi fini di questa società, se guardati con lucidità, non solo sono facili da capire e conseguire, ma anche ben poca cosa. (...) Se in una società che si proclama avanzata è ancora e sempre il denaro a rendere misura di tutto, anche dell’uomo trasformato in una semplice somma di cose, questo è solo l'ennesimo segno di una rinnovata barbarie».

(Tratto da: Sergio Caldarella, La Società del Contrario, Zambon 2005, p. 29)